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Etica professionale e virtù: la pratica della prudenza

Ponendo le basi dell’etica, Aristotele definisce la virtù una disposizione stabile che orienta la scelta verso il giusto mezzo, ossia verso la medietà tra due vizi, uno per eccesso, l’altro per difetto

Ponendo le basi dell’etica, Aristotele definisce la virtù una disposizione stabile che orienta la scelta verso il giusto mezzo, ossia verso la medietà tra due vizi, uno per eccesso, l’altro per difetto. Tra le virtù morali indicate dal filosofo, che, in quanto cardine, sostengono tutte le altre, un posto d’onore spettava alla prudenza. “Niente di troppo” – ne quid nimis- dicevano gli antichi, invitando alla misura e all’equilibrio. Non a caso consideravano la prudenza la qualità principale di chi volesse riuscire in qualcosa, dal politico alla massaia. Realizzarsi nella vita e nel lavoro significava evitare gli eccessi e imparare a scegliere con attenzione e dominio di sé.

Oggi questo stile di vita sembra un po’ demodé. La prudenza non attira più tanto: la associamo all’esitazione dell’anziano, alla tattica di un negoziato, al calcolo del timoroso o all’invito molesto a moderare la velocità alla guida. Non sembra l’atteggiamento dei vincitori, ma dei vinti. “Voglio una vita spericolata” sentiamo cantare. Gli eccessi sembrano avere il fascino della trasgressione o del ritorno alla natura intesa come spontaneità assoluta. Spesso sono cercati quasi come prova della propria energia vitale, del fatto che “I Can”, Io –anch’io- posso. Abbiamo perso la vera fisionomia dell’uomo prudente, che per gli antichi era sinonimo di uomo saggio, di buon criterio, capace di discernimento e di consiglio.

Nella Cappella degli Scrovegni a Padova, Giotto raffigura la prudenza con le sembianze di una donna seduta a uno scrittoio, che in una mano ha uno specchio convesso, da cui scruta ciò che c’è dietro le sue spalle. Nell'altra mano regge un compasso, mentre ha davanti a sé un libro aperto. Sull’altro lato, Giotto ha raffigurato la stoltezza, il vizio che si oppone alla prudenza: una figura maschile vestita da giullare, col capo ricoperto di piume e con in mano una grossa clava. Il simbolismo è chiaro: l’uomo prudente è capace di fare memoria –lo specchio che riflette ciò che è dietro di lui-, indispensabile per tesaurizzare l’esperienza; sa trovare la misura giusta –il compasso- e sa studiare ogni situazione –il libro aperto- per prendere decisioni opportune. Lo stolto, invece, resta in superficie, non riuscendo a distinguere tra l’importante e il futile, per cui deve ricorrere alla forza bruta –la clava- non avendo altre risorse.

La prudenza permette di identificare il bene e di scegliere i mezzi adeguati per realizzarlo. Essa comporta, quindi, un giudizio e una deliberazione, ossia un momento intellettuale e uno pratico. Un atteggiamento prudente si può scomporre in otto tappe: la memoria del passato che fa imparare dall’esperienza; la comprensione del presente; la docilità al consiglio; la sagacia nel non indugiare di fronte a casi urgenti; il giudizio riflessivo; la preveggenza che valuta i mezzi; la circospezione che prende in esame le circostanze; la precauzione di fronte ai possibili ostacoli.

Chi è prudente valuta attentamente le situazioni prima di prendere una decisione e, all’occorrenza, sa modificare il proprio punto di vista. Alla prudenza si oppone la precipitazione di chi agisce senza prima valutare, ma anche l’indecisione di chi non è capace di risolversi, l’ostinazione che non fa ascoltare un parere diverso dal proprio, l’incostanza che spinge ad abbandonare le decisioni già prese, per superficialità o debolezza di fronte alle difficoltà. E’ imprudente, ad esempio, tracciare un progetto senza documentarsi attentamente sulle caratteristiche del luogo e dei materiali oppure senza prendere in considerazione le qualità e le competenze di chi deve collaborare con noi. All’ingegnere spetta non solo adottare le misure di sicurezza adeguate alla probabilità di rischio, ma anche stabilire chi deve adoperarsi perché queste misure si osservino.

Pensiamo a due ambiti cruciali della pratica della prudenza: la gestione dell’errore e il ricorso o l’offerta di una consulenza. L’errore –dovuto a incompetenza, a disattenzione o a precipitazione- è un elemento inevitabile nella propria quotidianità professionale. La tendenza ad autogiustificarsi, ad attribuire l’accaduto all’ambiente o a far ricadere la colpa sui collaboratori oppure, più semplicemente, il non fare memoria reiterando così una situazione che si è già verificata, sono tutti atteggiamenti che impediscono una visione realista di sé e degli altri nel lavoro e finiscono per sminuire il senso di responsabilità. La prudenza richiede di farsi carico delle conseguenze delle proprie azioni, riconoscendo inadempienze e omissioni, coltivando così un sano realismo sul proprio agire professionale.

Il filosofo tedesco Josef Pieper, nel suo saggio sulla prudenza, scritto nel 1936, in pieno totalitarismo nazista, parla della “falsificazione del ricordo” come della rovina della memoria, perché ne contraddice la natura, che è quella di riconoscere gli avvenimenti reali così come sono e come sono stati. La volontà di negare l’accaduto, invece, induce a deformare, ritoccare, omettere, spostare l’accento della narrazione interiore o esteriore di una condotta professionale, producendo non solo la perdita dell’oggettività, ma anche l’impossibilità di imparare dai propri errori. C’è dunque nell’uomo prudente una conoscenza adeguata del passato, senza false giustificazioni né recriminazioni e uno sguardo previdente sul futuro, come capacità di trovare nuove soluzioni ai vecchi problemi. La maggior parte dei manuali di tecnica manageriale oggi elogiano la creatività, come la qualità che rende capaci di soluzioni innovative e anche, secondo l’espressione di Covey, la strategia win-win, cioè l’ottica di chi sa cercare una soluzione ottimale sia per sé che per le persone con cui si confronta. Si tratta di una riproposizione di quello che gli antichi chiamavano solertia, lo sguardo aperto e obiettivo dell’uomo prudente, che guida direttamente e rapidamente a riconoscere il meglio in ogni situazione.

La consulenza non è altro che la versione professionalizzata della capacità di consigliare o della disponibilità a lasciarsi consigliare, entrambi atti della prudenza. Il mito del self made man o la diffusione dei cosiddetti manuali di self help sembrano suggerire un’autosufficienza, che invece è smentita dalla pratica professionale, dove è essenziale il parere di consulenti esperti. “Se vuoi essere un uomo buono, chiedi consiglio a tre uomini anziani”, dice un proverbio cinese. È un invito valido anche per il buon ingegnere.