Data Pubblicazione:

Le Prospettive Reali della Trasformazione Digitale per la Progettazione (Architettonica)

Nota del Prof. Angelo Luigi Camillo Ciribini sulle prospettive reali della trasformazione digitale per la progettazione architettonica

BIM is more than simply one technology or approach – it is revolutionising the industry and paving the way for the adoption of other new digital innovations.
The next wave of digital tech, being adopted now by innovators and early adopters, includes mixed, augmented and virtual reality and the Internet of Things. Alongside these technologies, architects and designers are using other tools that have been adopted throughout society that improve communication and collaboration: social media, mobile devices and apps, and cloud computing. _ RIBA & Microsoft
 
La ventilata riforma del Codice dei Contratti Pubblici ha innescato nuovamente la controversia relativa all’appalto integrato, colle rappresentanze professionali impegnate a sostenerne l’abolizione e quelle committenti e imprenditoriali a difenderne l’estensione.
Il discrimine che, in qualche modo, si evoca è variabile, nel senso che possa trattarsi di livelli di complessità tecnologica e organizzativa così elevati da dover chiamare in causa per forza gli esecutori oppure di carenze di risorse da parte dei committenti pubblici che ne impedirebbero l’affidamento diretto alla classe professionale.
 
Recentemente si è avuto modo di ragionare intorno alla questione sotto il profilo della digitalizzazione, alfine di oltrepassare una contrapposizione ormai divenuta ideologica o, per lo meno, identitaria, specie per il versante professionale.
L’istituto aveva, infatti, tra l’altro, evidenziato in passato una reciproca insoddisfazione, nel senso che, dal lato professionale, le ragioni imprenditoriali erano considerate come restrittive della creatività e mortificanti i compensi previsti e le relative condizioni, mentre, all’opposto, la pretesa indifferenza professionale alle necessità realizzative (organizzative e tecnologiche) era vissuta con grande insofferenza dagli imprenditori.
In ogni modo, per i ceti professionali l’appalto integrato rappresenterebbe una forma di cessione di competenza e di ruolo, non tanto in se stessa, di fatto impraticabile, quanto per doversi «assoggettare», come progettisti, a una forma delegata e indiretta di committenza, quella costituita dai costruttori che, in buona parte, nel corso degli anni, hanno, comunque, progressivamente dismesso i saperi progettuali interni alle proprie organizzazioni, essendo «costretti» a rivolgersi a soggetti esterni.
 
Professionalismo e imprenditività sono, tuttavia, due dimensioni che nel futuro digitale potrebbero spontaneamente ibridarsi, anche in considerazione della priorità attribuita al ciclo di vita delle opere.
 
D'altro canto, se il progettista teme di essere subordinato al costruttore, in avvenire esso potrebbe sentirsi minacciato non più da altri attori convenzionali del comparto, bensì da algoritmi destinati a sostituirlo: tanto che, per tranquillizzare a proposito di un simile scenario, si sostiene che, al contrario, l’algoritmo si ponga al servizio della concezione.
Si tratta, tra l’altro, di temi, questi ultimi, all’ordine del giorno nei consessi professionali statunitensi dell’American Institute of Architects, specie per le maggiori realtà professionali, in grado di capitalizzare i Big Data.
Si guardi, ad esempio, a Gensler: come sosteneva un recente commento di un osservatore statunitense, questa società worked on roughly 10,000 projects in 2017, which means no one person can know all the details of each design. Even more so, they recognize that, though training and instincts can take an architect quite far, data can reveal hidden truths that would otherwise go unnoticed.

La tesi sostenuta in questa nota è che, da una parte, non possa darsi alcuna ipotesi di cultura industriale per il settore in assenza di forme di integrazione, ma che, d’altronde, la creazione di valore progettuale, in primo luogo, se del caso, architettonico non possa che discendere dalla sapiente regolazione del conflitto tra ragioni forzatamente eterogenee.
Si tratta di un esercizio difficile, di natura probabilistica nell’universo digitale, in un contesto in cui il principale fattore competitivo consisterà nella disponibilità di dati computazionali strutturati secondo determinati criteri che ne consentano il miglior sfruttamento possibile.
Si noti, infatti, che, non casualmente, sinora le modalità attese di efficientamento che deriverebbero dalla modellazione e dalla gestione informativa restano imperniate sugli aspetti geometrico-dimensionali (ivi compresa la computazione) e sulla generazione di elaborati grafici, o, comunque, di documenti coerenti e coordinati, mentre è palese che il ricorso a una gestione intelligente di strutture di dati (prevalentemente alfa-numerici) sarà decisiva.
È qui, tuttavia, che si assiste al vero e proprio bivio che l’evoluzione digitale potrebbe causare.
Per un verso, infatti, vi è l’aspettativa di molti che, in assenza di qualsiasi cambiamento dei caratteri strutturali del mercato (le condizioni al contorno) le tecnologie, in particolare, possano, di per se stesse migliorare le prestazioni degli operatori e i contenuti del loro agire.
Ciò, però, si scontra col fatto che i metodi e gli strumenti (in realtà, indistinguibili se considerati nel loro significato autentico) si sottraggono a logiche antagonistiche e distintive: la «collaborazione», insita nelle tecnologie, ancor prima che nelle metodologie, in effetti, costituisce un potenziale fardello per molti attori del mercato.
Ed ecco che l’integrazione, denominabile altresì come, appunto, collaborazione o interoperabilità, ritorna prepotentemente a turbare i propositi dei sostenitori di questa ipotesi, forse persino creando diseconomie dovute all’introduzione dell’innovazione digitale, per quanto incrementale essa possa essere.
Di contro, a iniziare da una centralità che si comincia ad attribuire ai data base anziché agli information model, si intuisce che non potrà essere una ottimizzazione dei modi di procedere attuali (e, specialmente, di quelli legati alla «rappresentazione») a sancire una «rivoluzione».
Sono, al contrario le strutture dei dati, la loro produzione, raccolta, archiviazione e rielaborazione, a costituire il decisivo fattore competitivo, poiché gli obiettivi da raggiungere, a livello progettuale, saranno, ad esempio, il monitoraggio in tempo reale e in remoto di tutti gli organismi progettuali coinvolti nella commessa, la riduzione dei tempi necessari per conseguire l’opzione maggiormente specifica per il caso peculiare, la compressione delle risorse umane atte a svolgere le attività operative, e così via.
In che misura tale intelligence possa divenire anche «intelligenza» non è ovviamente oggi dato sapere, ma certamente il paradigma della dis-integrazione è chiaramente oppositivo rispetto a una cultura digitale della progettazione.
Epperò, paradossalmente, per il progettista (in particolare, per l’architetto) non è tanto il tenere in conto le logiche del costruttore o, al limite, del gestore a ingenerare un punto di svolta traumatico, bensì è la ritrovata centralità dell’utente a in potenza essere determinante.

User Centrism e Occupancy sono, infatti, termini fondamentali, attualmente adoperati prevalentemente per la modellazione energetica, i veri e propri disruptive agent, non tanto perché rimettano gli abitanti, i fruitori, gli occupanti, gli utenti, «partecipativamente» al centro della concezione (quantunque il tema oggi viva una seconda giovinezza), quanto perché essi permettono di direttamente «progettare i servizi» contestualmente ai cespiti immobiliari e infrastrutturali.
Tutto ciò, peraltro, avviene allorché l’idea di built asset sensorizzati e interconnessi implica che l’interazione tra contenuti e contenitori (uomo-macchina per dirla brutalmente) consenta un dialogo, ad esempio gestuale e vocale, tra le entità su una base «cognitiva» (incentrata sul cognitive computing).
Il Service Design, dunque, non richiede semplicemente ai progettisti (agli architetti) di considerare e di anticipare i punti di vista e le esigenze, non più «distinte», separabili e circoscrivibili, degli altri attori, bensì, particolarmente, domanda loro di essere «imprenditivi» sui servizi erogabili, sui cicli delle vite connesse al ciclo di vita dell’opera.

Per comprendere meglio la portata del passaggio, bisogna provare a leggere un recente report, intitolato Digital Transformation in Architecture, firmato da due soggetti assai rappresentativi del tema: il Royal Institute of British Architects, una tra le più classiche e prestigiose rappresentanze professionali, e Microsoft, uno dei più autorevoli esponenti del GAFAM (Google Amazon Facebook Apple Microsoft), non certo uno dei classici protagonisti della produzione dei software specialistici, già, peraltro, attivo nel mercato della Smart Home.
Il rapporto parla di transformational technology, in funzione dei cambiamenti intercorsi nella natura del mercato, stabilendo un nesso tra Building Information Modeling e Internet of Things che, già di per sé, rivela come le prospettive siano già ora dilatate.
Il tema principale del contributo, non per caso legato a Microsoft e ai suoi Hololens, è, tuttavia, la realtà mista, virtuale e aumentata in relazione agli ambienti immersivi, la cui adozione pare ampliarsi rapidamente.
Le risultanze che emergono dalle investigazioni svolte presso i professionisti mostrano come, di là di un giudizio genericamente positivo, unito alla convinzione circa la irreversibilità del fenomeno, nascano perplessità sul breve e medio periodo.
I termini «collaborazione» e «trasformazione» nella narrazione si coniugano con «dato» e «processo», ma è significativo che sorga l’idea che il viaggio digitale non possa avere una meta precisa, ovverosia che non possa mai essere considerato compiuto.
Il che, evidentemente, ha un senso preciso, ma, al contempo, segna una indeterminazione dell’obiettivo in termini sistemici e di sua misurabilità, denotando una certa incertezza già evidenziata nello NBS BIM Survey.
La stessa considerazione serve, nel rapporto, anche a sottolineare la natura, per così dire, istruttoria della modellazione informativa: nel caso di specie, introduttiva alle realtà mista, aumentata e virtuale, che pervade iconologicamente tutto il documento.
Come anticipato, la chiave di lettura è che la dimensione cyber-physical (la stessa di Industrie 4.0) includa, senza mediazioni, il committente nel processo ideativo.

Si tratta, in verità, di una tesi controversa, che, comunque, è funzionale a giungere al concetto di Beyond Building Information Modeling, oltre a ribadire la natura inedita della progettazione dei servizi (e dei comportamenti?), come già ora rivela l’approccio adottato da WeWork (e da BIG?) sulla scorta dello sfruttamento sistematico di vaste moli di dati relativi all’osservazione delle attività dei tenant.
Essa, inoltre, è correlata a una ipotesi di sviluppo della progettazione in termini di interazione in tempo reale e in remoto almeno tra committente, progettisti e utenti che, tuttavia, dovrebbe potersi avvalere di una immersività multi-soggettuale e multi-sensoriale assai più avanzata di quella attualmente disponibile per essere determinante.

In ogni caso, il rapporto (l’inchiesta) di RIBA e Microsoft propone uno sviluppo lineare che, successivamente, dal Building Information Modeling, passando attraverso l’Immersive Environment e l’Internet of Things, giunga all’Artificial Intelligence.
 
Tradotto in parole più comprensibili, ciò significa che agli architetti sarà chiesto di saper configurare strutture di dati (anche a prescindere dalla rappresentazione geometrico-dimensionale), utilizzarli per creare simulazioni coinvolgenti gli altri attori senza barriere interpretative gergali, rispondere di prestazioni progettate che saranno immediatamente verificate dai componenti sensorizzati stessi, una volta in opera, accumulare le precedenti strutture di dati per creare una serie di semi-automatismi predittivi a supporto della propria creatività.

Si tratta evidentemente di condizioni sideralmente lontane da quanto può immaginarsi una comune architectural practice, specialmente alle nostre latitudini.
Non a caso, il survey mostra una certa incredulità da parte degli architetti britannici sul fatto che la trasformazione digitale possa essere davvero così sconvolgente.

Le conclusioni del rapporto sono emblematiche:

"so far the architectural profession has been leading digital transformation, not least through BIM. But when we look across at other industries we can see that even those who
were once leading in the digital economy can be caught off guard by the unforeseen disruptor. We don’t think that the true disruptor has arrived yet. But it may, and soon. It is the nature of disruptors that they tend to come out of the blue.
Architecture and design practices need to prepare for the future now. They need to consider and discuss the trends, opportunities and challenges that digital transformation may bring so they are ready to adapt when the time comes. We hope that this report helps provide a catalyst to that thinking and preparation for the future."
 
Questa dicotomia tra il possibile e il reale, tra il miglioramento delle prassi correnti e il loro sconvolgimento rappresenta il più interessante tema di ricerca sulla digitalizzazione e ne costituisce, al contempo, la grande incognita.
 
In realtà, tutto questo potrebbe significare la creazione di un profondissimo divario tra le grandi organizzazioni operanti a livello internazionale e i micro organismi attivi sui (sub)mercati domestici.
Non si potrà forse più parlare di una «sola» digitalizzazione né di una «unica» forma di integrazione.
Come, però, tenere tutto questo assieme?