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La digestione anaerobica dei rifiuti umidi

Il prodotto principale della digestione anaerobica della frazione umida dei rifiuti (urbani e non) è il biogas

La digestione anaerobica della frazione umida dei rifiuti (urbani e non) sta assumendo sempre maggiore rilevanza, in Italia e all’estero, per i suoi indubbi benefici energetici ed ambientali. Il prodotto principale della digestione anaerobica è il biogas, cioè una miscela gassosa (soprattutto metano - dal 50 al 75% - e biossido di carbonio). L’impiego del biogas può ridurre le emissioni di gas serra in maniera significativa, soprattutto se utilizzato come biocarburante per i mezzi di trasporto o se immesso direttamente nella rete di distribuzione del gas. Il processo di digestione anaerobica, inoltre, dà luogo a un sottoprodotto principale, il digestato, che può essere sottoposto a un successivo processo di compostaggio e utilizzato a fini analoghi come compost, migliorando così il recupero complessivo di risorse dai rifiuti.
I processi di digestione anaerobica si possono classificare rispetto a:
- regime termico;
- contenuto di solidi totali nel substrato;
- fasi biologiche;
- tipo di alimentazione del reattore;
- modalità di movimentazione del substrato (tipo di reattore).
Non considerando il regime termico in psicrofilia, poiché poco utilizzato, la scelta tra la mesofilia e la termofilia determina, in genere, anche il tempo di residenza (HRT) del substrato all’interno del reattore (durata del processo). In mesofilia si hanno HRT di 14-35 giorni, mentre in termofilia i tempi di residenza sono tipicamente inferiori ai 14-20 giorni. Con impiantistica di tipo semplificato è possibile operare anche in psicrofilia (10-25 °C), con HRT superiori ai 30 giorni, fino a un massimo di 90 giorni.
Il digestato in uscita dal processo anaerobico può essere direttamente applicato in agricoltura in maniera controllata, secondo i dettami della normativa che disciplina l’applicazione dei fanghi in agricoltura (D.Lgs. 99/92 e successive modifiche e integrazioni). Esso, infatti, va inquadrato e, pertanto, gestito come un fango. Il problema principale dell’applicazione diretta del digestato in agricoltura deriva dal fatto che esso ha un potenziale fitotossico ancora relativamente elevato, a causa della presenza di ammoniaca e della natura ancora relativamente fermentescibile della sostanza organica residua. Le principali applicazioni del digestato, pertanto, sono quelle in pieno campo, da attuare secondo i meccanismi dello spandimento controllato, previsti dalla normativa (autorizzazione al sito d’impiego, analisi del suolo pre- e post- applicazione, contingentamento delle dosi applicabili, ecc.).
Il digestato può essere sottoposto a una fase di spremitura e di separazione di una parte eminentemente solida, da avviare al processo di compostaggio, da una parte eminentemente liquida, da avviare a un impianto di depurazione di acque reflue e/o da inviare all’impianto di compostaggio, dove può essere sfruttata come acqua di processo.
Il digestato sottoposto a post-compostaggio può trovare spazi di applicazione in giardinaggio, vivaistica in vaso e in terra, nella semina di prati, ecc. e, inoltre, può essere liberamente impiegato e commercializzato come “ammendante compostato” sulla base del disposto della normativa sui fertilizzanti.
Da quanto visto, pertanto, si può affermare che la digestione anaerobica e il compostaggio non sono da considerare come processi di trattamento alternativi della frazione organica dei rifiuti. Essi, invece, sono processi perfettamente integrabili secondo uno schema che prevede dapprima la degradazione della frazione putrescibile con produzione di biogas (e produzione di energia) e successivamente la stabilizzazione aerobica del digestato, al fine di ottenere un prodotto finale adatto all’uso agricolo.
In generale, tuttavia, i processi di digestione anaerobica presentano una serie di vantaggi e svantaggi rispetto al compostaggio.
Gli impianti per la digestione anaerobica dei rifiuti hanno iniziato a fare la loro comparsa in Europa all’inizio degli anni novanta dello scorso secolo. Sul finire del 2010, in Europa si contavano circa duecento impianti (distribuiti in diciassette paesi) che trattano almeno il 10% di FORSU e con una capacità di almeno 3.000 t/anno.