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Le Accademie e gli Operatori: Quali e Quante Versioni della Gestione delle Informazioni?

Quali e quante versioni della gestione delle informazioni? Una riflessione del prof. Angelo Luigi Camillo Ciribini

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Esitono più «versioni» del BIM (Building Information Modeling)?

Il «BIM» gode, nella pubblicistica, di una popolarità pressoché quasi ossessiva che, pur non trovando riscontro analogo nelle pratiche diffuse, è destinata a convincere gli operatori della sua «inevitabilità».

Una domanda può, però, attualmente essere posta senza tema di smentita: esistono più «versioni» del «BIM»?
O meglio, i suoi livelli di incremento, dapprima indicati col diagramma di Bew-Richards, già contestati come indicatori attendibili di maturità digitale da Succar e da Kassem, e successivamente, proposti come fasi dalla normativa UNI EN ISO 19650, sono davvero lineari?

I metodi e gli strumenti del Building Information Modeling hanno certamente subito una evoluzione: anzitutto, come sotto-area dell'Information Management, poi come estensione del Building a Infrastructure, Landscape, District, Urban, City, ancora quale dilatazione delle discipline (Architecture, Structure, MEP), infine, come attribuzione specifica di Field, Legal, Heritage (colla popolarità goduta dalla Geomatica), ecc.
Il BIM si associa, inoltre, ben presto alla Gamification, agli Immersive Virtual Environment, alla Digital Fabrication, all’Additive Manufacturing, alla Robotics, e via dicendo.

Emblemi del «BIM» sono la tridimensionalità, il parametricismo (o, più correttamente, la parametrizzazione: il primo è effettivamente una corrente del pensiero architettonico), il BIM Execution Plan, e così via.

Esiste persino il verbo «bimizzare», a indicare una prassi esteriore legata all’argomento.

In estrema sintesi, il «BIM» si presenta come il dispositivo in grado di risolvere alcune criticità tradizionali ed endemiche delle prassi del settore, in primo luogo, nella progettazione, criticità di cui la coerenza tra gli elaborati è la più citata, per derivare una computazione più attendibile.

Si noti bene: in realtà, tutte le promesse maggiormente eclatanti che concernono la materia si rifanno al miglioramento, possibilmente incrementale, delle logiche e delle pratiche radicate nel passato.

All’interno di questo paradigma sta la sempre citata accezione di «collaborazione», nel senso che la produzione dei modelli informativi disciplinari, impostata su basi comuni, dovrebbe risolversi nella loro federazione in modelli aggregati: in attesa del cosiddetto «modello unico».
In realtà, questa associazione dal sapore esperantista appare svolgersi sul piano tecnologico più che non su quello concettuale, stentando a investire mentalità, culture, gerghi, convenienze, non del tutto commensurabili: l’approccio collaborativo, nel migliore dei casi, immancabilmente, si traduce nella coerenza documentale.

La cosiddetta «rivoluzione» promossa dal «BIM» ha, infatti, paradossalmente molto di conservativo, dal punto di vista della cultura digitale, tanto che i «modelli» informativi spesso replicano fedelmente le lacune abituali.

Un «altro» BIM, tra coinvolgimento attivo della committenza nel processo digitalizzato e il ciclo di vita utile di servizio delle opere

D'altra parte, vi sono due passaggi decisivi che, a un certo punto degli Anni Dieci del XXI Secolo, inducono a innescare un «altro» BIM: il primo di essi consiste nel coinvolgimento attivo della committenza nel processo digitalizzato; il secondo di essi verte sulla centralità attribuita alla vita utile di servizio delle opere.

Il primo atto non era scontato, poiché, appunto, l'obiettivo iniziale era legato alla riduzione di sforzi tediosi da parte di chi produceva i contenuti informativi (principalmente i progettisti), non di chi li utilizzavano o, persino, da coloro che li commissionavano.

Il secondo atto riflette una lenta presa di consapevolezza sul decadimento delle caratteristiche e delle prestazioni dei componenti e degli elementi, sull'incremento dei costi di manutenzione e di esercizio, sull'efficientamento energetico, andandosi a saldare, attraverso il Life Cycle Assessment, con i temi ambientali.

Prima dell’implicazione effettiva delle strutture di committenza, infatti, il BIM, tra Computer Aided Design e Computational Design, era un affare di produzione di oggetti tendenzialmente tridimensionali, relazionali e parametrici (dunque «intelligenti»), caratterizzati da aspetti geometrico-dimensionali e alfa-numerici, capaci di dominare anche le forme complesse, potenzialmente interoperabili con applicativi legati al calcolo: strutturale, energetico, impiantistico, economico, ecc.

Certo, la produzione stessa richiedeva l’adozione di criteri organizzativi, come testimonia la nascita del BIM Execution Plan, ma sostanzialmente sussisteva uno iato rispetto al (Construction) Project Management, e, soprattutto, il lascito del tecnigrafo era ancora sostanzialmente presente nei modi di pensare.

L’introduzione del committente nel processo digitalizzato, coi suoi Information Requirements (Client’s, Employer’s, Exchange), sulle prime non pareva determinare grandi sconvolgimenti, anche se strumenti, invero poco praticati, come quelli di space programming, indicavano da lunga pezza una certa strada.

Certo, gli applicativi di Model Checking, che dovrebbero verificare i diversi gradi di coerenza dei contenuti informativi, operavano già sugli oggetti, prevedendo regole di controllo computazionali, anche se per molta parte degli operatori il tutto si risolveva in accertamenti di conflitti geometrici.

Epperò, progressivamente, saldando il ruolo di innesco che si attribuisce alla committenza per la digitalizzazione al ciclo di vita utile del cespite, ci si accorge che si tratti di commissionare, di acquistare e di sfruttare i dati: numerici, leggibili dalla macchina.

Il committente diviene, anche quando non lo sia realmente, «proprietario» e  «gestore», poiché idealmente il corredo informativo che dovrebbe ritornargli al termine dei lavori lo «costringe» in questa dimensione.

Il BIM, nella sua versione originaria, resta, in effetti, sia pure involontariamente, legato, per diverse ragioni, in gran parte inevitabili sul breve e sul medio periodo, alla generazione di documenti, ma, in un certo istante, procedendo all’incontrario, aprendo la «scatola» della modellazione informativa, emerge la logica che la anima.
D'altro canto, la versione originaria degli strumenti di verifica dei modelli era sorta per automatizzarne la produzione, salvo poi procedere all'inverso.

Quale è il significato di Information Modeling?

Nel momento in cui, tuttavia, la committenza fuoriesce dalla dimensione prettamente procedurale, benché rilevante, del capitolato informativo, nonché della strumentazione che produce i modelli, l’acquisizione dei contenuti informativi sollecita una interrogazione sul significato di Information Modeling.
Ciò accade, anzitutto, in quanto la normativa UNI EN ISO 19650 mette in evidenza una articolazione complessa dei Requisiti Informativi, dispiegandoli in OIR, AIR ed EIR, per quanto concerne il committente originario, ma poi riconosce anche ai soggetti della filiera di fornitura la possibilità di arricchirne i contenuti.
Commissionare servizi e lavori digitalmente diventa, insomma, un affare sempre più complicato, legato a obiettivi da perseguire e a livelli di fabbisogno dei dati sempre più incalzanti.
È una commissione selettiva che coinvolge un numero sempre maggiore di tipologie di dati.

La vulgata ha, in effetti, sempre identificato la modellazione colla rappresentazione «visiva», mentre l’informazione sarebbe stata ascrivibile ai risvolti non geometrici, non grafici: con l’aggiunta di una terza categoria, quella della «documentazione», non includibile nei modelli informativi.
Il punto, però, è che le transazioni che riguardano il BIM, non solo, peraltro, dal punto di vista della committenza, riguardano modelli e strutture di dati, ancor prima che la loro articolazione in informazioni.

Vi è stata, forse, una fretta eccessiva di guardare all'informazione, prima ancora che al dato, dovuta probabilmente all'interfaccia primaria, visuale, formale, geometrica, grafica, dimensionale: come se, appunto, i dati si producessero e si articolassero spontaneamente.

Questo sì, certamente, avveniva, epperò secondo codici tradizionali.

Ci si deve, però, domandare se ipotizzare di strutturare sistematicamente i dati per la Business Intelligence e per il Machine Learning, se sfruttare al meglio tutti i linked data disponibili ricorrendo alle semantiche, siano davvero atti ancora riconducibili alla interpretazione classica del BIM, o se, al contrario, il procedimento segni profonde soluzioni di continuità.

D’altronde, gli stessi strumenti di committenza computazionale, attinenti ai livelli di fabbisogno informativo, appaiono estremamente analitici, si inseriscono addirittura all’interno degli strumenti di produzione dei modelli informativi, ragionano per obiettivi della modellazione informativa, giungono a una verifica di regole assai sofisticate.

Soprattutto, l'accezione di «modello» appare sempre meno avere a che fare colla rappresentazione geometrica nella concezione classica, ritornando al suo significato proprio, di rappresentazione, appunto, di interpretazione e di simulazione, quantitativa di un fenomeno in base a una teoria: a cui si contrappone, o si addiziona, inoltre, la possibilità di effettuare attività previsionali a partire da serie storiche di dati, «a prescindere» dalle teorie stesse.

Paradossalmente, l’«informazione» sottesa al BIM rimanda alla necessità di ricondurre l’Information Model al Data Model, secondo un percorso che nominalmente sembrerebbe regressivo nella convenzionale piramide formata da dato, informazione, conoscenza.

Al contempo, se questa «modellazione» divenisse «modellistica», più che perseguire l’interoperabilità sarebbe utile fondere gli ambienti di calcolo e di informazione, poiché i processi informativi e quelli decisionali sono inscindibili.

Si tratta di ammettere, da un lato, che la gestione delle informazioni debba intervenire direttamente, essere interiorizzata, nel modo in cui gli architetti, gli ingegneri strutturali, gli ingegneri impiantistici, e gli altri consulenti tecnici, pensano, concepiscono.
Da un altro lato, quello stesso processo ideativo, che oggi non ha più come oggetto esclusivo il bene fisico, ma anche la sua componente immateriale, abbisogna digitalmente del contributi di psicologi cognitivi e ambientali.
Lo stesso ricorso diffuso al Visual Programming mostra come questo scenario sia complementare a una certa «automazione» nella produzione e nella trasformazione dei contenuti informativi.

Una volta compreso che il tema non sia il «BIM», bensì la produzione e la gestione dei contenuti informativi, occorre ammettere che non sia più possibile espungere la Data Science dalle prassi del settore: il che è cosa assai diversa dall’affidarsi esclusivamente alle professionalità ortodosse del «BIM» che, da parte loro, dovranno necessariamente evolvere in questa stessa direzione.

Centralità del ciclo di vita del bene, attraverso Operations & Maintenance

È, però, come anticipato, la centralità del ciclo di vita del bene, attraverso Operations & Maintenance, a forzare ulteriormente la necessità di gestire dati e informazioni per un lungo lasso temporale all’interno di «piattaforme» che siano relativamente indipendenti dai singoli applicativi, che gestiscano computazionalmente i dati prima di tutto, che discernano attraverso queste tracce numeriche, il sentire degli attori.
In uno di questi ambienti, i modelli informativi, entro un applicativo di Facility Management, possono essere connessi a un motore di intelligenza artificiale che, non solo elabora dati provenienti da sensori, ma pure analizza i riscontri forniti dagli utenti per mezzo di app, per fornire una Sentiment Analysis.
In un altro ambiente, la gestione in tempo reale dei dispositivi mobili, inclusi nei modelli informativi, permette di contribuire attivamente alla erogazione dei servizi sanitari.
Quando, infine, l'ambiente di BIM4FM comprende molte altre entità sensorizzate e connesse, passando alla scala almeno distrettuale, le Facility si animano definitivamente in un contesto geo-spaziale.

Qui la «collaborazione» diviene «sorveglianza», in quanto tutte le fonti informative sono finalizzate alle diverse «intelligenze».

Allorché si palesa, poi, il concetto di «gemello digitale», nuovamente, il doppio non può semplicemente ricondursi a una, pur fondamentale, «rappresentazione» dell'originale fisico, poiché, anzitutto sul piano della Maintenance, si tratta di definire «modi di funzionamento e di guasto», ben oltre gli elementi in quanto tale, le loro proprietà, il modo in cui essi sono classificati.

Per questa ragione, le tassonomie finalizzate agli interventi ispettivi e manutentivi sui componenti e sugli elementi non paiono sufficienti, poiché l’ambizione non è più solo quella di ottimizzare la configurazione dei documenti e degli interventi (di ispezione, di pulizia, di riparazione, di sostituzione: o di conservazione), così come per la progettazione e per la realizzazione, bensì di prevedere la funzionalità e il comportamento dei cespiti.

Non conta più solo ormai «aumentare» la realtà dell’oggetto fisico per il manutentore perché questi acceda, digitalmente, ai dati che lo concernono, conta la capacità degli algoritmi di simularne le prestazioni, i funzionamenti, dato che è il componente a comunicare molto di sé, sino ad auto-regolarsi.

Così come per i robot nella produzione manifatturiera, qui, nella manutenzione, conta la capacità dell’operatore di collaborare e di interagire cogli algoritmi decisionali.

Se l'anelito, sulle prime, aveva riguardato la possibilità di creare una anagrafe patrimoniale «BIM» (quanti eterogenei e inutili «modellini» ciò ha causato!), da aggiornare progressivamente, qui sensori, cloud, protocolli di interconnessione, permettono di ripensare ai «servizi» di Facility Management.

In più, oltre la Maintenance, sono le Operation, legate al comportamento degli utenti, a determinare il passaggio decisivo dal «prodotto» al «servizio», anche in virtù della interconnessione che, nel frattempo, è sopraggiunta.

Alla scienza dei dati si accosta la tecnologia delle comunicazioni, perché i dati numerici si generano, si trasformano, si trasmettono, si gestiscono, si sfruttano entro l’Internet of Things.
Anche in questa occasione è apparso il riflesso condizionato della «collaborazione», ma Occupancy e User Centrism non sono istanze ideali di carattere umanistico, sono riflessi degli Hyper-Personalized Service.

O meglio, l'umanesimo e l'olismo a cui si riferiscono Airbnb e WeCompany sono interamente inscritti nei nuovi Business Model del Surveillance Capitalism.
Come spiegare, pertanto, al grande «popolo» degli operatori che si sta lentamente mettendo in marcia, che di BIM possano esistere più versioni, che quella maggiormente conosciuta rischia sostanzialmente di ottimizzare, nel migliore dei casi, una cultura e una prassi «analogiche»?

BIM  e l'Accademia

L’Accademia, sul versante delle Scuole di Architettura e di Ingegneria Edile e Civile, per prima, rischia di rimanere imprigionata in questo dilemma, stante che abbia colto del BIM la prima versione e che abbia semplicemente cercato, per quanto concerne la seconda, di instaurare interazioni con le Scuole di Ingegneria dell’Informazione.
Al contrario, nella misura in cui il dato numerico prevalga, le due Scuole non possono che agire sinergicamente, a partire dai primi anni formativi, allo scopo di educare una generazione alla autentica cultura digitale.

La dittatura del documento (in realtà, dell’elaborato grafico) pare promettere di garantire alla cultura analogica una lunga sopravvivenza all’interno del mondo digitale, ma immaginare di utilizzare il «BIM» per richiedere e per ottenere un elenco di documenti, a partire dagli schizzi iniziali della progettazione sino agli ordini di lavoro della manutenzione significa non avere compreso interamente che ciò abbia davvero poco a che fare con la trasformazione digitale.

Il fatto è che gli accademici, le società di consulenza e gli operatori stessi, in gran parte, sembrano chiaramente preferire un approccio che sia fondato su impostazioni tradizionali, che parli di strumenti ben circoscritti nella loro natura, di ambienti di condivisione di contenitori informativi che mirano alla configurazione degli elaborati.
È comprensibile che ciò accada, dato che il racconto che è stato proposto doveva essere consolatorio, semplificato (o semplicistico?), che la narrazione prevedeva la sostituzione del CAD col BIM, non certo del documento col dato.

Si può preconizzare che l’approccio convenzionale al «BIM» prevalga all’interno di una transizione che non sia davvero tale, che per non risultare traumatica prediliga la generazione di modelli statici.

Eppure, se si guardasse senza superficialità al cosiddetto «4.0», si intuirebbe che esso preveda, come istanza fondamentale, la sincronizzazione dei processi, mentre il «BIM» tradizionalmente immaginato è una lunga sequenza di processi sincopati, in cui i flussi informativi subiscono molte perdite, in cui il «meticciato» predomina.

Il capitolato informativo tradizionale è, in questa ottica, un documento che richiede la produzione di altri documenti, la multi-dimensionalità in esso contemplata è, in definitiva, piuttosto statica; al massimo, una volta che si disporrà del Record o dell’Asset Information Model introdotto in qualche applicativo di Facility Management, connesso ai flussi di dati provenienti dai cespiti sensorizzati, si avranno valori aggiornati in tempo reale.

Gli scenari del «diversamente (o dinamicamente) BIM» sono, tuttavia, differenti: i cespiti commissionati, progettati, realizzati (conservati o trasformati), gestiti, mirano sin da subito, come detto, ai funzionamenti o ai comportamenti, traguardando relazioni ed evoluzioni, sono, prima di ogni altra considerazione, simulazioni, non rappresentazioni.
Le piattaforme attraverso cui gestire le transazioni di modelli e di strutture di dati di questo genere non potranno che essere in esse stesse il dispositivo di regolazione dell’offerta immobiliare e infrastrutturale, all’interno delle Smart City e delle Agile Land.

Sono gli approcci alla «casa» di Airbnb con Samara e di Amazon con Plant e quelli di WeCompany e di Airbnb, medesima, all’«ufficio» a dire tanto sul «BIM».
Esistono, dunque, due diverse concezioni del «BIM»; si creerà un notevole digital divide tra coloro che perseguiranno l’uno o l’altro di questi percorsi.
Si avranno forse Accademie improntate al primo o al secondo approccio.
Intraprendere la prima strada sarà più agevole, ma l’efficacia e i margini di profitto conseguibili potrebbero essere molto inferiori