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Il fosco autunno de L’Aquila

A dieci anni dal sisma la città è quasi completamente ricostruita ma gli abitanti stentano a tornare e il centro è ancora spopolato

A dieci anni dal sisma la città è quasi completamente ricostruita ma gli abitanti stentano a tornare e il centro è ancora spopolato

Sono trascorsi esattamente dieci anni dal terremoto che ha ferito duramente la bellissima città de L’Aquila. Da quella scossa di magnitudo 6.3, che nella notte del 6 aprile 2009 ha squarciato la notte, cambiando per sempre la fisionomia e la storia della città, molto è stato fatto.

La fitta selva di gru e puntellamenti, cui ci avevano abituato le immagini dei telegiornali negli anni del post sisma, sono scomparse riconsegnando la città alla sua apparente normalità e bellezza. Certo ancora permangono cantieri sparsi per il centro e le immediate periferie, ma il più è stato fatto e fatto bene.

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La Soprintendenza e le amministrazioni che si sono succedute hanno seguito con grande attenzione gli interventi sugli edifici storici e la ricostruzione complessiva è, nei fatti, quasi completamente ultimata.

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L'Aquila: un esempio riuscito di ricostruzione, ma pervasa da solitudine

Di certo, l’esempio aquilano è, sebbene con i suoi tempi, un esempio riuscito di ricostruzione seppure meno nelle aree e nei piccoli centri di margine.

Tuttavia la sensazione che si prova percorrendo le vie del capoluogo abruzzese è quella di una preoccupante solitudine.

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Un horror vacui contro cui poco possono gli sparuti negozi, ristoranti e bar che hanno riaperto in un’area bellissima ma sostanzialmente disabitata e che dovrà ripopolarsi delle tante attività commerciali e uffici che la rendevano viva prima del sisma.

Si percepisce un senso di spopolamento reale, acuito dalle decine e decine di vetrine vuote, che si susseguono in una desolante serie di cartelli su cui campeggiano le scritte “affittasi” o “vendesi”. Unità immobiliari e locali commerciali perfettamente ristrutturati, ma inesorabilmente deserti. Eppure L’Aquila, anche alla luce della discutibile gestione dei recenti terremoti del centro Italia rappresenta un modello funzionale ed efficiente.

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Una buona percentuale di persone non se ne sono andate e risiedono ancor oggi nelle palazzine antisismiche quelle del “PROGETTO C.A.S.E.” che, nonostante la rilevanza mediatica data anche recentemente ad alcuni piccoli accidenti, sono state realizzate in tempi molto rapidi per dare risposta ad un’esigenza specifica di tipo emergenziale. La maggior parte degli abitanti ha una condizione di vita dignitosa e abita i condomini realizzati ai margini della città, la stessa in cui ha comunque sempre vissuto. Ciò nonostante le famiglie che sono state allontanate, soprattutto residenti in centri abitati limitrofi, si sono ricostruite la vita in altre località.
Sovente i giovani hanno intrapreso i loro cicli scolastici altrove e gli adulti hanno trovato occupazione e si sono radicati in altri contesti. Chi aveva un’attività o uno studio professionale in centro e si è trasferito, perché si è data la priorità alla ricostruzione in periferia, raramente decide di affrontare un nuovo trasloco e ristabilirsi nei luoghi di lavoro originari. La stessa Università, che potrebbe rappresentare un presidio da cui partire per ricostruire un’economia locale, non risulta così attrattiva. Gli studenti sono delocalizzati e per andare in centro devono fruire di numerosi mezzi pubblici, che dopo certi orari non sono più disponibili. Di fatto, non ci sono più le condizioni per attrarre la gioventù, così come le altre fasce d’età.

Probabilmente non sarà neanche la seconda generazione di coloro che quel terremoto lo hanno vissuto e forse la terza a ripopolare il centro storico, almeno finché non si creeranno le condizioni per rigenerare il tessuto produttivo locale.

E, comunque, ci troviamo di fronte a un grande investimento pubblico, a una bellissima opera di ricostruzione che tuttavia mette in evidenza quanto sia importante il tempo della ricostruzione per mantenere in vita l’economia e la vita sociale di una città.

L'abbadono dei centri minori: una lezione da cui imparare

L’Aquila comunque, con il passare del tempo, vivrà di vita nuova e di rinnovata speranza, ciò che non si potrà dire invece dei borghi e centri minori della provincia che avranno certamente un mesto destino e che oggi mostrano solo edifici lesionati abbandonati da 10 anni e che con ragionevole certezza non si ripopoleranno più.

Le criticità evidenziate dalla situazione de L’Aquila devono servire da monito anche e soprattutto per le politiche da adottare nei comuni che hanno subito terremoti in tempi più recenti, come nel caso del Centro Italia, in cui la situazione è aggravata dalla presenza di numerosi comuni montani la cui configurazione territoriale è particolarmente complessa. Piccole comunità già soggette a fenomeni di spopolamento e di conseguente impoverimento, già prima degli eventi catastrofici. Queste realtà hanno beneficiato, dopo il sisma, di costosi interventi di messa in sicurezza degli edifici che rischiano di dimostrarsi del tutto inutili. Si sarebbe potuto procedere direttamente agli abbattimenti, senza distrarre risorse economiche per le Soluzioni Abitative in Emergenza. Per poi ricostruire ex novo e rapidamente gli edifici che magari già prima del terremoto avevano seri problemi manutentivi o di agibilità. In molti casi sono state realizzate opere di messa in sicurezza, costate centinaia di migliaia di euro, che potevano essere meglio impiegati per edificare immobili di qualità e sicuri.

Ben amministrare un paese a vocazione sismica, com’è l’Italia, significa anche essere in grado di pianificare strategie in tempo di pace, per poter prendere decisioni radicali e coraggiose nell’immediatezza delle emergenze.

Dopo un evento catastrofico bisogna avere il coraggio di decidere se abbandonare definitivamente i centri colpiti o di demolirli immediatamente per poi ricostruirli, ove consentito, nel tempo più breve possibile. Le persone sradicate dalla propria comunità, private del lavoro e dei beni, quando non colpite dalla perdita degli affetti, vengono annientate dal dolore, dal peso della precarietà e sono spesso soggette a fenomeni di alienazione e depressione. In particolare soggetti anziani, altrimenti attivi e vitali, confinati nelle SAE fanno difficoltà ad affrancarsi dalle proprie abitudini e a organizzarsi negli spazi così limitati dove anche la gestione del quotidiano diventa un problema. 

Per questo occorre ripensare, in tempo di pace, a logiche per una ricostruzione rapida, normata da regole comuni a tutte le ricostruzioni e immediatamente applicabili. Bisogna che le professionalità formate e di esperienza acquisita nei terremoti precedenti non vadano disperse ma vengano messe a sistema, per non dover ogni volta riformare nuovo personale. Ricominciare tutte le volte da capo porta ritardi nella gestione dell’emergenza che invece deve essere superata nel minor tempo possibile e con la massima efficacia così da consentire alle persone di tornare alla normalità, alla loro vita di sempre, in tempi accettabili. Occorrerebbe avere il coraggio di rinnovare l’edilizia che non è più adeguata, fatti salvi naturalmente i beni architettonici di pregio che vanno ovviamente recuperati secondo criteri  innovativi e messi in sicurezza da subito.

Insomma, non si può più pensare di mantenere mucchi di pietre e macerie inadeguabili a oziosa memoria di un patrimonio edilizio antico irrimediabilmente leso e compromesso, sacrificando la qualità della vita e la sicurezza stessa degli abitanti.