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Appalto integrato: a volte ritornano

Un'interessante riflessione sulla reintroduzione, con la legge 55/2019, dell’appalto integrato non dal punto di vista della sua efficacia a “sbloccare i cantieri”, ma in quella a consentire poi di “concluderli”

La legge Sblocca Cantieri (ormai è stata battezzata così la conversione in legge del decreto n.32/2019 con legge n. 55/2019 e quindi così continueremo a chiamarla per sinteticità e fors’anche per darle un’anima e non solo un numero) si è posta un obiettivo dichiarato nel suo “appellativo”: sbloccare i cantieri. Ovvero dare l’avvio a tutte quelle opere pubbliche (pare moltissime) ferme per vari motivi.

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Perché questo sarà motore dell’economia.

Dunque un obiettivo concreto, condivisibile, immediato.

Non è più tempo dunque di perderci in critiche su cosa si sarebbe potuto fare allo scopo, ma è tempo di applicarla al meglio sfruttando le potenzialità del suo portato giuridico per verificarne l’efficacia che solo la realtà dei fatti potrà o meno confermare.

Allora guardiamo oltre e cominciamo a pensare - dopo aver “sbloccato i cantieri” - come possiamo poi anche “chiuderli” completando i lavori intrapresi e non lasciandoli incompiuti come spesso (troppo spesso) succede. Perché anche questo è fattore di danno all’economia del Paese.

Dopo la legge “Sblocca Cantieri” bisognerà pensare alla legge “Concludi i Lavori”.

Il processo di realizzazione di un lavoro pubblico (in gergo amministrativo si dice “procedimento”) è lungo e complesso e se darvi avvio (ovvero aggiudicare all’impresa) presenta indubbie difficoltà (prevalentemente sotto l’aspetto amministrativo) la conduzione del cantiere non è da meno. Per via della pluralità dei soggetti, della complessità tecnica, degli interessi in gioco.

E qui la modalità di esecuzione svolge un ruolo essenziale nel rendere più o meno fluido il percorso attuativo. Che si conclude (si deve concludere) con il collaudo e la liquidazione al compimento dei quali sapremo davvero se l’investimento si sarà tradotto in opere o, se preferite per dirla in termini più diretti, se la spesa pubblica sarà stata un investimento o uno spreco.

Le modalità di esecuzione delle opere pubbliche sono molte e la legge Sblocca Cantieri riporta in vita l’“appalto integrato”, lo reintroduce per un periodo transitorio, ma lo reintroduce.

In un certo senso lo mette sotto esame per poi decidere, nella ormai indifferibile revisione della norma sui lavori pubblici (quella a regime e non solo quella eccezionale e urgente), se conservarlo o no. E si badi, l’appalto integrato non è una scorciatoia o una forma semplificata; tutt’altro, è una modalità diversa di affidamento ed esecuzione delle opere.

Che ha le sue ragioni tecniche e si adatta ai progetti non ripetitivi ma di maggiore complessità tecnica. Su cui le amministrazioni appaltanti devono avere la libertà (e la responsabilità) della scelta.

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L'appalto integrato: sorvegliato speciale

Vorrei allora esaminare l’appalto integrato non dal punto di vista della sua efficacia a “sbloccare i cantieri”, ma in quella a consentire poi di “concluderli”, che mi pare obiettivo strategico necessario e conseguente.

La sola riproposizione dell’appalto integrato ha suscitato critiche e proteste ed è stato accusato di costituire una rinuncia della pubblica amministrazione al controllo del progetto, che sarebbe così in balia delle scelte progettuali dell’impresa, di far perdere al progetto la sua necessaria caratteristica di “centralità” nel processo di realizzazione di un lavoro pubblico, addirittura qualcuno disse tempo fa che l’appalto integrato è una via preferenziale per la corruzione.

In un contesto sempre più orientato all’ingresso del privato nel pubblico (dalla finanza di progetto agli accordi negoziali in urbanistica) mi sembrano valutazioni ingenerose.

Più preconcetti, dovuti forse ad esperienze di cattiva applicazione, ma, come tutte le cose complesse, bisogna saperle usare e sarebbe sbagliato buttarle solo perché in qualche caso le abbiamo usate male.

Personalmente (e non solo) ho esperienze positive invece.

Le critiche mi paiono mosse soprattutto da angolature parziali e settoriali che vedono una parte dei problemi e non il complesso; visioni settoriali a tutela di interessi settoriali – legittimi per carità e meritevoli di attenzione - ma se ci sta a cuore la realizzazione delle opere dobbiamo valutare l’intero processo che è un processo complesso; tanto complesso che il Legislatore ha dovuto specificare – cosa che ha fatto solo per i lavori pubblici – che il “responsabile del procedimento” deve essere “unico” anche se le tre fasi in cui si articola (progettazione, aggiudicazione, esecuzione) hanno connotazioni specialistiche affatto diverse.

Le competenze (pur interdisciplinari) devono far capo ad un “unico” gestore del processo!

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Le criticità del processo

Valutiamo allora nell’intero processo quali sono i punti critici, le discontinuità, proprio anche in relazione alle tre fasi di realizzazione che ho dianzi richiamato.

Non v’ha dubbio che uno dei momenti di maggiore “snodo” sta nel passaggio dalla progettazione all’esecuzione, quando cioè il progetto passa di mano e dal progettista viene affidato all’esecutore (l’impresa). Non foss’altro perché cambia il soggetto.

Fin che si resta nel campo della programmazione-progettazione la pubblica amministrazione gioca in casa e tutto fila (abbastanza) liscio; al massimo si scontano gli scontri “politici” sulla scelta del progetto. Ma siamo ancora nella fase delle decisioni discrezionali e stiamo lavorando sulle carte. E le reali difficoltà esecutive (se ci sono) ancora non sono emerse.

Al momento di aprire i cantieri, quando cambia l’occhio critico e si deve passare dalla matita del progettista alla cazzuola del muratore nascono (l’esperienza insegna) le prime obiezioni sulla non completezza del progetto esecutivo, la non perfetta descrizione delle lavorazioni e dei relativi prezzi e, quando va meno bene, la non eseguibilità dei lavori, ….

Vere o pretestuose che siano le contestazioni dell’impresa sono sempre “grane” da gestire in corso d’opera (perché  il cantiere – magari per merito dello Sblocca Cantieri – è in corso) con il gruista che sta con le braccia conserte e sguardo interrogativo aspettando istruzioni, con l’imprenditore che iscrive riserve e invoca varianti in corso d’opera, eccepisce errori progettuali (veri o presunti), lamenta ritardi nell’esecuzione, … e da qui all’anomalo andamento dei lavori, richiesta danni, sospensione del cantiere, ….. il passo è breve.

Come finisce la storia dipenderà da molti fattori, ma le statistiche dicono che molte opere pubbliche non vengono ultimate, se vengono ultimate non sono collaudate (o non sono collaudabili) perché c’è in corso contenzioso con l’impresa che, quando finisce in Tribunale, quasi mai si conclude a favore della pubblica amministrazione. Sicuramente mai senza un prezzo che si chiama aumento del costo preventivato.
Questo dice la statistica. Che non è scienza esatta, ma termometro della realtà.

L’imputato che ha innescato tutto ciò (nella maggioranza dei casi) è il “progetto esecutivo” di cui si esaminerà ex post al microscopio la completezza, la rispondenza alle normative, la “fattibilità”; o, per usare un linguaggio più tecnico “la cantierabilità”.

Sì perché il punto delicato sta proprio qui. Tecnicamente si dice che il progetto esecutivo rappresenta la fase di “ingegnerizzazione” del progetto definitivo (di competenza del progettista), mentre la messa in opera costituisce la fase di “cantierizzazione” di competenza dell’impresa.

E, a meno che non si tratti di opere – per così dire – tradizionali e di consolidata e condivisa modalità esecutiva, è assai difficile che un progettista abbia cognizione puntuale delle modalità esecutive o delle tecniche diversificate che possiederà l’impresa affidataria dei lavori, la quale è ben più esperta nelle tecniche di cantierizzazione.

Non è neppure un problema di professionalità del progettista, ma una presa d’atto delle diverse competenze (del progettista e dell’appaltatore).

Ci sono stati indiscussi autorevoli precedenti: lo stesso Renzo Piano è caduto nella contestazione di non cantierabilità della ingegnerizzazione del progetto esecutivo dell’Auditorium di Roma.

Tra l’altro è innegabile che le imprese italiane vantino una consolidata tradizione di qualità (e anche originalità) di capacità esecutiva che sarebbe sbagliato non lasciare esprimere (non “sfruttare”) in sede di realizzazione.

In sostanza il passaggio dalla “ingegnerizzazione” alla “cantierizzazione” è il punto di delicato contatto di esperienze professionali e realizzative diverse, difficilmente conciliabili se esperite su tavoli diversi (e anche distanti nel tempo: la progettazione esecutiva prima dell’aggiudicazione è fatalmente molto anticipata rispetto alla data di effettiva esecuzione).

Perché allora non avvicinare queste due fasi (rendendole contigue e congruenti) come consente l’Appalto Integrato facendo sviluppare il progetto esecutivo (l’“ingegnerizzazione”) da un progettista che opera a diretto contatto con l’esecutore, ne conosce le tecniche e dunque lo predispone già alla “cantierizzazione”?

In buona sostanza responsabilizzare l’imprenditore sul progetto esecutivo facendo diventare lui il committente. Si badi. Non è un problema di professionalità, ma di committenza.

Se il committente del progetto esecutivo è l’appaltatore sarà più difficile per lui sostenere la non cantierabilità del progetto: a lui hanno fatto capo sia l’”ingegnerizzazione” che la “cantierizzazione”. Se non sapeva nemmeno lui come cantierare il progetto a chi potrà mai addebitare se non a se stesso l’errore progettuale?

Si smontano a priori il 90 per cento delle riserve. E, soprattutto, la richiesta di varianti in corso d’opera e l’anomalo andamento del cantiere, che sono i maggiori responsabili della mancata conclusione delle opere e della maggiorazione dei costi.

Le obiezioni

Ogni medaglia ha il suo rovescio e non mancheranno le obiezioni. Vediamo di anticiparne alcune.

Si dirà: l’eccezione di errore progettuale sollevabile dall’impresa non si supera perché può essere eccepito sul definitivo. Certamente. Però:

  • intanto, è indubbiamente più difficile che sussista errore progettuale su di un livello di definizione minore (per cui la percentuale è certamente più bassa – e poi dico io – se già c’è errore progettuale sul definitivo figuriamoci cosa sarebbe stato sull’esecutivo !)
  • poi, in ogni caso, la contestazione nascerebbe prima di aprire il cantiere, per cui non correremo il rischio di “anomalo andamento” e ci metteremo tranquilli al tavolo per verificare le carte senza l’ansia di non veder ultimati i lavori (magari per scadenze pubbliche improrogabili già definite e che mettono in scacco l’amministrazione pubblica).

Il livello di pressione “psicologica” dell’appaltatore nei confronti della pubblica amministrazione è minimo, se non nullo. Dal tavolo uscirà la soluzione e sarà esecutiva.

Ho poi letto che l’appalto integrato comprometterebbe la “centralità del progetto” che è il perno del Codice (e del processo di realizzazione) dei lavori pubblici. E qui veramente non capisco.

Sono assolutamente d’accordo che il progetto debba essere “centrale”, ma per essere centrale bisogna che ci sia un “dopo progetto” (l’esecuzione) e anche un “prima del progetto”.

E il “prima del progetto” è la fase della programmazione che, devo dire - da quello che vedo in giro - non mi pare sia la fase più accurata cui si dedicano le pubbliche amministrazioni con tutte le cautele che già la vecchia legge Merloni richiedeva (non tutte evidentemente: ci sono sempre le amministrazioni virtuose).

Spesso invece le carenze o le incompletezze della programmazione (non siamo un popolo di programmatori e sul tema non abbiamo neppure tanta esperienza) vengono rimandate alla fase di progettazione (una sorta di risoluzione dei problemi in corso d’opera, pardon in corso di progetto).

Ma la centralità del progetto – quanto a scelte strategiche - sta nella fase delle scelte discrezionali politico-amministrative che si esauriscono con l’approvazione del definitivo (l’approvazione dell’organo esecutivo).

E se il definitivo (e sottolineo se) è redatto secondo le prescrizioni del Codice la successiva fase di sviluppo nell’esecutivo ha ben poco da aggiungere sotto il profilo delle scelte strategiche se non appunto le scelte tecniche esecutive (quelle della ingegnerizzazione/cantierizzazione). Che  sono scelte tecniche che attengono unicamente alla discrezionalità tecnica e se abbiamo una pubblica amministrazione tecnicamente preparata nulla viene lasciato a discrezionalità dubbie dell’impresa e nulla viene tolto alla sua “centralità”.

Ho messo due “se”:

  • Progetto definitivo ben fatto;
  • Pubblica amministrazione (RUP) professionalmente all’altezza.

Se ci sono queste due condizioni (espressamente richieste dal Codice e che quindi non sono un’eccezione specifica per questo tipo di appalto) l’impresa non potrà proporre nulla che già non sia consentito nel progetto definitivo. Con garanzia dell’esatto adempimento del contratto e a conferma della centralità del progetto. Di cui si specificheranno solo le modalità tecniche di esecuzione.

Per contro si lascia all’impresa la facoltà di mettere in campo sue peculiari modalità operative, che non mi pare siano da comprimere o dissuadere (e nulla tolgono, anzi integrano, la “centralità” del progetto). E incentivano l’economicità.

Il problema vero è avere progetti definitivi che possano definirsi tali a norma di Codice e non, magari, progetti che rinviano all’esecutivo scelte non fatte.

Un cambio di approccio: una questione culturale. L’impresa è parte integrante del processo di realizzazione dei lavori pubblici

Occorre un cambio culturale di approccio (che anch’esso deve essere “integrato”).

La centralità del progetto continuerà ad operare anche tramite la scelta esecutiva dell’impresa la quale (anche se contrattualmente si definisce controparte) dovrebbe essere concepita invece come parte integrante del processo di realizzazione del lavoro in base a quel mai sufficientemente ricordato principio della “leale collaborazione” che deve vedere legati tutti i contraenti di un rapporto negoziale e che va oltre la semplice “buona fede”. La leale collaborazione presuppone una partecipazione attiva e, appunto, “collaborativa” al processo.

La diffidenza nei confronti dell’appalto integrato sottende un atteggiamento di diffidenza nei confronti dell’impresa. O addirittura di timore. Timore di confrontarsi.

L’impresa non è soggetto estraneo alla realizzazione dell’opera, ma ne è compartecipe. Vederla a prescindere come potenziale antagonista (o, peggio, corruttore) è atteggiamento sbagliato e distorto che già imposta il rapporto sul piano della diffidenza e che non porta da nessuna parte; anzi è un incentivo al potenziale contenzioso.

So che esiste un’ultima eccezione; legittima: la tutela del professionista incaricato della progettazione esecutiva e la “continuità” dello sviluppo progettuale.
Tema reale le cui soluzione però non sta nelle norme sulle modalità di esecuzione dei lavori pubblici (cechiamo di non confondere i ruoli legislativi perché in un processo complesso è la totalità del corpo normativo di riferimento che concorre al suo svolgimento), ma nella parallela disciplina delle professioni, della tutela del titolo, dei compensi professionali e delle modalità di affidamento degli incarichi.

Pensare di disciplinare tutti gli aspetti normativi in unico provvedimento è velleitario e sbagliato.

Ma questo è un altro tema, che andrà parallelamente affrontato e di cui magari ci occuperemo in altra sede perché mi risulta ci siano già in corso proposte in tal senso.

Come si è detto la realizzazione di un lavoro pubblico è procedimento complesso il cui positivo esito finale (la conclusione del lavoro) dipende da un delicato equilibrio di competenze e poteri gestionali che vanno contestualizzati perché a loro volta dipendono dal tipo di lavori, dalla complessità tecnica, dall’importo, dalle capacità dell’ente appaltante e del soggetto appaltatore…

Decidere come strutturarli è responsabilità della stazione appaltante e non è ininfluente sul successo o fallimento dell’operazione. L’appalto integrato non è la soluzione a tutti i problemi (l’opportunità del suo utilizzo andrà valutato caso per caso), ma è uno dei tanti strumenti a disposizione e proprio per questo non può essere escluso a priori dalle possibili scelte dall’amministrazione.


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Ermete Dalprato

Professore a c. di “Laboratorio di Pianificazione territoriale e urbanistica” all’Università degli Studi della Repubblica di San Marino

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