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Considerazioni Programmatiche per l’Industrializzazione Edilizia quale Politica Infrastrutturale

Una riflessione di Angelo Ciribini

La necessità di una «accoglienza» riservata alla popolazione già residente

Contrariamente a molte convinzioni relative alla questione securitaria legata, in parte, ai flussi migratori, per gli istituti di rilevazione dell’opinione pubblica iniziano ad apparire centrali per i cittadini, in termini di insoddisfazione, i servizi alla persona, in particolare quelli inerenti alla sanità e all’educazione, tanto che alcuni commentatori hanno parlato dell’esigenza di una forma di «accoglienza» riservata alla popolazione già residente nel nostro Paese.

Se tutto ciò risponde a verità, è evidente che occorra un programma politico di investimenti pubblici e partenariali finalizzato a «infrastrutturare» il vissuto della popolazione.

angelo-ciribimi-bim-digitalizzazione.jpgUn simile programma non potrebbe che passare attraverso due assunti complementari: un approccio sistemico di natura «industriale» agli investimenti relativi al ciclo di vita dei cespiti (dal social housing ai presidî ospedalieri, dall’edilizia scolastica a quella strumentale per la amministrazione pubblica); una concezione dello stesso che verta sui servizi individualizzati, alla persona, dunque, abilitati da beni immobiliari «giovevoli e ragionevoli» (quelli che Google definisce helpful e che IBM denomina cognitive).

Si tratterebbe, pur confrontandosi, in parte, col duro scoglio costituito dal patrimonio edilizio esistente da «rigenerare», di utilizzare un modo di pensare e di agire che sfrutti l’intima essenza della cultura industriale (senza necessariamente imitarne pedissequamente le modalità tipiche della manifattura), vale a dire i principî dell’integrazione, della sincronizzazione e dell’autonomazione.

In altre parole, tale tentativo è attualmente in atto, ad esempio, nel Regno Unito, nonostante le incertezze e le turbolenze causate dalla Brexit, attraverso le denominazioni di Design for Manufacturing & Assembly (DfMA) e di Modern Methods of Construction (MMC).

Questo sforzo, tuttavia, risulterebbe vano, se una nuova espressione dell’industrializzazione edilizia supportata da sostenibilità e digitalizzazione non fosse che un mero veicolo per giungere al cuore della questione, evocato in precedenza: gli stili di vita, evolutivi e singolari, dei cittadini.

In ciò consiste la maggiore sfida, quella, cioè di utilizzare programmi di investimento e piattaforme tecnologiche, Common Data Environment e Digital Twin, per «dematerializzare» i cespiti tangibili, nelle loro manifestazioni di spazi aperti e di spazi confinati.

Ovviamente, tale «immaterialità» dei beni immobiliari non deve né può essere intesa in senso letterale, bensì riguarda i business model incentrati sulla capacità «strumentale» dello spazio abitato, dell’ambiente costruito, di divenire vero e proprio ambito da social medium, intimamente, attingere alla «esperienza» o alla «relazione», perciò, «politico», laddove, tuttavia, le più avanzate immagini della «città del futuro» sono incentrate sulla social innovation, peraltro non distante da «interazioni naturali» tra cespiti e fruitori.

Naturalmente, questa ipotesi non allontana i timori dovuti al paradigma della «sorveglianza», ma aiuta a comprendere che gli smart district non possano, comunque, essere entità governate da intelligenze centralizzate: e anche questo aspetto richiama la posta in gioco «democratica».

È chiaro che all’Italia serva una visione ambiziosa riguardo a programmi di investimento «edilizi» che, in realtà, siano di «infrastrutturazione sociale».

Occorre, al contempo, una profonda rivisitazione delle filiere che caratterizzano il settore della costruzione e dell’immobiliare.

 

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