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Modelli Organizzativi e Strutture Professionali per il Settore dell'Ambiente Costruito in Italia: 2025-2030

Una riflessione di Angelo Ciribini sui modelli organizzativi e sulle strutture degli operatori nel settore dell'Ambiente Costruito in Italia 2025-2030

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Organisationally, financially, culturally Product companies are different from Service companies. The former is set up to create a physical object and then sell it, a one-off or minimal touch transaction whereas the latter is about developing an ongoing, meaningful high touch relationship with one’s customer. The internal corporate requirements are entirely different. 

Antony Slumbers

Il settore dell’Ambiente Costruito in Italia

Nonostante che il settore della costruzione e dell’immobiliare in Italia sia stato per almeno due lustri in questo secolo notevolmente ridimensionato nei volumi operativi e occupazionali, che tenda a godere di cattiva reputazione da parte dell’opinione pubblica per differenti ragioni (illiceità, conflittualità, improduttività), che abbia subito forti restrizioni creditizie, che presenti marginalità modeste, che sia sottovalutato in termini di sua consistenza e influenza sulla economia del Paese, che sia giudicato fortemente tradizionalista o scarsamente innovativo (a partire da Green & Digital), è indubitabile che, a partire dal 2006, primo anno della più grave crisi strutturale mai vissuta, in maniera talora difficilmente leggibile e spesso disomogenea, abbia subito un processo di profonda trasformazione, cosicché ricorrere alla nozione di arretratezza non risulta giustificato.

Naturalmente, questo processo trasformativo potrebbe essere valutato come un processo spontaneo e adattivo che non richieda una esplicita strategia intenzionale o almeno che la implichi solo puntualmente, facendo sì che i suoi protagonisti, sul lato sia della Domanda sia dell’Offerta, non siano generalmente emulabili: o meglio, si possano trovare giustificazioni per non emularli.

Parimenti, si potrebbe ritenere che la struttura del mercato non possa subire grandi rivolgimenti nel breve e nel medio periodo e che esso, più che di un radicale cambiamento di paradigma, necessiti di evoluzioni modeste e incrementali, sostenute da una tutela da parte dei decisori politici, relativamente alla disponibilità di provviste finanziarie, di capacità di loro impegno, di semplificazione legislativa e procedurale, e così cantando.

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Secondo questa ottica, le innovazioni sarebbero probabilmente prevalentemente di natura tecnologica (ad esempio, gli strumenti digitali o i nuovi materiali) e avrebbero carattere neutrale, non investendo la sfera dei modelli organizzativi e contrattuali, né tantomeno le strutture professionali e imprenditoriali.

D’altra parte, la recente monografia, supportata da Assimpredil, sulla vita e sulle opere di Antonio Bassanini, suo storico esponente, evidenzia come, non sia la metà del primo decennio degli Anni Duemila, bensì l’inizio degli Anni Settanta del secolo scorso lo spartiacque, allorché, accanto a forme di concorrenza sleale e di guerra dei prezzi, non regge più il modello della impresa generale di costruzioni che internalizzava le proprie attività esecutive specialistiche, supportate da una struttura tecnica in grado di collaborare coi migliori architetti e ingegneri e gli stessi imprenditori preferiscono, con dispiacere, dedicarsi alla finanza immobiliare.

In realtà, si definisce abitualmente il settore come arretrato per via della comparazione specialmente con il settore manifatturiero, termine di confronto immancabile e controverso, poiché non completamente commensurabile, nell’ultimo secolo, dal fordismo alla quarta rivoluzione industriale.

In fondo, il tema sarebbe quello della scarsa produttività del settore e della industrializzazione quale via maestra per recuperare il divario conseguito: in sintesi il fulcro consisterebbe nella cultura industriale, che vede spesso il ceto professionale, o una parte di esso a disagio con le sue logiche, e il ceto imprenditoriale in difficoltà rispetto a condizioni contestuali dissimili.

Occorre, tuttavia, chiedersi se la transizione verso un nuovo settore dell’ambiente costruito non sia, in verità, che appena iniziata, sollecitando modelli organizzativi e strutture professionali e imprenditoriali inedite e preludendo a mutazioni ancor più significative.

Bisogna, inoltre, domandarsi se tale evoluzione possa essere o meno influenzata da una politica industriale che ne orienti selettivamente il cambiamento, così come, in parte, è accaduto per il settore manifatturiero, oppure se essa debba contare essenzialmente sulla propria capacità autonoma di declinare strategie industriali altrettanto capaci di definire nuovi assetti (senza contare lo spontaneismo di cui si diceva).

Vi è da riconoscere come, se nelle presenti riflessioni la parola chiave più ricorrente sia ibridazione, nel contesto attuale emerge, invece, l’eterogeneità.

Che cosa, infatti, accomuna la società di ingegneria rivolta ai mercati internazionali e lo studio professionale locale intento nei micro e nei piccoli incarichi?

Che cosa accomuna, ancora, il contraente generale interessato alle grandi infrastrutture in diversi continenti e l’impresa generale attiva in un contesto addirittura regionale?

Che cosa accomuna attori presenti in aree diverse del Paese e in segmenti diversi del mercato?

È, perciò, chiaro che occorra cercare di profilare il settore nella sua unitarietà, ma, al contempo, esso include attori assai differenti che ne rendono difficoltosa una versione omogenea, non a causa delle difficoltà intrinseche che possano incontrare i corpi intermedi nella rappresentanza, bensì della disomogeneità dei contesti, persino all’interno delle stesse zone territoriali.

Lo sforzo che, nel senso della visibilità complessiva, sta compiendo, in particolare, Lorenzo Bellicini è quello di dimostrare la rilevanza del settore allargato dell’ambiente costruito per l’economia e per la ricchezza nazionale in termini, anzitutto, contabili, includendovi lavori e servizi in maniera più appropriata.

Ciò vorrebbe, da un lato, significare che, per la contabilità nazionale, il settore potrebbe contare per oltre il 30%, ma, soprattutto, che la correlazione inversamente proporzionale tra incidenza del settore medesimo su di essa e maturità dello sviluppo di un Paese e della sua economia possa essere messa in dubbio.

Si tratta di quello che il CRESME definisce valore dell’ambiente costruito di primo livello.

La tesi, aggiuntiva, che propone lo scrivente, è che, accanto a una lettura accresciuta dell’incidenza del settore ridefinito dell’ambiente costruito, si possa supporne una ulteriore dilatazione, laddove esso intersechi direttamente i servizi alla persona consentiti da una completa digitalizzazione e interconnessione delle attività esistenziali, o meglio esperienziali, degli esseri umani, definiti da Accenture come Living Service.

L’osservazione precedente sul ruolo del settore nell’economia nazionale in termini di maturità  sarebbe così ulteriormente accentuata, in modo simile a ciò che il CRESME denomina in quanto valore dell’ambiente costruito di secondo livello.

Di fatto, tali servizi, probabilmente più facilmente erogabili nelle agglomerazioni urbane che stanno polarizzando il territorio nazionale, necessitano di un ecosistema che riconosca le necessità individuali, sempre più articolate ed evolutive, grazie a sofisticati sistemi di interconnessione.

Anche la ricerca, promossa da Assolombarda con IUAV sulla Rigenerazione Urbana, e coordinata da Ezio Micelli, auspicava nuovi modelli aziendali connessi ai fenomeni accennati, facendo intravedere la possibilità di una maggiore presenza del mondo confindustriale nel comparto, oltre a quello più direttamente già rappresentato, comprendendovi anche l’industria di servizio.

D’altra parte, ad esempio, anche nelle sfere tradizionali, l’esigenza crescente di risanamento o di sostituzione delle opere d’arte infrastrutturali si coniuga con istanze ambientali sempre più pressanti che sono, inoltre, accostabili a nuove concezioni dell’esperienza di viaggio: a partire dalla permanenza guidata del viaggiatore, localizzabile e interconnesso, nell’aeroporto o nella stazione ferroviaria sino a quella dello stesso viaggiatore lungo un’autostrada o una strada interconnessa, in attesa dei veicoli a guida autonoma.

Secondo, infatti, l’interpretazione dell’infrastruttura ferroviaria che ne offre, ad esempio, High Speed Two, l’insieme degli edifici, dei viadotti, delle gallerie, dell’armamento, del segnalamento e del materiale rotabile non sarebbe che il presupposto per erogare una esperienza di viaggio fortemente individualizzata a ciascun passeggero e cliente, con cui geo-spazialmente si sarebbe in contatto prima che egli o ella raggiunga il luogo di partenza.

A titolo esemplificativo, allorché il passeggero prospettico si rapportasse direttamente colla stazione di partenza mentre si trovasse intrappolato nel traffico, il sistema potrebbe effettuare una nuova prenotazione oppure allorché lo stesso viaggiatore, riconosciuto al suo ingresso dalla stazione medesima, ricevesse in tempo reale la proposta di sottoscrizione di una polizza assicurativa istantanea, si potrebbe, in qualche modo, affermare che compagnie ferroviarie e assicurative siano entrate a far parte del settore dell’ambiente costruito.

Lo stesso vale per alcune sperimentazioni condotte nelle stazioni aeroportuali.

Analogamente, la flessibilità e la multifunzionalità degli spazi educativi e lavorativi fanno sì che gli edifici debbano rispondere a requisiti molto più articolati che in passato e che i loro gestori siano in grado di analizzare quasi in tempo reale le specifiche modalità di uso dello spazio da parte degli occupanti per metterli nelle condizioni più idonee a operare, istituendo, ad esempio, una diretta correlazione tra qualità dell’ambiente costruito e produttività dei servizi o dei lavori erogati.

Ciò che rileva, comunque, anche limitandosi ai manufatti in quanto tali, è che la loro commissione e progettazione, laddove espresse digitalmente, abbiano condotto a configurare modelli e strutture di dati che, accanto a forme di «rappresentazione», abbiano subito imposto modalità di «simulazione».

In altre parole, sia per l’edificio sia per l’infrastruttura (ma occorrerebbe aggiungere anche la rete), il «funzionamento», circoscritto al cespite oppure esteso alla sua fruizione, è immediatamente divenuto centrale: colla conseguenza che i modelli organizzativi e le strutture professionali e imprenditoriali debbano confrontarsi con le diverse accezioni di «prestazionalità».

In altre parole, anche limitandosi alla fisicità del bene scarsamente interconnesso e interattivo, la centralità dei processi funzionali sposta l’attenzione dal cespite materialmente inteso al suo comportamento: dinamico ed evolutivo, «mobilizzando» la concezione dei cespiti.

Ovviamente, il fatto che la parte maggioritaria degli interventi riguardi, per l’Italia, i brown field, spesso non abbandonati, bensì occupati, costringe a un fabbisogno di conoscenza assai cospicuo dei modi di funzionamento e di guasto dei beni.

In assenza dei green field, infatti, la Rigenerazione Urbana e il Rinascimento Urbano appaiono sostanzialmente, in alcuni casi, fatti, peraltro rari, di demolizione e di ricostruzione, accompagnati da aumenti di volumetrie edificabili, ma generando un potenziale conflitto culturale con le politiche di conservazione programmata complementari al contenimento del consumo di suolo permeabile: oltreché limitando l’ambito di applicazione alla realtà materiale.

Sull’argomento, le acute osservazioni di Carlo Olmo sulla patrimonializzazione delle città dovrebbero, peraltro, indurre a molta cautela intorno alle retoriche e ai racconti sulla Smart City.

Tali ipotesi di lavoro mostrano, in effetti, scenari assai differenti rispetto a quelli indicati in negativo nelle premesse, sottolineando i risvolti politici e sociali, oltre che economici della presunta svolta.

D’altronde, è ormai consolidato a livello internazionale il fatto che uno sviluppo immobiliare a scala urbana che ambisca a costituire uno Smart District non possa basarsi esclusivamente su Smart Grid, Cognitive Building e Green Mobility, bensì debba costituire comunità inclusive, sostenibili, improntate alla Social Innovation, decretando una forte «dematerializzazione» dei prodotti posti sul mercato.

In fondo, accanto alla Social Innovation, il Performance Engineering concorre a formare Occupancy Pattern, modalità di esercizio dei beni e di loro fruizione.

Anche evitando di trascendere dall’ambito conchiuso del settore, User’s Behaviour e User Centrism sembrano originare la maggiore value proposition.

Oltre che l’innovazione dei prodotti e dei processi, è, non per nulla, il cambiamento degli stili di vita che decreta la modificazione dei paradigmi consolidati.

Se ci si pensa bene, allorché si investe su impianti e finiture per efficientare energeticamente un edificio oppure si ricorre a soluzioni domotiche per digitalizzarlo, ci si conserva alla esteriorità del fenomeno.

La mutazione dei modelli organizzativi, delle strutture professionali e imprenditoriali, nonché, in ultima analisi, dei prodotti offerti e dei servizi erogabili, influenza, ovviamente, anche le istituzioni politiche e finanziarie, chiamate a supportare le operazioni di sviluppo immobiliare e gli investimenti infrastrutturali.

Una volta, infatti, precisati nuovi modelli organizzativi e nuove strutture professionali e imprenditoriali, occorrerà formalizzarne e spiegarne i contenuti a favore dei decisori, perché se attualmente il comparto suscita diffidenza, è chiaro che soluzioni inedite comportino profili di rischio da indagare e da valutare ulteriormente.

Gli stessi soggetti incaricati dei prelievi fiscali dovrebbero meglio comprendere come stia mutando la generazione di valore e di redditività nell’ambiente costruito.

Prodotti o servizi?

Il recente passato e il presente del settore della costruzione e dell’immobiliare sono narrati con attenzione dal rapporto congiunturale del CRESME dedicato al 2020, in cui si nota una ripresa stabile, sia pure contenuta, degli interventi di nuova costruzione, residenziale e non residenziale, accanto a una significativa crescita dei servizi connessi al Facility Management.

Allo stato attuale, il valore della sola manutenzione ordinaria è, tuttavia, più che doppio rispetto a quello della nuova costruzione nell’edilizia residenziale, dimostrando quanto il comparto si sia modificato nell’ultimo decennio, costringendo molti operatori, tra coloro che non sono scomparsi, a riconvertire la propria offerta.

Vi è da notare, a proposito di modelli organizzativi, che molti osservatori ritengono che non sempre la selezione sia stata virtuosa e che, anzi, sovente abbia penalizzato le realtà di medie dimensioni maggiormente strutturate.

Di fatto, la fase di straordinario sviluppo del settore, occorsa tra il 1996 e il 2006, ha fatto da preludio alla peggiore crisi recessiva, di carattere strutturale, che ha sancito perdite occupazionali e scomparse societarie drammatiche, terminata, in maniera embrionale, solamente a partire dal 2015, con entità della ripresa incomparabili rispetto al decennio a cavallo tra i due secoli.

Quantunque gli aspetti occupazionali e societari siano cruciali, l’elemento centrale, rispetto ai modelli organizzativi, è consistito forse nello stravolgimento identitario degli immaginari degli attori professionali e imprenditoriali che hanno stentato a riconoscersi in condizioni spesso antitetiche a quelle originarie, tanto che, in fondo, anche i principali processi aggregativi sono stati condizionati dalle contingenze, così come il posizionamento dei soggetti più attivi è avvenuto lontano dal mercato domestico, sui mercati internazionali, che, tuttavia, divengono sempre più sfidante e meno redditizio.

Per un certo verso, la difficile comparazione col settore manifatturiero, in coincidenza con l’impossibilità a comparare l’attuale crescita con quella del recente passato, costituisce un ulteriore impedimento considerevole quanto a riferimenti.

La prevalenza degli interventi sul costruito, di manutenzione ordinaria e straordinaria, intrinsecamente frazionati, specie nel segmento residenziale, pari a circa i tre quarti del totale, dimostra una evoluzione nel decennio assai significativa, a discapito della nuova costruzione che oggi si vorrebbe rilanciare principalmente in qualità di edilizia di sostituzione, eventualmente secondo criteri ispirati alla industrializzazione, ma sia la sostituzione sia l’industrializzazione hanno a oggi tassi di adozione assai modesti.

La preponderanza degli interventi di riqualificazione e di recupero, positiva sotto molti aspetti, non pare, comunque, avere apportato particolari innovazioni nei modelli organizzativi né nelle strutture professionali e imprenditoriali, anche se, secondo il CRESME, ha determinato uno spostamento dell’equilibrio dalla «calce e mattoni» verso finiture e impianti: e servizi.

Al contrario, essa ha probabilmente consolidato la prevalenza delle micro e delle piccole organizzazioni, favorendo una già accentuata dispersione della Domanda e dell’Offerta, col conseguente nanismo dimensionale che sembra, tra gli altri, essere un oggettivo ostacolo alla evoluzione del settore.

Oltre al consolidamento della atomizzazione di Domanda e Offerta, le politiche di incentivazione fiscale degli interventi sul costruito, il cui esito qualitativo, in termini di efficientamento, è in parte da dimostrare, hanno visto una concentrazione degli stessi nelle aree centro-settentrionali del Paese, evidenziando il noto squilibrio territoriale che lo caratterizza.

Analogamente, sia pure con riferimento a un segmento di mercato dell’edilizia privata più strutturato e ampio di quello dei micro e dei piccoli interventi di riqualificazione e di recupero del residenziale, Guamari, nel rapporto relativo, palesava una forte concentrazione imprenditoriale nell’area centro-settentrionale.

Ci si domanda, perciò, sovente secondo quali direttrici sia possibile immaginare gli assetti organizzativi del mercato della costruzione e dell’immobiliare nel prossimo futuro, tenendo presente, come sottolinea l’istituto romano, che il maggior agente attuale del consumo di suolo sia rintracciabile nella dotazione infrastrutturale e non edilizia.

La maggior parte degli interventi precedentemente menzionati coinvolge probabilmente l’On Site, mentre, comunque, nei principali Paesi la quota di mercato relativa all’Off Site rimane contenuta, ma la dialettica che si instaura progressivamente tra On Site e Off Site promette, in effetti, di consentire una riflessione più rigorosa sugli sviluppi evolutivi degli assetti di natura organizzativa (non economico-finanziaria) del settore.

Sostanzialmente, il ragionamento potrebbe articolarsi attorno ad alcuni punti essenziali:

  1. a quali condizioni la frammentazione della Domanda e dell’Offerta possa ridursi;
  2. quale integrazione sia possibile conservando attitudini distintive tra tipologie di attori;
  3. quale nuovo mercato possa far competere tra di loro soggetti sinora eterogenei.

L’atomizzazione del settore della Costruzione e dell'Immobiliare

A proposito del tema della parcellizzazione del mercato, i modelli organizzativi di integrazione verticale appaiono emblematici di un tentativo di riconfigurare industrialmente il comparto.

Alcune fonti di investigazione giornalistica riportano, in materia, le difficoltà che avrebbe incontrato Katerra nella esecuzione di alcuni contratti.

Il caso della società statunitense è, anzitutto, interessante appunto perché, così come per WeWork, si tratta di iniziative pionieristiche, la prima nel campo della costruzione, la seconda dell’immobiliare, sostenute finanziariamente dalla giapponese SoftBank quali tentativi di assimilazione dei business model basati sulla experience da parte del settore all’ambito delle Technology Company: con grandi aspettative e con notevoli difficoltà.

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Per certi aspetti, perciò, le società che più, come Katerra e WeWork, avevano investito nella digitalizzazione per cambiare i connotati dei rispettivi mercati sembrano, almeno temporaneamente, subire una battuta di arresto.

In verità, i portati di queste esperienze, sotto determinati profili, appaiono irreversibili e potrebbero essere proseguiti da altri operatori, eventualmente più storici e tradizionali, che lentamente assimilano una serie di innovazioni puntuali proposte da ConTech e da PropTech.

A prescindere da ciò, Katerra, in verità, si è posta, come accennato, come esempio di integrazione verticale della filiera, proponendo, dunque, una versione attinente alla industrializzazione edilizia piuttosto radicale, di là della natura dei sistemi costruttivi proposti, condivisi, peraltro, da Alphabet (Google) con Sidewalk Labs nell’altrettanto controverso esperimento sociale e tecnologico del waterfront di Toronto.

Naturalmente, nelle tassonomie dei moderni metodi di costruzione, l’integrazione verticale non rappresenta l’unico modello, forse neppure il più efficace, ma esso apparirebbe come quello maggiormente in grado di sconvolgere gli attuali assetti del settore.

Ciò è particolarmente interessante, fatte le debite proporzioni, per il mercato domestico, poiché  se è vero che esperienze Off Site, pur presenti embrionalmente, di riconduzione dei progettisti e dei costruttori nell’alveo di una regia offerta dal produttore e assemblatore, non sono agevolmente valutabili, stante la loro recenziorità, i soggetti tradizionali nelle commesse On Site, a cominciare dalle imprese di costruzioni, hanno spesso esternalizzato molte produzioni, non solo specialistiche, rendendo estremamente complicata la catena di fornitura, contraendosi dimensionalmente e privandosi dei saperi tecnici.

La presenza di diversi livelli di fornitura nella catena, di per se stessa sempre più parcellizzata, non ha fatto sovente che enfatizzare le ragioni di distinzione dei singoli operatori e ha permesso loro di ridurre la loro responsabilizzazione nei confronti del fine ultimo della commessa.

Non a caso, la metodologia della Lean Construction, pressoché ignorata in Italia, tende a mitigare la creazione di dis-valore, lo spreco, e a coinvolgere nei processi decisionali i livelli inferiori delle catene di fornitura.

Se, pertanto, i modelli del tradizionale evoluto sembrano essere stati pesantemente colpiti dalla crisi strutturale e se, però, al contempo, i modelli della nuova industrializzazione stentano ad avere la meglio sulla realtà resistente, quali business model potrebbero essere, in definitiva, davvero praticabili?

Tutti i tentativi promossi attualmente si concentrano sull’incremento delle qualità architettoniche, sul miglioramento delle prestazioni ingegneristiche, sulla riduzione dei tempi di esecuzione, sull’abbattimento dei costi, espresse come intenzioni da perseguire, ma le vie sinora percorse difettano di criteri di valutazione del ritorno sugli investimenti che siano univoci.

L’integrazione verticale rappresenta, perciò, entro il contesto della competizione tra in opera e fuori opera, l’estremizzazione di una ipotesi che, all’insegna della quarta rivoluzione industriale, con tutti i crismi del Green & Digital, avvalorerebbe l’ipotesi della crucialità di un centro decisionale unitario in grado di mitigare o di azzerare le inefficienze dovute alla distinzione identitaria tra progettisti/professionisti e costruttori/imprenditori, assorbendo, peraltro, il ruolo dei produttori di materie prime e di semilavorati, oltreché dei distributori commerciali.

Questa opzione ridarebbe, in teoria, piena dignità manifatturiera al settore della costruzione, collocandolo in una posizione di maggiore visibilità, proprio in virtù dell’esito dei fenomeni aggregativi e delle economie praticabili, oltreché di una maggiore contemporaneità tecnologica.

Al contempo, però, è come se tutte le inerzie e le specificità della progettazione, così come della costruzione emergessero, cercando una rivalsa sulle ipotesi di trasformazione radicale, di riconfigurazione, del settore: esattamente come era avvenuto decenni or sono.

Come si constaterà, le più credibili soluzioni al tema risiedono con ogni probabilità altrove.

In quest’ottica, alcune ipotesi ed esperienze di istituzione di piattaforme digitali di prodotto basate su una componentistica aperta e interoperabile, gestita computazionalmente in termini combinatoriali, suggeriscono ipotesi maggiormente partecipative di integrazione tra operatori che agiscano secondo condizioni meno subordinate verticalmente in base a una accertata complementarietà: è l’alternativa principale all’integrazione di carattere verticale, basata, la prima, sul coordinamento di ecosistemi produttivi.

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La estensione dei sistemi proposti, di per se stessa, potrebbe, sul versante imprenditoriale, vedere quale principale protagonista il costruttore oppure il produttore e assemblatore, ma, in entrambi i casi, i contenuti metaprogettuali (dal lato della committenza) e progettuali (dal lato della professione) non sarebbero facilmente assorbibili, per quanto necessitino di mediazione e di inclusione nelle logiche produttive.

La nozione di «configuratore», nello scenario del Green & Digital, contrariamente all’ipotesi estremistica dell’integrazione verticale dell’intera catena di fornitura, esprimerebbe, quindi, una sorta di flessibilità nella contendibilità della regia delle operazioni di sviluppo immobiliare, che alcuni vorrebbero estendere anche agli investimenti infrastrutturali che, tuttavia, paiono possedere caratteristiche peculiari.

In entrambe le situazioni, comunque, si tratterebbe di capire quale ruolo di indirizzo possa avere la Domanda, specialmente Pubblica, nel favorire determinati modelli organizzativi e strutture professionali e imprenditoriali laddove aggreghi i centri di acquisto e sviluppi grandi programmi mirati di investimento.

L’integrazione delle culture professionali & imprenditoriali

In merito alla questione della integrazione, è chiaro, riprendendo il punto precedente, che le controversie che hanno caratterizzato, ad esempio, l’appalto integrato dimostrano come tutto ciò che possa essere ricompreso sotto la dizione di collaborazione sia paradossalmente difficilmente compatibile con soluzioni che prevedano una parziale rinuncia ai tratti distintivi, identitari.

L’avvento di tecnologie digitali legate alla modellazione informativa finalizzata alla gestione informativa, intrinsecamente rivolte a far convergere l’operato dei singoli attori entro basi di dati ed ecosistemi ha, invero, indotto molti osservatori a ritenere che ciò comportasse forzatamente condizioni di collaborazione e di integrazione, trascurando la considerazione che l’imposizione di una coerenza strumentale non sia di per sé in grado di modificare sistemi socio-tecnici radicati.

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Nella realtà delle cose, peraltro, anche le formule partenariali tra soggetti pubblici e privati, anche sul versante imprenditoriale, non sempre si sono risolte in una perfetta coesione tra i partecipanti alle società veicolo, ai promotori.

Al contempo, però, soluzioni come quelle ascrivibili agli accordi collaborativi, cercano di generare valore dall’introduzione di meccanismi socio-tecnici di regolazione flessibile dei quadri giuridico-contrattuali.

Più in generale, però, sia pure in un contesto che si vorrebbe cooperativo (la locuzione «ambiente di condivisione dei dati» è emblematica in proposito), le inefficienze che presumibilmente sono imputabili ad approcci che tendano a separare le categorie di operatori e a favorire la parzializzazione degli obiettivi, richiedono, tuttavia, soluzioni che valorizzino saperi specifici di natura professionale.

Certo, una parte di tali saperi, nella fase esecutivo-costruttiva della progettazione, potrebbero sempre più diffusamente vedere una riappropriazione da parte del costruttore (come è già implicito per il produttore e assemblatore), ma la vera sfida consiste nel comprendere se vi sia la possibilità di trovare soluzioni di ibridazione tra la cultura professionale e quella imprenditoriale.

È chiaro, da un canto, che i saperi specifici, in una eventuale «con-fusione», difficilmente possono essere acquisiti unilateralmente da altre parti.

Il che non riguarda solo il ruolo dei progettisti, in ispecie degli architetti, o anche dei loro consulenti tecnici, bensì, ad esempio, pure quello dei costruttori, nelle fasi di esecuzione, ivi incluse quelle di assemblaggio dei componenti prefabbricati.

Lo stesso dicasi per l’apporto della distribuzione commerciale sul piano consulenziale.

In definitiva, il programme e il project management hanno la finalità di allineare, per una pluralità di commesse o per una singola commessa, culture, interessi e gerghi eterogenei, lungo il ciclo di vita delle stesse, in nome di un interesse superiore e comune.

La dimensione collaborativa esprime, pertanto, questo anelito che, invero, si traduce in un contesto solidale in cui le responsabilità, oltre che le autorialità, possono essere redistribuite.

Di conseguenza, i modelli organizzativi e le strutture professionali e imprenditoriali dovrebbero agire nel luogo della condivisione in modo da non alimentare ulteriori occasioni di conflitto

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Il fatto è che, a fronte di storie identitarie assai differenti, ad esempio, tra architetti, ingegneri, produttori, costruttori, manutentori e gestori, per non parlare di tutti gli attori del settore immobiliare, gli sforzi di prevederne, dapprima, una integrazione e, in seguito, una ibridazione, presumevano connotati meccanicistici.

Alcune provocazioni, tuttavia, di Phil Bernstein relative, ad esempio, al fatto che gli architetti possano essere tenuti responsabili per un determinato lasso di tempo dopo la realizzazione non solo delle prestazioni offerte dagli edifici, ma anche del grado di soddisfazione occupativa dei fruitori, essendone remunerati in parte in conseguenza, sono indizi rivelatori di una possibile ibridazione tra professionalismo e imprenditorialità.

Esse, d’altronde, collidono colla classica narrazione operata dagli architetti secondo cui sarebbe doveroso, una volta collaudata l’opera, che gli stessi ideatori ne prendessero le distanze a favore degli utenti, dei gestori e dei proprietari.

Al contempo, alcune forme di automazione di attività progettuali (ad esempio, relative alla definizione generativa delle soluzioni distributive: come per Bryden Wood o per TestFit e Up Codes) stanno alimentando la preoccupazione attorno alla mercificazione della professione.

Più che immaginare la sostituzione dell’intelligenza naturale con algoritmi di intelligenza artificiale e la manodopera con automi, si tratta, però, di comprendere che la digitalizzazione pone profondi mutamenti nella natura delle opere stesse o delle sue parti.

Certo è che la concezione di un edificio, o addirittura di una infrastruttura, in cui i singoli componenti posseggano una intelligenza, siano in grado di dialogare tra di loro, riescano a interagire coi fruitori, costringerebbe sia ideatori sia esecutori, per non dire dei manutentori e dei gestori, a una responsabilizzazione sulle prestazioni offerte dai cespiti molto vicine a quanto affermato poc’anzi.

Quel che non si comprende a sufficienza in merito è il fatto che edifici o infrastrutture interconnessi e loro parti, a prescindere dai corrispondenti gemelli digitali, saranno cespiti contrattualmente gestiti, nella loro realizzazione, così come nel loro ciclo di vita, da attori i cui modelli organizzativi e la cui natura dovrà rispondere a prestazionalità puntuali e dinamiche, che esuleranno dalla normalizzazione data da caratteristiche e prestazioni definite convenzionalmente.

I cosiddetti meta standard, infatti, risponderanno a quadri di on real time digital compliance e di machine readable regulation.

Attualmente, poi, come ricordato, la contrazione drammatica del mercato, il suo orientamento verso gli interventi sul costruito, le remunerazioni inique, la guerra dei prezzi, la concorrenza sleale, le condotte illecite e quant’altro hanno sottratto valori reputazionali e visibilità mediatica alle tipologie degli operatori convenzionali.

Ciascuna categoria di attori, se non in un ambito, comunque, di distinzione tra professionalismo e imprenditorialità, ha recentemente cercato di istituire modalità di rappresentanza relativamente unitarie, ma la preoccupazione di salvaguardare le prerogative proprie sembra spesso prevalere.

Green & Digital, in terzo luogo, evidenziano una traslazione tale per cui i cespiti immobiliari e infrastrutturali divengano sempre più veicoli interattivi cogli utenti, diventino dispositivi abilitanti l’erogazione di servizi personalizzati agli individui.

Se, dunque, il primo tema affrontato riguardava l’accelerazione dei processi aggregativi, intesi non solo in senso dimensionale, ma anche come insorgenza di attori che integrino e che governino catene e filiere, mentre il secondo argomento investiva la possibilità che tale condizione generasse una ibridazione tra culture professionali e imprenditoriali.

Il terzo punto inerisce, perciò, a un passaggio supplementare, che non investe solo gli operatori tradizionali e la natura tangibile dei loro «prodotti», bensì sottolinea come, appunto, questi si tramutino in «processi» in un arco senza soluzione di continuità che, a partire dalla profilazione degli utenti negli ecosistemi digitali e dal loro tracciamento geo-spaziale, giunga, infine, alla loro interazione con beni immobiliari cognitivi e responsivi.

Nel primo punto la questione verteva sulla possibilità che un soggetto, professionale, o più probabilmente imprenditoriale, potesse acquisire una posizione dominante, nel secondo punto la tematica concerneva la possibilità di «armonizzare» (di pacificare?) i saperi, nel terzo punto la dislocazione del prodotto in servizio implica una contendibilità del governo della gestione dell’ambiente costruito da parte di soggetti sinora estranei a esso, come le Public Multi Utility (già, invero, attive negli interventi puntuali di riqualificazione defiscalizzati) e le Technology Company, che iniziano a proporre soluzioni helpful, anziché smart, per la home, a partire dagli home speaker.

Di conseguenza, ENEL ed ENI, da un lato (per non dire di altri), Amazon e Google, da un altro, per citare solo i più noti, cominciano ad apparire come attori del settore, proprio a partire dal patrimonio esistente, ovvero sia dall’ambiente costruito.

A questa considerazione si deve aggiungere che l’universo eterogeneo delle ConTech e delle PropTech propone una miriade di interventi puntuali da parte di start up che richiederanno una messa a sistema, oltre che forse una acquisizione, da parte dei soggetti più consolidati sul mercato.

L’elemento maggiormente connotante ciò che, orribilmente, si potrebbe definire la piattaformizzazione dell’ambiente costruito è, infatti, il continuum che intercorre tra ambiti immateriali e ambiti materiali.

Sinché tra di essi poteva o potrebbe sussistere una cesura è evidente che il settore della costruzione e dell’immobiliare era o avrebbe potuto essere in grado di distinguersi da quello dell’ambiente costruito in senso più dilatato.

La diffusione della geo-spazialità per il governo delle città e dei territori e l’adozione di dispositivi interattivi, dall’assistente vocale domestico ai sistemi cognitivi impiantistici, ha iniziato a mutare i termini della questione che, come anticipato, potrebbe trovare una saldatura finale nella completa interoperabilità dei protocolli di scambio e di comunicazione tra il mondo dei social network, le control room urbane e territoriali e i cespiti interconnessi.

In altre parole, l’occupante che è anche attivo negli ecosistemi sociali digitali può essere profilato, identificato nei propri spostamenti, riconosciuto da parte dei cespiti immobiliari o infrastrutturali.

Ovviamente, nell’economia di questo discorso, il ruolo investigativo e predittivo degli algoritmi, magari «nascosti», enfatizza la dialettica relativa a un ambiente costruito in cui si alternano Sharing Economy e Surveillance Capitalism.

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Se il paradigma della digitalizzazione appare come il fattore trasformativo per eccellenza, la giustificazione valoriale di tale cambiamento risiede nei paradigmi della circolarità, della decarbonizzazione, della sostenibilità.

Attorno alle polarità rappresentate da Green e da Digital è possibile, pertanto, immaginare di configurare un settore dell’ambiente costruito inedito.

La cosiddetta piattaformizzazione dell’ambiente costruito impone, peraltro, una scala di intervento che sia collocata preferibilmente a livello di distretto urbano, poiché questa è la dimensione ottimale in cui, ad esempio, si possa verificare una convergenza di operatori delle Public Multi Utility, delle Technology Company e di altro.

Le nuove forme della Domanda e dell’Offerta

L’interrogativo peculiare che ci si prefigge di indagare riguarda, dunque, la possibile metamorfosi della Domanda e, sopra a tutto, dell’Offerta, sotto il profilo organizzativo, a prescindere dagli aspetti economico-finanziari e dalla natura più o meno familiare della titolarità delle organizzazioni professionali e imprenditoriali.

Per quanto riguarda la Domanda Pubblica, essa dovrebbe forzatamente seguire percorsi di aggregazione e di riqualificazione delle modalità di espressione delle richieste affinché possa agire come fattore determinante per la rivisitazione del settore, avendo sullo sfondo la vicenda dei lunghi tempi di attraversamento amministrativo e quella dei ritardati pagamenti.

Analogamente, la Domanda Privata, di là dello sviluppo immobiliare di media e di grande scala, costituito da una proprietà estremamente frazionata, dovrebbe trovare modalità inedite di accentramento per esprimere richieste qualitativamente rilevanti.

In merito alla promozione immobiliare, la diffusione della realizzazione di Smart District e lo sviluppo della Rigenerazione Urbana, interessanti aree significative, pongono la necessità dell’individuazione della composizione societaria, tanto più se l’oggetto si estendesse dalla produzione di beni tangibili anche agli ambiti esperienziali degli utenti.

La funzione della Domanda, almeno della sua parte professionale, in questa accezione, dovrebbe essere, in effetti, quella di formulare le proprie aspettative in modo da evidenziare la nuova dimensione dei beni immobiliari e infrastrutturali, ma, specialmente, di agire sulla configurazione della catena di fornitura dell’Offerta.

D’altra parte, a prescindere dalla complessità giuridico-amministrativa ed economico-finanziaria dei maggiori contratti di Partenariato Pubblico Privato, su cui molto si è speso Remo Dalla Longa, gli stessi hanno spesso palesato la difficoltà culturale avvertita dai protagonisti tradizionali, professionali e imprenditoriali, del settore nei confronti di ciò che andasse oltre la sfera dei cespiti fisici.

Non troppo dissimile è il caso dei Performance-Based Contract: in particolare di quelli relativi alle prestazioni energetiche di patrimoni immobiliari.

D’altronde, la diffusione degli Outcome-Based Contract indica, anche in questo caso, una tendenza evolutiva: si pensi ai Social Impact Bond.

Ciò che si può, dunque, immaginare per l’Offerta sono modelli organizzativi in cui alcuni soggetti dell’Offerta siano in grado di configurare e di coordinare interi ecosistemi digitali senza assumere un ruolo di governo rigido, dislocando progettazione e realizzazione (eventualmente anche manutenzione e gestione) in maniera agile, ma esercitando un controllo grazie all’ambiente di condivisione, facilitando una forma di aggregazione morbida.

Naturalmente, i prodotti da offrire al mercato dell’ambiente costruito, sia alla Domanda Pubblica sia a quella Privata, dovrebbero essere frutto di vasti programmi di investimento e agire a una scala urbana di sviluppo: in termini di rigenerazione, laddove, a meno che non si tratti di demolizione e di ricostruzione, l’Off Site appare più impegnativo.

La estensione territoriale, la dilatazione oggettuale, la dimensione organizzativa suggerirebbero che simili soggetti seguano logiche integrative, come detto anche implicite, significative.

Ovviamente, questa condizione dovrebbe avvicinare le logiche professionali e imprenditoriali tra loro, in quanto la centralità dell’utente richiede una maggiore responsabilizzazione degli attori nei confronti del ciclo di vita del manufatto.

Soprattutto, però, infatti, le nuove strutture ibride professionali e imprenditoriali dovrebbero focalizzarsi su prodotti immobiliari o infrastrutturali sempre più servitizzati, sempre maggiormente vertenti sugli occupanti, sui loro cicli delle vite.

È chiaro che questo nuovo mercato dell’ambiente costruito si fonda su una meta infrastruttura di natura geo-spaziale che, ad esempio, il governo britannico definisce National Digital Twin.

Essa consiste in una mappatura dinamica e multi-dimensionale dei territori e delle città (inclusive dei vissuto delle persone, dall’analisi dei flussi a quella dei consumi: dei vari stili di vita) che includa molteplici e collegabili fonti informative attraverso cui gli operatori possano sviluppare operazioni immobiliari e infrastrutturali di vasta portata e gestirle incentrandole, appunto, tramite co-simulazioni, sui servizi alle persone.

Tale metainfrastruttura rappresenta forse il luogo del continuum che permetterebbe di dare vita ai modelli organizzativi e alle strutture professionali e imprenditoriali di cui si è ragionato.

Se, infatti, la città, in particolare, toccando il tema dell’inclusione, è divenuta il luogo della discontinuità, o meglio di eterogeneità compresenti, la sua digitalizzazione geo-spaziale, al contrario, potrebbe consentirle di divenire la piattaforma per eccellenza, nel senso che si attribuisce a essa nella Platform Economy.

Come detto più volte, purtroppo, esattamente nella maniera rilevata dalla citata indagine condotta da Assolombarda intorno alla Rigenerazione Urbana, purtroppo, ciò che è definito come isolamento delle tipologie dei soggetti attiene a una esigenza di distinzione, tipica degli attori del settore della costruzione e dell’immobiliare, che collide colle logiche convergenti del mercato dell’ambiente costruito.

L’insistenza sulla dimensione esistenziale o esperienziale, che sta diventando sempre più cifra caratteristica dello sviluppo immobiliare nella rigenerazione urbana, nonostante non disponga ancora di metriche valutative, passa, in effetti, attraverso il concetto di comunità e quello di innovazione sociale, ma, ancora una volta, occorre che business model e value proposition siano accompagnate, per gli attori tradizionali del settore, da un salto di scala culturale che, tuttavia, incrementa la contendibilità del mercato a una varietà di altri soggetti, non tanto nell’appropriazione di ruoli specifici quanto nell’assunzione dei ruoli e dei criteri valoriali decisivi.

Il tema più rilevante, in proposito, consisterà nella velocità e nella modalità con cui suggestioni (come il «contratto esistenziale» in luogo di un contratto di compravendita immobiliare) e sperimentazioni possano tradursi in contesti operativi consolidati.

L’alternativa a questa ipotesi è che i diversi attori, Design Firm, General & Trade Contractor, RE Developer, Facility Management Provider, Public Multi Utility, Technology Company, agiscano sullo stesso ambito separatamente, in modo additivo, tutelando una visione separata del mercato, intersecandosi occasionalmente senza interagire realmente.

È una ipotesi probabile, anzi, da molto auspicabile, perché garantirebbe la sopravvivenza identitaria, ma sarebbe forse una occasione sprecata.

Alcune ipotesi innovative sui modelli organizzativi e sulle strutture degli operatori

Alla luce delle considerazioni precedenti, si potrebbe immaginare che l’operatore del settore dell’ambiente costruito del futuro sia un soggetto che, partendo da forti valori di carattere ambientale, circolare, climatico, energetico, sociale, riesca a costituire un ecosistema, digitalmente abilitato, che agisca, col supporto della gestione della conoscenza, a scala distrettuale, coordinando e ibridando saperi professionali e imprenditoriali, in vista di realizzare un contesto focalizzato sugli utenti.

Ciò dovrebbe avvenire all’interno di un paradigma collaborativo e partecipativo tipico dell’economia delle piattaforme in cui gli interventi sui sedimi liberi e sul patrimonio costruito, immobiliare e infrastrutturale (includenti le reti), tenda a inserire i cespiti tangibili, sensorizzati e interconnessi, all’interno di una offerta di servizi sartoriali e individualizzati alle persone che siano erogabili in un ambiente olistico, una sorta di continuum che, sostenuto da una intelligenza geo-spaziale in grado di gestire i contenuti esperienziali sulla base della mobilità esistenziale (geografica e anagrafica) delle persone, permetta una interazione tra i fruitori e i beni fisici.

Gli interventi sulle parti tangibili del costruito potrebbero avvalersi di un approccio modulare industrializzato scalabile secondo i vincoli specifici.

Le forme di detenzione o di locazione degli spazi residenziali e lavorativi, così come le occasioni di uso delle attività di mobilità, dovrebbero assumere un connotato, di carattere contrattuale, mirato all’esperienza (di lavoro, di viaggio, di vita).

Un tale soggetto dovrebbe forzatamente preservare caratteristiche partenariali che attenuino le distinzioni tra Domanda e Offerta, impostandosi sul ciclo delle vite degli utenti veicolato dal ciclo di vita dei cespiti.

In altre parole, questi player della Rigenerazione Urbana e dell’Investimento Infrastrutturale dovrebbero avere quale finalità ultima, diretta o indiretta, la Social Innovation.

Di fatto, temi come il cambiamento climatico e l’inclusione sociale, letti all’interno di contratti fortemente partenariali e prestazionali attinenti lo stato occupazionale dei cittadini e la loro assistenza nelle diverse fasi esistenziali, eseguiti entro ecosistemi digitali territoriali geo-spazialmente governati, nei quali possano coesistere anche la sicurezza attinente lo stato di riduzione della vulnerabilità sismica o naturalistica, oltreché di ammodernamento infrastrutturale ed edilizio, potrebbero costituire l’ossatura portante del settore dell’ambiente costruito.

La piattaformizzazione dell’ambiente costruito dovrebbe sfruttare le possibile diverse economie (di scala, di scopo, di conoscenza), assumendo dimensioni rilevanti secondo, tuttavia, approcci reticolari tipici di piattaforme digitali in grado di generare network effect e di presentare una elevata scalabilità, senza scadere nel capitalismo della sorveglianza e senza originare l’esito cosiddetto the winner takes all and most.