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«Milano e Dintorni»: un Laboratorio per il Nuovo Settore dell’Ambiente Costruito?

Una riflessione di Angelo Ciribini

Può divenire, dal punto di vista di chi si occupa di tematiche gestionali per il settore della costruzione e dell’immobiliare, Milano il «laboratorio» per la «costruzione», la configurazione, del nuovo settore dell’ambiente costruito, almeno nel Nostro Paese? O, comunque, può farlo in un ambito territoriale più vasto che giunga, ad esempio, a Brescia e a Torino?

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Il Settore delle Costruzioni tra Digital Transformation, Climate Change e Social Impact

Il settore della costruzione e dell’immobiliare è, attualmente, quanto meno nelle istanze, oggi sempre più permeato da narrazioni improntate alla gestione del cambiamento climatico, alla produzione circolare (non lineare), alla trasformazione digitale, ma, a dire il vero, tutto ciò nasconde l’insidia fondamentale di «essere parlati», vale a dire di generare una serie di effetti strutturali in maniera non del tutto consapevole.

Ciò vuol dire che l’adesione a obiettivi fattuali e incontestabili, almeno in apparenza, dato che essi non paiono essere stati, naturalmente, interiorizzati profondamente, comporta, dunque, che se ne accettino le conseguenze senza esprimere una intenzionalità esplicita che derivi da una precisa strategia identitaria del comparto.

Ora, è chiaro che al settore, al contrario, necessiterebbe invertire l’ordine dei fattori per modificare il «prodotto», nel senso di proporre un racconto autonomo per cui circolare, digitale, sostenibile, fungano da agenti abilitanti uno sforzo, lo si ripete, autonomo, anziché da elementi causali.

A ben vedere, l’elemento caratterizzante di questa ipotesi è il «ciclo delle vite» dei cespiti e, contemporaneamente, dei loro utenti.

È possibile, in definitiva, che gli interventi relativi alla rigenerazione delle «periferie» urbane, le operazioni di sviluppo dei distretti della residenza, della cura e del lavoro più avanzati, l’infrastrutturazione dei territori circostanti, gli investimenti per i grandi eventi sportivi, possano avere un comune denominatore che investa un «progetto industriale» che si faccia anche «sociale»: inerente, appunto, alle dinamiche evolutive dei singoli individui o delle corrispondenti comunità, di cui forse parlano, ad esempio, alcune soluzioni per l’assistenza, la mobilità, il lavoro, e così via.

La tematica della interconnessione (tra entità eterogenee), così come quella relativa alla flessibilità (il lascito negli eventi), rimandano, del resto, a un quadro per cui si delinino operatori ibridi destinati ad accompagnare il fruitore nel tempo.

Per questa ragione, questo soggetto che potrebbe racchiudere gli attori tradizionali del settore, Multi Utility, Social Enterprise, Technology Company (operatori potenzialmente dagli interessi configgenti), potrebbe rivelarsi immaginifico o, perlomeno, tutto da inventare, ma è chiaro che, se così non fosse, porre al centro del business la relazione e l’esperienza implicherebbe riconoscere che il nuovo settore dell’ambiente costruito intraveda nella concretezza, nella matericità dei propri prodotti immobiliari e infrastrutturali, dei cespiti dalla natura tangibile, una essenza strumentale, veicolare, a un obiettivo sovraordinato, maggiormente immateriale.

I dispositivi che presidierebbero tale scenario atterrebbero alla dimensione geo-spaziale entro la quale disporre di data lake, di data warehouse e quant’altro, che, nell’ottica democratica della Sharing Economy, e non del Surveillance Capitalism, si mostrerebbe completamente servitizzata.

È questa una eventualità praticabile? Come interagirebbe con le istituzioni pubbliche e con gli attori finanziari?