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Edilizia scolastica al tempo del Covid: aule più grandi o spazi più intelligenti?

Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, fa il punto sullo stato degli edifici scolastici del Paese ipotizzando le modalità per un rientro sicuro in classe a settembre.

L’emergenza coronavirus ha comportato la chiusura delle scuole con oltre 8 milioni di studenti che hanno dovuto fare i conti con la didattica a distanza. 

Da settimane è al lavoro una task force che, attraverso tavoli di confronto, sta mettendo a punto il piano per un rientro sicuro degli studenti. I tempi sono stretti perché la volontà del Governo è quella di riaprire a settembre e l’inesorabile conto alla rovescia è iniziato. 

Distanziamenti fra i banchi, numero massimo di alunni in classe, didattica a distanza sono alcune delle soluzioni individuate da esperti e ministeri. 

Sullo sfondo c’è il tema delle infrastrutture scolastiche del nostro Paese. Ne parliamo con Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli che fotografa annualmente lo stato del sistema educativo italiano, con Rapporti come quello sull’edilizia scolastica, pubblicato a fine del 2019.

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Le scuole italiane: la fotografia del rapporto della Fondazione Agnelli

Dottor Gavosto, ogni anno si sente parlare di «classi pollaio» ma è davvero un problema reale?

«Prima del coronavirus, pur se sbandierato da alcune forze politiche, non lo è mai stato perché il numero medio di allievi per classe è di 19 alle elementari, 21 alle medie e 22 alle superiori. Tecnicamente si definisce classe pollaio quella che supera i 30 studenti e da noi sono solo lo 0,5 per cento delle 330mila classi. Questa percentuale di solito si riscontra principalmente nei primi due anni delle Superiori».

Diventa un tema allora con l’emergenza Covid-19?

«Oggi si presenta perché sono cambiate le condizioni. Come Fondazione riteniamo che le aule italiane abbiano una dimensione media di circa 45 metri quadri, con pochissime che superano i 60 metri quadri. In queste condizioni, se a settembre saranno richieste misure di distanziamento fra uno e due metri tra gli alunni, sarà quasi inevitabile la scelta di separare le classi in due gruppi o anche più».

Il Governo ha stanziato più di un miliardo di euro per consentire un «rientro» sicuro nelle oltre 39mila scuole italiane. Il tempo però è poco, c’è il rischio che non vengano spesi al meglio? 

«Il rischio è che si tirino fuori dai cassetti vecchi progetti che però fanno riferimento a una realtà che è drammaticamente cambiata. In tre mesi onestamente non si può ripensare un edificio scolastico. Il vero rischio è che in questo momento difronte al finanziamento si recuperino progetti che non hanno nulla a che fare con i problemi dell’emergenza e che nemmeno guardino a un rinnovamento degli spazi di apprendimento in futuro».

A scuola dopo l'emergenza: dove e come intervenire

Secondo lei cosa si può fare da qui a settembre?

«Come Fondazione abbiamo spesso invocato un ripensamento del modello pedagogico dei nostri edifici scolastici ma ora realisticamente sarebbe importante che ciascun dirigente scolastico con l’aiuto dei professionisti, individuasse delle soluzioni per il proprio istituto. Bisogna considerare che gli edifici sono in media vecchi: il 60,2 per cento risale a prima del 1976, in Liguria, addirittura, la media è di 75 anni, in Piemonte 64 e in Toscana 56. Però, per esempio, le scuole costruite dopo il 1975 hanno circa due terzi dell’impronta a terra che deve essere per legge destinata a spazi esterni, quindi giardini o cortili. Così, si potrebbe pensare di utilizzarli in maniera più intelligente perché, come ci dice Cittadinanzattiva, in molti casi i cortili sono diventati parcheggi per le macchine. Ora si potrebbe intervenire per trasformarli in aree da sfruttare dal punto di vista didattico. Si sta facendo così in Danimarca nelle scuole dell’infanzia e primarie. Sono già ripartite utilizzando tensostrutture in modo da tenere non più di 15 allievi in aula. Si potrebbe anche pensare di utilizzare i parchi urbani con quella finalità oppure alcuni edifici dismessi o caserme trasformate. Bisogna essere molto concreti, dobbiamo arrivare al primo settembre con interventi concepibili in tre mesi e neanche troppo dispendiosi per permettere alle scuole di funzionare».

E all’interno degli edifici?

«Si può lavorare sugli spazi di distribuzione: dai corridoi si può recuperare spazio didattico come accade nelle scuole del Nord Europa che li usano come ambienti di apprendimento con panche, puff, lavagne o aree per lo studio individuale. Si può anche mettere mano a grandi spazi come le aule magne, le palestre oppure pensiamo alle mense: spazi ampi e non utilizzati ai fini scolastici, che dopo i pasti vengono chiuse e igienizzate. Ma in un momento come questo sarebbe utile averle a disposizione per farci lezione. Bisogna creare più spazi versatili che si adattino alle esigenze della didattica e anche gli arredi devono essere polifunzionali. In generale, la scuola deve essere più flessibile di oggi. Non credo che la disponibilità di tanto spazio di per sé sia sufficiente, lo spazio intelligente e versatile è più importante. Tutto questo ha un senso solo se gli interventi saranno pensati per risolvere con urgenza le necessità».

L'edilizia scolastica italiana, tra problemi strutturali, barriere architettoniche e poca sostenibilità

Anni di disinteresse verso l’edilizia scolastica ci hanno portato a un quadro complicato da gestire oggi in piena emergenza?

«Con il progetto “Torino fa Scuola” volevamo già dare un segnale che il nostro patrimonio edilizio scolastico ha vari problemi ambientali di sicurezza e va ripensato su un arco di tempo lungo. Secondo le segnalazioni dei tecnici degli enti proprietari (Comuni per scuole primarie e medie / Città metropolitane o province per le superiori) almeno l’8,6 per cento dei 36mila edifici censiti nel 2016, presentava uno o più problemi strutturali seri e cioè una qualche compromissione delle strutture portanti verticali o dei solai o delle coperture, a esempio, sono 1.794 le scuole con tetti non adeguati. Ci sono da considerare anche differenze territoriali. A parità di altre condizioni, gli edifici del Nord-Ovest sono generalmente associati a migliori giudizi sullo stato di conservazione. C’è pure un problema legato all’abbattimento delle barriere architettoniche: il 61% degli edifici ha rampe di accesso esterno della giusta pendenza, il 54% ha servizi igienici specifici per disabili, ma solo il 26% possiede un ascensore per il loro trasporto. Infine, sul versante della sostenibilità, il 41% degli edifici non hanno adottato uno o più accorgimenti per il contenimento dei consumi energetici, per cui sono ancora tanti quelli poco efficienti che fanno lievitare i costi per la climatizzazione».

Mentre la parte restante che provvedimenti ha adottato sul fronte dell'efficienza energetica?

«Secondo i dati dell’Anagrafe dell’Edilizia Scolastica (AES) del Ministero dell’Istruzione su cui si basa il Rapporto, nel 38,2% degli edifici sono presenti doppi vetri e doppi serramenti, il 35,6% presenta la zonizzazione dell’impianto termico, il 26,3 per cento delle scuole ha installato i pannelli fotovoltaici sul tetto, mentre il 22,5% ha scelto di isolare la copertura e l’11,9% le pareti esterne, una piccola percentuale, il 5%, è intervenuta su altro».

Rinnovare le scuole partendo dal progetto didattico

Secondo lei, non si potrebbe approfittare di questo momento per pensare anche a un modo nuovo di concepire le infrastrutture per la didattica e la relazione educativa?

«Sicuramente oggi un progetto di ristrutturazione delle scuole deve tenere presente che, a differenza del passato, non si fa più lezione in una sola modalità, quella classica frontale, ma ci sono momenti di lavoro comune, momenti di studio individuale oppure plenari. È chiaro che gli edifici scolastici devono nascere o rinnovarsi avendo in mente il progetto didattico. Oggi sappiamo una cosa in più rispetto a qualche mese fa: la didattica digitale deve entrare necessariamente nel bagaglio di competenze di un docente, perché continueremo a usarla e dovrà integrarsi con intelligenza alla didattica in presenza. Per questo devono essere anche pensate le connessioni e la possibilità di offrire collegamenti a distanza».

Le sfide per una didattica online

Ma le nostre scuole saranno pronte per offrire una performante didattica online?

«Non si sa ancora esattamente come sarà la didattica a settembre, ci sono due o tre ipotesi su cui si sta lavorando, il vincolo è dato dalla necessità che le classi andranno dimezzate, da venti si dovrà passare a dieci dodici allievi. Una possibilità è alternare le lezioni a casa e quelle in aula. Negli ultimi anni le scuole italiane sono migliorate dal punto di vista delle dotazioni informatiche ma non siamo ancora ai livelli europei. Un conto è dire che abbiamo molte lavagne interattive con un collegamento all’esterno, un altro è sostenere che in tutte le aule ci si possa collegare a internet. Per esempio ci sono problemi tecnici a vari livelli: ancora tante scuole non sono connesse; altre, pur essendolo, hanno criticità: ad esempio, lo spessore dei muri - pensiamo alle scuole umbertine - può disturbare la qualità del collegamento in rete. Un altro problema è che fare contemporaneamente lezione a studenti in classe e a casa induca ad adottare la soluzione più facile, ma non più efficace: la vecchia lezione trasmissiva che in fondo funziona anche come videoconferenza. Infine, l’efficacia della didattica a distanza varia con l’età e il profilo degli alunni. Per i più piccoli (infanzia e primaria) e per i più fragili (studenti con disabilità) funziona meno bene, perché viene in parte a mancare l’elemento della relazione, del contatto».