Materiali e Tecniche Costruttive | Costruzioni
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Geopolimeri a media ed alta resistenza: il futuro sicuro e durevole delle costruzioni

Grazie alle prestazioni eccezionali, unite alla grande variabilità e “naturalità”, i geopolimeri rappresentano materiali da costruzione del futuro in grado di coniugare la massima sicurezza ambientale con quella strutturale.

I geopolimeri, simulatori della chimica delle rocce naturali, pur essendo noti da molti anni, stanno solo ora per essere inseriti sul mercato.
Si presenta l’individuazione di uno specifico geopolimero ad altissima resistenza da utilizzarsi in strutture precompresse prefabbricate che potranno veder diminuito il proprio peso, assumere un’elevata snellezza e non essere più soggette a corrosione.

Cosa sono i geopolimeri

Con il termine “geopolimeri” si indicano dei prodotti “naturali” o “artificiali” (a seconda del tipo di precursore in polvere utilizzato) a base di alluminosilicati che hanno una potenzialità d’utilizzo davvero vasta. Sono costituiti da catene o reti di molecole minerali legati con legami covalenti che, in pratica, vanno a simulare la chimica delle rocce naturali.

Pillole di storia

I geopolimeri, in effetti, non sono materiali “nuovi”, essendo noti da molto tempo. 
Anzi, è grazie alla natura stessa che è stato possibile realizzarli da tempi immemorabili. 
Il nome “geopolimero” fu introdotto negli anni 1970 da parte del chimico francese Joseph Davidovits, che viene considerato l’inventore di un nuovo ramo della chimica dei minerali noto appunto, come “geopolimeri”. 

Davidovits nel 1979, durante un congresso di egittologia, ha presentato per la prima volta una sua teoria secondo cui gli antichi egizi erano in grado di creare artificialmente alcuni tipi di pietra. Egli sostenne che le piramidi d'Egitto sono state ottenute tramite pietra riagglomerata anziché pietra tagliata e che alcuni dei vasi rinvenuti sono stati realizzati in pietra artificiale e non scavati in pietra naturale. Davidovits ritenne che nella “Stele della Carestia” sarebbe rappresentata la formula chimica usata per la sintesi della pietra usata nella costruzione delle piramidi [5]. Per la sua “bizzarra” teoria venne preso in giro da molti ma qualcuno gli ha creduto e ha dimostrato come si possa, dal lontano passato, far nascere qualcosa di prezioso ed estremamente innovativo.  

… una conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, che il futuro si lega sempre al passato! 

E allora, grazie all’appassionato e competente lavoro condotto da Alex Reggiani, geologo italiano e “discepolo” di Davidovits, i geopolimeri hanno potuto essere sviluppati a livello industriale, divenendo ora pronti per innovative ed estremamente variabili applicazioni tecnologiche e costruttive.  

Geopolimero: come si ottiene il materiale 

Il materiale geopolimerico si realizza tramite una reazione chimica a temperatura ambiente tra una polvere reattiva amorfa ed un liquido salino. Il liquido di miscelazione, detto indurente o reagente, è a base di silicati con un rapporto molare ben preciso tra Si e M+, il generico metallo impiegato. Quando il materiale complessivo si indurisce, lo stato condensato presenta una diffrattometria X cristallina [6]. Il materiale risultante è completamente inorganico: questi aspetti di completa inorganicità e di organizzazione tridimensionale “cristallina” legata, sono le principali e distinguenti caratteristiche di un geopolimero. E sono proprio queste caratteristiche a distinguere un “vero geopolimero” da tutti i “fake geopolymers” presenti in Internet [2].  

Il liquido reagente, può avere pH alcalino oppure acido. Si utilizzano silicati alcalini (Na, K, ecc.) con un rapporto molare “environment friendly” [3] tipico in funzione del metallo M+ utilizzato. Le polveri reattive sono in generale silico-alluminose calcinate ad una precisa temperatura (circa 750°C), come ad esempio per il metacaolino (Al2O3·2SiO2), ottenuto con l'attivazione termica di argilla caolinite. Tali polveri vengono legate tramite una soluzione silicatica alcalina in condizioni vicine a quelle ambientali (in questo caso il pH del geopolimero fresco è pari a circa 12,5-13). Per quanto riguarda il liquido a pH acido si può utilizzare, ad esempio, acido fosforico ad una precisa concentrazione, anche se di solito non è conveniente per motivi legati al suo costo. I geopolimeri ottenuti in un pH acido trovano un campo ideale di applicazione nella realizzazione di protesi dentarie o nelle ricostruzioni ossee, perché uno dei minerali principali di ricondensazione è l’idrossiapatite, che è il minerale costituente delle ossa umane. 

Da un punto di vista teorico-pratico, per originare i geopolimeri si segue un processo che dapprima presenta la dissoluzione degli atomi di Si e Al del materiale dovuta a ioni idrossido in soluzione. Poi si passa alla riorientazione degli ioni precursori in soluzione e infine si ha una riorganizzazione in polimeri inorganici attraverso reazioni di policondensazione.

La rete del polimero inorganico è in generale un gel alluminosilicato tridimensionale altamente coordinato, con le cariche negative sui siti tetraedrici Al(III) bilanciate dai cationi del metallo alcalino. 

Le fonti di allumino-silicati

Nel 1978 Davidovits immaginò di poter far reagire un composto contenente sia alluminio sia silicio, i più diffusi componenti della crosta terrestre, in un processo di polimerizzazione in soluzione alcalina, andando a realizzare, appunto, i geopolimeri. Inizialmente si pensò di utilizzare la materia base, il silicio e l’alluminio, ricavandolo dal sottosuolo, da un’origine geologica come, ad esempio, i materiali pozzolanici presenti nella lava. Ma poi ci si accorse che ci sono un sacco di alluminosilicati amorfi tra i sottoprodotti della combustione organica, come le ceneri volanti di carbone, ad esempio. O in polveri derivanti dal processo di fusione dei metalli (loppe d’altoforno) o in “nanopolveri” (micro e nano silici amorfe) generate nelle centrali elettriche ad arco voltaico. Di fatto, nei geopolimeri, i “rifiuti”, intesi come scarti industriali o materie prime seconde, diventano la base dei nuovi e altamente performanti materiali strutturali! 

Alcuni geopolimeri, tanto per dare un’idea, contengono fino al 94% di “rifiuti” tra parte reattiva ed aggregato. Quella dei geopolimeri è forse la più grandiosa possibilità di riciclo dei “rifiuti” che abbiamo, e permette anche di evitare di continuare a scavare “mezzo mondo” per l’estrazione degli inerti per la produzione dei calcestruzzi.

Le principali caratteristiche dei geopolimeri

Analizzando le principali caratteristiche dei geopolimeri ci si rende conto di una loro grande versatilità e di alcune prestazioni davvero eccezionali. Nel campo della resistenza meccanica si possono ottenere, ad esempio, dei valori superiori a quelli di ottimi calcestruzzi e talvolta resistenza a trazione significativamente superiori a questi ultimi. Hanno poi un’elevata resistenza alle aggressioni chimiche, ben sopportando attacchi acidi e il contatto con soluzioni solfatiche (figura 1). 

Hanno un elevata resistenza al calore, potendo resistere senza alterazioni della struttura fino a temperature di 1300°C - 1700°C, senza produzione di fiamma o subire “spallazione”. Rispetto ai calcestruzzi, hanno un ritiro igrometrico praticamente nullo già a temperatura ambiente, o comunque molto ridotto non entrando l’acqua nei processi di condensazione. Possono avere dei valori di induttanza termica molto bassi, con λ molto basse ma variabili a seconda del legante geopolimerico utilizzato e dalla densità del tipo di aggregati coinvolti. Non sono soggetti ad imbibimento d’acqua e dunque si possono realizzare dei materiali del tutto impermeabili, senza peraltro impedire la realizzazione di materiali filtranti, a porosità interconnessa. Su questo aspetto va evidenziato che la matrice geopolimerica è dotata di una mesoporosità (tanti pori, ma molto piccoli) “aperta all’aria”, mentre risulta impermeabile al passaggio dell’acqua o di altre grosse molecole.

Resistenza all'acido solforico dei geopolimeri

Figura 1 - resistenza all’acido solforico: geopolimero (nero) vs cementi OPC+CAC (Ordinary Portland Cement + Calcium Aluminate Cement).

Ciò apre la via alla “traspirabilità”, e dunque all’utilizzo delle malte geopolimeriche nell’ambito del restauro storico, non soffocando i muri, ma comportandosi come un rivestimento “minerale-roccioso”, chimicamente interconnesso. Queste malte presentano un’altissima adesione anche su supporti lisci “difficili” come vetro e metallo: non c’è più bisogno di primers di aggrappo.

In generale i geopolimeri, poi, presentano un’elevatissima resistenza agli shock termici (gelo/disgelo – vedi figura 2, cicli temporaleschi), rendendo il materiale ideale per la produzione di tegole [1]. 

tegola in geopolimero dopo 150 cicli di gelo/disgelo

Figura 2 - tegola in geopolimero dopo 150 cicli di gelo/disgelo.

Presentano una durabilità ineguagliabile e, potendo sfruttare le materie prime locali (polveri ed aggregati), sono una tecnologia a “km 0”. Presentando inoltre una produzione con quantità ridottissime di anidride carbonica (gli scarti industriali hanno già subito un processo termico e non ne necessitano altri, mentre i caolini metacaolinizzano a bassa temperatura -750°C- e non contengono carbonati che sono i responsabili della produzione di CO2 nelle combustioni) possono a ragione essere inseriti tra gli strumenti base per il tanto ricercato “100% Green Building”.

Insomma … prestazioni eccezionali che, unite alla grande variabilità e “naturalità”, ci permettono di ipotizzare che ci troviamo di fronte ai materiali da costruzione del futuro in grado di coniugare la massima sicurezza ambientale con quella strutturale. 

E senza dimenticare anche l’aspetto economico: per quantità “significative” il costo del prodotto è inferiore a quello di un calcestruzzo ad elevate prestazioni. Nel costo va tenuto ben in evidenza che non vengono utilizzati additivi: nei geopolimeri infatti non servono ed oltretutto non funzionano i ritentori come le cellulose, gli additivi superfluidificanti, gli antisedimentanti, i ritardanti, gli acceleranti, le resine polimeriche, gli agenti espansivi, ecc.. 

L’industrializzazione del prodotto

Il processo di produzione dei geopolimeri dipende fortemente dai materiali utilizzati e richiede uno studio specifico dei materiali a disposizione. Per cercare di limitare questa vasta casistica, che è in fin dei conti la variabilità offerta dalla natura, Alex Reggiani ha limitato l’indagine a 5 tipi di leganti base geopolimerici, da utilizzare per ottenere diversi tipi di materiali anche in funzione delle polveri allumo-silicatiche di base disponibili e delle reazioni chimiche che vengono generate. I cinque leganti li ha suddivisi in base al colore: il nero “assoluto”, dal rosso mattone al grigio, il rosa, il crema-beige, il bianco (ed eventualmente il “superbianco”).

Con i leganti di cui sopra, applicati a varie composizioni di polveri e con l’aggiunta di eventuali additivi (spesso altri minerali funzionali alle proprietà richieste) si possono realizzare una moltitudine di applicazioni diverse, quali malte, calcestruzzi, blocchi, mattoni, tegole, pannelli e qualsivoglia tipo di intonaco anche spray, adesivo, finitura o schiume termoisolanti.

Accanto alle applicazioni tradizionali, i geopolimeri, grazie al fatto di poter governare la viscosità iniziale e i tempi di condensazione, si presentano come i materiali più idonei per l’emergente tecnologia della realizzazione degli edifici con la stampa 3D [7].

Il nostro obbiettivo immediato

Di fronte a tante possibilità ci siamo concentrati - vista l’attitudine a progettare e costruire “strutture” talvolta un po’ ardite di Alpe Progetti, I.Co.P. e SIGMAc - su alcuni materiali specifici simili o superiori ai calcestruzzi altamente performanti con, in più rispetto a questi ultimi, una significativamente maggiore resistenza a trazione.

L’applicazione a strutture precompresse leggere, snelle e altamente resistenti alla corrosione, hanno richiesto l’individuazione di un materiale molto performante: l’obbiettivo era quello di avere una resistenza a compressione equivalente a quella di un calcestruzzo ad alta resistenza C90/105 ma con una resistenza a trazione per flessione pari a circa il 10% di quella a compressione su provini cubici, e dunque oltre 10,5 MPa.  Oltre alle resistenze statiche è stata richiesta un’elevata resistenza al fuoco… una caratteristica “di default” di questo materiale. La durabilità verrebbe poi semplicemente ottenuta anche mediante l’utilizzo di armature di precompressione in fibre composite, per superare i concetti di «copriferro» e «protezione degli acciai». Difficile… ma non impossibile.

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