Edilizia
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La verifica della legittimazione degli immobili nel decreto-legge Semplificazioni

Disamina del decreto-legge n. 76/2020 per meglio conoscerne i contenuti specifici, preparandosi alla sua applicazione (al momento transitoria ma comunque possibile) in attesa della sua conversione

Con questo articolo affrontiamo la disamina – a piccoli passi – del decreto-legge n. 76/2020 per meglio conoscerne i contenuti specifici e ci prepariamo alla sua applicazione (al momento transitoria ma comunque possibile) in attesa della sua conversione e, perché no?, vedendo se possano essere apportate “modifiche migliorative”. La verifica della “legittimazione” dell’esistente non è elemento secondario nella “certezza del diritto” in edilizia.

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Cominciamo ad esaminare il DL n.76/2020 da un aspetto poco commentato ma che riteniamo utile e innovativo (così ne diamo subito un’immagine positiva): quello delle modalità di accertamento della legittimità degli immobili

Si tratta dell’articolo 9-bis del DPR 380/01 che cambia titolo, da “Documentazione amministrativa” a “Documentazione amministrativa e stato legittimo degli immobili” e cui viene aggiunto il comma 1-bis.

La parte aggiunta è l’innovazione di cui parleremo.

La precisazione della Legge “Sblocca Cantieri”

Quando la legge Sblocca Cantieri nel 2019 ha aggiunto il comma 1-ter all’articolo 2-bis del Testo Unico dell’Edilizia (di cui diremo più avanti) per consentire il mantenimento delle distanze preesistenti nelle demolizioni e ricostruzioni ha precisato che queste ultime dovevano essere “legittimamente preesistenti”.

La puntualizzazione era forse superflua, ma il fatto che il Legislatore avesse voluto insistere sulla verifica della “legittimità” ci aveva fatto sorgere un dubbio (si veda articolo “Distanze degli edifici e dintorni nella legge sblocca-cantieri”) in quanto pareva pretendere non solo l’esistenza di un titolo abilitativo (vigente) ma uno specifico accertamento della legittimità dello stesso.

Infatti un atto rilasciato comporta sì una “presunzione di legittimità”, ma non l’assoluta certezza che, infatti, può essere smentita da un successivo annullamento.

Annullamento non più possibile in autotutela da parte della stessa pubblica amministrazione rilasciante decorsi 18 mesi (come recita l’articolo 21-nonies della legge 241/90), ma non certo inibito al Giudice o alla Regione. E, dunque, sempre incombente, visto che la violazione delle norme urbanistiche non gode di prescrizione.

In tema di distanze (e, in particolare, di quelle dell’articolo 9 del d.m. 1444/68 delle pareti tra edifici frontistanti) sappiamo bene come la norma sia stata lungamente disattesa proprio anche dalle pubbliche amministrazioni e l’Italia sia piena di atti abilitativi (licenze, concessioni ed anche permessi) rilasciati in violazione dello stesso per cui si hanno edifici non abusivi (se non ancora annullati) ma le cui distanze non sono certamente legittime. E la giurisprudenza ce ne ha dato ripetute conferme.

Dunque il fatto che un edificio sia stato realizzato in base ad un atto abilitativo (anche formale: licenza, concessione, permesso) significa che non è abusivo, ma non garantisce della sua legittimità ovvero della completa conformità alle norme vigenti all’epoca del rilascio (si veda articolo “Abusivo, illegittimo, conforme, sanabile:….. parte prima”).

Soprattutto non lo garantisce oggi (possiamo ben dirlo) dopo gli stravolgimenti (anche gravemente contradittori) succedutisi nel tempo e conseguenti agli orientamenti giurisprudenziali e alle “interpretazioni autentiche” della Legge “Sblocca Cantieri” che si sono smentiti a vicenda (si veda articoli “Le distanze dell’articolo 9 del DM 1444/68: la metamorfosi di una norma”, “Distanze degli edifici e dintorni nella legge sblocca-cantieri” e, soprattutto, “Distanze tra costruzioni ex articolo 9 DM 1444/68 e articolo 5 dello Sblocca Cantieri: effetti collaterali”.

La certezza attuale della legittimità delle distanze preesistenti

Il che rimanda il problema a che cosa significhi la specifica (e non usuale) puntualizzazione che le distanze devono essere “legittimamente preesistenti”: un nuovo (imbarazzante) accertamento attuale o il mero riferimento alla presunzione degli atti esistenti?

E’ abbastanza presumibile che, a fronte della verifica della legittimità dell’esistente, la proprietà porti a dimostrazione il rilascio dell’atto abilitativo, ma anche ipotizzando che la pubblica amministrazione che quell’atto ha rilasciato in passato si possa atteggiare a difesa e conferma del suo operato senza rifare un’attuale istruttoria e verifica non è per nulla scontato che non possa essere poi attivata un’azione di tutela da parte del terzo confinante tramite il ricorso al Giudice (civile o amministrativo) chiedendo di intervenire ad annullare o disapplicare l’atto amministrativo dichiarando l’illegittimità delle distanze esistenti.

La recente storia della giurisprudenza dimostra che il richiamo alla legittimità delle distanze ex articolo 9 del d.m.1444/68 non è avvenuta quasi mai per iniziativa della pubblica amministrazione, ma sempre per ricorso del privato leso. Il quale a volte ha anche utilizzato la Giustizia per conseguire vantaggi patrimoniali personali e non solo il mero rispetto della legalità violata.

Che il Legislatore abbia letto i nostri articoli (se così fosse saremmo compiaciuti di essere stati utili) o si sia reso conto autonomamente del rischio applicativo, sta di fatto che nel d.l. 76/2020 è intervenuto per legge a definire cosa intenda Lui quando richiama il requisito della “legittimazione”.

E ciò a maggior ragione pare opportuno perché la definizione ha portata generale tanto più che il legislatore estende ora la verifica del requisito espresso della legittimità anche all’articolo 24 quando inserisce la possibilità di conseguire anche ex-post l’agibilità degli immobili purché – ovviamente - “legittimamente realizzati”. E così anche all’articolo 23 l’accertamento della destinazione d’uso (potremmo dire) “legittimata” sarà da verificarsi con le modalità dell’articolo 9-bis, comma 1-bis.

L’articolo 9-bis oggi integrato nel d.l. 76/2020 diventa così un cardine di riferimento di legge.

Di cui vediamo allora in dettaglio il comma 1-bis. Il quale ipotizza due casi.

Prima ipotesi: al momento della realizzazione era necessario un atto abilitativo, l’atto abilitativo esiste, è reperibile e verificabile.

Dichiara in tal caso il comma 1-bis che lo stato legittimo...“ di un immobile o anche di una singola unità immobiliare è quello “…stabilito dal titolo abilitativo (naturalmente l’ultimo rilasciato e non annullato). E lì fermiamo l’accertamento.

Utile precisazione poi è che la legittimazione potrà essere anche (per così dire) frazionata per ogni singola unità immobiliare (eredità, questa, che ci portiamo dietro dalla legge del condono).

Seconda ipotesi: al momento della realizzazione non era dovuto alcun atto abilitativo che, quindi, non esiste perché non deve e non può esistere.

Tema noto e ricorrente per i vecchi edifici di cui ci siamo già dovuti occupare in occasione dei condoni.

Il comma 1-bis statuisce allora ciò che fin qui è stato affidato alla prassi e al buon senso elencando gli atti e i documenti che possono surrogare l’eventuale mancanza di titolo originario. Il problema si sposta però a stabilire se effettivamente l’atto originario fosse o no dovuto.

Se al momento della realizzazione ci fosse un obbligo di legge è abbastanza facile accertarlo perché delle leggi abbiamo cognizione ufficiale.

Più arduo è accertare se il titolo fosse eventualmente dovuto in base ad una norma urbanistico-edilizia locale.

Infatti, quand’anche la legge non lo imponesse (sia ante che post legge urbanistica fondamentale) non è mai stato escluso che norme locali richiedessero comunque un atto autorizzativo (e di certo  dal 1942 fino all’avvento della legge “ponte” nel 1967 occorreva rifarsi alla perimetrazione del “centro abitato” per sapere se l’immobile vi era ricompreso oppure no e, in conseguenza, obbligato o escluso dall’onere della licenza).

Qui entriamo in una zona d’ombra visto che (spesso, molto spesso) non si può certo dire che gli archivi comunali siano stati diligenti nella conservazione degli atti di cui a stento si trovano copie (anzi foto-copie non autenticate) dei disposti normativi, e con ancora minore frequenza, di quelli grafici (le tavole di piano) che individuano le varie zone del territorio.

Qui il Legislatore può farci poco. E le diversificazioni territoriali locali restano.

Supponiamo però (con logica e buon senso o per mancanza di prova contraria certa) di aver appurato che l’atto abilitativo all’epoca per quell’immobile non era richiesto.

La norma del d.l. dispone oggi che la legittimazione possa essere desunta in modo indiretto da altre documentazioni probanti (purché databili con buona approssimazione) e ne dà anche una sorta di graduatoria di attendibilità: prima fra tutte la documentazione catastale (che pure non è probante della proprietà). E’ noto che non tutti gli edifici esistenti sono stati accatastati, ma è logico ritenere che se sono stati accatastati fossero esistenti; non foss’altro perché poi oggetto di imposizione fiscale.

Il riferimento al Catasto, ma non solo…

Ma non solo e non in via esclusiva gli atti catastali, perché la congiunzione “ovvero” usata dal Legislatore ammette anche in via alternativa (ove non confliggente) anche prove fotografiche o con documentazione pubblica (ma anche privata) sufficientemente attendibile.

Qui l’onere della prova positiva spetta al privato e l’onere della prova contraria è in capo all’ente pubblico al quale già grava l’onere (fissato dal primo comma dell’articolo 9 bis introdotto nel 2012  dal d.l. n. 83) di acquisire “d’ufficio” la documentazione in proprio possesso o in possesso di altre pubbliche amministrazioni che non è più possibile pretendere dal privato richiedente.

Le affermazioni del privato vanno evidentemente soggette ad istruttoria di veridicità (o, per dir meglio, di non falsità), ma in assenza di elementi che le smentiscano (per esempio foto aeree di data certa), occorrerà però ammettere la legittimazione “per mancanza di prove (contrarie)”.

E qui avremmo già detto tutto nell’ipotesi in cui si sia accertato che il titolo originario non era dovuto.

Qualche perplessità suscita allora l’ultimo periodo del comma 1-bis quando ipotizza che “possa sussistere un principio di prova del titolo abilitativo” anche nel caso descritto nel secondo periodo del comma 1-bis, che è appunto quello che contempla la realizzazione dell’edificio quando non serviva atto abilitativo! Anche in tale caso, afferma, si potrebbero applicare le prove indirette di cui abbiamo appena parlato.

Ma se il titolo abilitativo non ci voleva quale prova di titolo potrà mai esserci? E se c’è allora siamo in ipotesi che ci volesse.

Anche la relazione di accompagnamento al Senato non offre spunti interpretativi, limitandosi alla testuale riproposizione del testo del decreto-legge.

C’è una terza ipotesi non contemplata dal Legislatore

Parrebbe congruo se questa facoltà fosse riferita ad una ulteriore e diversa ipotesi - non contemplata dal Legislatore - ovvero al caso in cui all’epoca della realizzazione l’atto fosse richiesto, ma la proprietà e il comune non ne trovano più l’originale.

Caso questo più frequente di quanto non si creda: vuoi perché il proprietario attuale è un successore, o persona disattenta e disordinata … vuoi perché l’archivio comunale (diciamo così) è incompleto e (per i più svariati motivi di cui non andremo a recriminare) alcune pratiche si sono “perse”, ….

In tali casi potrebbe però esistere un qualche “principio di prova” di cui parla l’ultimo capoverso del comma 1-bis: per esempio la citazione dell’atto abilitativo in un atto notarile o in qualche altro documento di data certa che potrebbe far presumere (anche qui per mancanza di prova contraria) che il titolo c’era ma è andato perduto.

In casi del genere ammettere l’accertamento per prove indirette risolverebbe in modo definitivo problemi che, diversamente, continuerebbero a trascinarsi senza speranza di esito.

Questo forse voleva dire il Legislatore – e sarebbe una disposizione ragionevole – ma il testo letterale non recita così. Fa riferimento (anche se pare incongruo) solo al secondo periodo (ovvero al caso di non necessità del titolo).

Ma il testo del provvedimento non è ancora definitivo e si potrebbe chiarire nella conversione in Legge.

Avremmo così completato tutte le ipotesi possibili e cioè anche quando:

  • l’atto era dovuto, ma non è reperibile materialmente; esiste però “un principio di prova” del suo rilascio e allora si ricorre alla prova indiretta.

Oppure che:

  • l’atto era dovuto e non c’è: e allora l’immobile è abusivo (e le sue distanze illegittime).

Così in tutte le possibili situazioni reali avremmo risolto il dubbio sul significato che il Legislatore attribuisce alla “legittimità” della preesistenza, su cui fondare il nuovo atto abilitativo sì che richiedente e pubblica amministrazione siano tranquilli di operare anch’essi legittimamente.

Eventuali future vicende dell’atto pregresso non dovrebbero (il condizionale è d’obbligo) incidere sull’atto conseguente. 


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Ermete Dalprato

Professore a c. di “Laboratorio di Pianificazione territoriale e urbanistica” all’Università degli Studi della Repubblica di San Marino

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