L’attuale sistema sanzionatorio/repressivo si è dimostrato poco efficace e il tema della sanatoria (se non del condono vero e proprio) si ripropone periodicamente in forme parziali, magari solo regionali, con interventi sporadici che subito suscitano reazioni parziali, concitate e, a volte, preconcette; con conseguenti oscillazioni normative non certo utili in questo momento di crisi.
Non si possono fare serie proposte per il futuro senza un’analisi critica del passato di cui l’Autore esamina le ragioni del sostanziale fallimento che possono dare spunti e motivazione ad un nuovo organico quadro normativo, che non può che essere demandato al Nuovo Testo Unico dell’Edilizia, magari facendo sì che la sanabilità dell’abusivo diventi stimolo alla rigenerazione urbana anziché esserne ostacolo.
Era il 1985 quando il Legislatore mise mano al sistema dei controlli in edilizia risalente alla legge n. 765/67 (parzialmente integrato per le sanzioni penali dalla legge n. 10/77).
Si era appena attraversato il momento del miracolo economico che aveva prodotto una consistente espansione edilizia, spesso in difformità alle leggi (che pure esistevano) ma che erano mal applicate (o, addirittura disapplicate) anche dalle stesse pubbliche amministrazioni, sia in fase di redazione della strumentazione urbanistica che di controllo.
È qui che nasce la legge n. 47/85 che introduce innovazioni di maggior tutela del territorio attraverso un coerente e più efficace articolato di norme volte al controllo urbanistico
È in questo contesto di riordino che si pone infatti il problema degli immobili abusivi pregressi di cui, contestualmente, si dispone il divieto
Conseguentemente nasce l’esigenza di fare l’“ora zero” per passare ad una nuova era della pianificazione territoriale scevra da illegitimità.
Da qui le norme del “condono”.
Il che fa della legge n. 47/85 una norma a due facce:
Le norme di riforma del sistema repressivo - un po’ modificate e aggiornate (ma poi neanche tanto) - sono ancor oggi quelle che disciplinano la materia attraverso il DPR 380/01 che le ha recepite.
Le norme sul condono invece, pur provvisorie, hanno finito per marchiare la legge che oggi noi spesso citiamo come la “legge sul condono” anche se è indubbiamente sbagliato e limitativo ricordarla come tale: era una legge di riforma, di pari dignità concettuale della l. 1150/42, della l. 765/67, della l. 457/78, della l.10/77 (per citare solo quelle previgenti) e la sopravvivenza attuale delle sue norme fondanti nel Testo Unico dell’Edilizia lo conferma.
Chi esamina la legge dal punto di vista del diritto sostiene che contenga anche una innovativa e problematica contaminazione dell’ambito amministrativo con quello penale, visto che il rilascio di un atto amministrativo sanante comporta anche l’estinzione del reato, connessione sconosciuta al diritto precedente alla legge del “condono”.
Qui però ci occuperemo solo degli aspetti operativi, delle potenzialità e delle mancate occasioni. Perché di mancata occasione (se non di fallimento) si tratta e bisogna pur esaminarne le ragioni se se ne vogliono trarre insegnamenti per il futuro.
Anche nel pur limitato settore del condono la legge era stata lungimirante e non banale, funzionale e integrativa di una visione organica perché aveva accompagnato le norme di sanabilità diffusa (quella edificio per edificio) con la facoltà di operare un più coerente inquadramento urbanistico: una ricucitura urbanistica dei danni dell’abusivismo.
La legge n. 47/85 non si era preoccupata infatti di sanare il sanabile solo in sede edilizia (e cioè individualmente edificio per edificio), ma anche in sede urbanistica dando la possibilità alle amministrazioni comunali di redigere specifiche “varianti di recupero” cui dedicava l’intero Capo III, dettandone termini e indirizzi di redazione (per cui demandava alle regioni l’emanazione di leggi specifiche all’articolo 29) e fissando anche all’articolo 30 criteri attuativi innovativi (che oggi potremmo qualificare “compensativi” ante litteram).
In altri termini la legge n. 47/85 aveva correttamente inquadrato il tema del “condono” non come casualità regolarizzatrice del mercato immobiliare, ma come occasione di un riordino urbanistico delle “ingiurie” territoriali che l’abusivismo aveva provocato.
Questa opportunità non è stata colta e mai ne vedo dato riconoscimento neppure postumo.
Sarà perché delle norme del condono sono stati applicati (e spesso con fastidio e controvoglia, certamente non con efficienza) solo gli aspetti cogenti della legge, ma non quelli facoltativi e propositivi che, dal punto di vista concettuale, erano i prevalenti ed erano quelli che motivavano la finalità della legge.
Non era ancora “rigenerazione urbana”, era piuttosto “riparazione urbana”, ma certamente qualcosa di molto di più di un mero adempimento edilizio.
Ma la finalità di essere “pietra tombale” sul pregresso, fondata da un lato sulla recrudescenza della repressione e dall’altro sulla facoltà/opportunità di riportare a legittimità il non irrilevante patrimonio edilizio nato extra ordinem, è stata falsata da un’altra finalità, più cogente anche se sottesa: quella di fare cassa con le oblazioni destinate all’erario…. e dalla preoccupazione di non fermare il “mercato immobiliare”.
E allora si sono poste limitazioni non solo al periodo di sanabilità (che è sacrosanto), ma al termine di presentazione delle domande. In altri termini al termine di versamento dell’oblazione allo stato.
Fondato su di un errore di valutazione del contesto:
Per ovviare alle quali la legge, da un lato vincolava alla non commerciabilità gli immobili abusivi (per indurli alla richiesta di condono), ma dall’altro, la consentiva a fronte della sola presentazione dell’istanza.
Una via d’uscita che si è rivelata una via elusiva dell’obiettivo perché sgravava i comuni dalla pressione dell’istruttoria delle domande (che sarebbe divenuta insostenibile), ma nello stesso tempo metteva loro il cuore in pace in quanto l’eventuale mancata risposta non avrebbe ostacolato gli atti di trasferimento immobiliare.
Con alcuni devastanti effetti collaterali.
Col senno del poi forse sarebbe stato meglio se, anziché porsi come norma a termine la legge del condono avesse sì avviato il processo di regolarizzazione, ma (fermi restando le regole e i limiti temporali dell’ammissibilità) non avesse posto termine alla presentazione delle richieste in modo da diluire domande e istruttoria delle pubbliche amministrazioni in tempi ragionevoli e congrui; un po’ come è attualmente la sanatoria per doppia conformità dell’articolo 36 del Testo Unico dell’Edilizia.
Così la legge del condono non è stata vissuta dal “privato” (e tanto meno e ancor più gravemente dal “pubblico”) come l’occasione per fare davvero l’ora “zero” sul patrimonio edilizio esistente, bensì come un mero adempimento costrittivo al solo fine di poter garantire la commerciabilità nel “mercato immobiliare”.
E’ sfuggita la dimensione e la finalità urbanistica della legge, complici un’inadeguata comunicazione dei suoi fini (colta solo negli aspetti economici), l’impreparazione culturale degli operatori, la temporaneità della sua validità, l’affanno e l’impreparazione della sua gestione.
Che hanno prodotto domande frettolose e incomplete e (per contro) istruttorie parziali e frammentarie.
La previsione del silenzio assenso poi è stata un’ulteriore trappola perché era condizionata dalla sussistenza di requisiti non verificati dalla Pubblica Amministrazione e spesso inesistenti che ha indotto l’illusione di sanatorie ritenute tali, ma di fatto mai concretizzatesi.
Questa sottovalutazione del fenomeno ha reso la legge inadeguata alla “realtà del Paese”:
… il resto è noto.
La legge era buona nei fini, ma inadeguata nei termini operativi. Ed è stata malamente attuata.
Le successive leggi di condono altro non sono state che una sbiadita e inopportuna riproposizione di una minestra riscaldata e ne hanno inficiato l’obiettivo.
La funzione strutturale del Condono era legata alla sua irripetibilità; l’averlo riproposto ha indotto la convinzione che potesse essere un “metodo” periodico per cui tanto valeva aspettare il prossimo.
Così oggi siamo ancora qui a parlarne.
Per di più anche le norme repressive (quelle a regime) non pare abbiano dato l’esito atteso se è vero come è vero che il fenomeno dell’abusivismo pare non essere confinato solo ante legge n. 47/85.
Un’indagine di LegaAmbiente dello scorso anno rilevava l’inefficienza dell’attuale legislazione repressiva oltre ad una certa reticenza (disattenzione ?) degli stessi comuni a fornire i dati dell’inchiesta.
Occorre allora prendere atto che il fenomeno dell’abusivismo non è stato risolto, che l’ora “zero” della legittimazione edilizia è ben lungi dall’essere stata raggiunta, tanto che il problema periodicamente si ripresenta con maggiore o minore vivacità a seconda dei periodi.
D’altra parte l’esigenza (primaria) della legittimità degli immobili ripetutamente richiesta (a ragione) dal Legislatore anche al fine di per poter fruire delle “deroghe” o dei vari “bonus”, si scontra inevitabilmente con una realtà di abusi (più o meno diffusi) che inibiscono interventi di “rigenerazione urbana” (individuali o collettivi) che, invece, costituiscono oggi obiettivo primario della pianificazione (universalmente riconosciuto come tale).
La rigenerazione urbana, sia essa quella diffusa e individuale, sia quella estesa ad ambiti urbanistici, incrocia fatalmente il tema degli edifici abusivi non sanati o non sanabili e non ci si può girare dall’altra parte.
Non deve stupire allora che anche le regioni di tanto in tanto forzino la mano sul tema pur non avendone riconosciuta competenza legislativa.
E visto che anche le norme sanzionatorio/repressive hanno segnato il passo e non paiono essere state risolutive, il Legislatore nazionale dovrà pur occuparsene non potendo certo pensare di aver risolto il problema con la frettolosa modifica all’articolo 41 del DPR 380/01 (apportata in sede di conversione del “decreto-legge Semplificazioni”) attribuendo alle Prefetture una co-competenza operativa/sostitutiva nelle demolizioni.
Occorre una rivisitazione strutturale e complessiva del problema della sanabilità/repressione degli abusi che solo il Legislatore statale ha competenza a formulare, per cui non possiamo che rinviarne la riproposizione al Nuovo Testo Unico dell’Edilizia, magari inquadrandolo nell’obiettivo della rigenerazione urbana per farne occasione di promozione anziché di ostacolo, riprendendo quello spunto che già la legge del 1985 aveva anticipato.
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