Edilizia
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C'è qualche insidia nell'auto-dichiarazione dello "stato legittimo" degli immobili

Pur avendo la recente modifica del Testo Unico dell’Edilizia ben chiarito gli atti cui fare riferimento per redigerla non sono certo superate le difficoltà e anche le ambiguità della dichiarazione, che l’Autore esamina in modo analitico fornendo utili suggerimenti circa eventuali situazioni che potrebbero risultare pregiudizievoli per una corretta attestazione e motivo di potenziali contenziosi.

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La dimostrazione della legittimità degli edifici è ormai dovuta ogniqualvolta (dice il DPR 380/01):

  • si metta mano a nuove opere (art. 20, co. 1)
  • si richieda l’abitabilità anche in assenza di nuove opere (art. 24, co. 7-bis)
  • si applichino le disposizioni sanitarie previgenti al d.m. 5.07.1975 (art. 10, co. 2 del d.l. n. 77/2020)
  • si invochi l’applicazione delle distanze preesistenti (art. 2-bis, co. 1-ter)
  • si operi un trasferimento immobiliare.

Al di là della ragionevolezza, lo richiede espressamente la Legge a tutela dell’interesse pubblico e di quello privato (degli acquirenti) nell’attuale stesura del Testo Unico dell’Edilizia (e ancor più dopo le modifiche del decreto legge Semplificazioni e della sua conversione in legge n. 120/2020).

Quest’ultimo anzi ha opportunamente precisato come si dimostri la legittimità al comma 1-bis dell’articolo 9-bis.

La dimostrazione però è necessariamente affidata ad una “asseverazione” di un tecnico abilitato con tutte le conseguenze che ne derivano; ci limiteremo qui a vedere quali siano alcune problematiche che sorgono anche solo per redigere la dichiarazione; delle conseguenti responsabilità parleremo in altra sede.

Superando dunque qualche perplessità sull’estensione dell’accertamento (che poteva essere insorta prima di questa precisazione normativa) è ora indiscutibile che ci si debba basare sugli atti esistenti essendo definito per legge (dal precitato articolo 9-bis, comma 1-bis) che  “Lo stato legittimo dell’immobile o dell’unità immobiliare è quello stabilito dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa e da quello che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali”.

Il riferimento dunque è “agli atti”, che servono a definirne la consistenza fisica ed anche le destinazioni d’uso che sono “quelle espressamente previste” nell’ultimo atto abilitativo (vigente e non annullato) ex articolo 23-ter.


Sulla validità e affidabilità dell’atto abilitativo

Gli atti abilitativi possono essere di tre diverse tipologie

  • espressi e formale
  • acquisiti per silenzio-assenso

o, ancora,

  • per autodichiarazione.

La dichiarazione di “stato legittimo” diventa evidentemente più delicata (e deve essere più accurata) in caso di formazione “implicita” dell’atto per silenzio-assenso (si veda anche più avanti il caso di condono) o per autodichiarazione, perché la sua validità ed efficacia dipende dalla veridicità delle dichiarazioni rese e dal mancato riscontro del comune (richiesta di integrazione e/o atti di inibizione).

Per dare una maggiore certezza della situazione il Legislatore con la legge n. 120/2020 - integrativa del Testo Unico dell’Edilizia - ha aggiunto al comma 8 dell’articolo 20 un secondo periodo col quale si impone ai comuni di certificare (entro 15 giorni dall’eventuale richiesta dell’interessato) se i termini del procedimento siano decorsi in assenza di comunicazioni interruttive del comune.

Ci sarebbe molto da dire a proposito di questa aggiunta (che rinviamo ad altro momento); facciamo solo notare che, comunque, riguarda solo le richieste dei permessi (e non anche le s.c.i.a.) e solo da oggi in poi e non per il pregresso.

La (denegata) eventualità dell’annullamento

In ogni caso gli atti fanno fede per quello che contengono e che prescrivono … fin che non siano annullati.

Vero è che

  • la modifica della legge n. 241/90 apportata con l’aggiunta dell’articolo 21-nonies limita la possibilità di annullamento in autotutela della pubblica amministrazione rilasciante a soli 18 mesi dalla data di rilascio
  • e la giurisprudenza ha confermato che questa disposizione si applica anche in caso di silenzio-assenso o di autocertificazione (decorrendo il relativo termine dalla data di formazione implicita dell’atto o della legittimazione ad agire),

ma resta pur sempre la possibilità di annullamento della Regione o del Giudice amministrativo o la sentenza di illegittimità che comporta disapplicazione del Giudice Ordinario (civile o penale).

Circostanza, questa, che (se il ricorso è stato posto nei termini di legge) può verificarsi anche a distanza di molto tempo e diventa particolarmente importante e perniciosa (possibile fonte di contenzioso postumo) in particolare nel caso di trasferimento di diritti immobiliari perché incide sul valore del bene.

Sarà quindi bene che l’“asseverante” faccia espressamente salva questa eventualità della cui esistenza solo il titolare di diritti reali è a certa conoscenza.

Tralasciando l’ipotesi di annullamento dell’Organo sovraordinato (regione) o Giurisdizionale - che non rappresentano la normalità o un dato oggettivo) – sarà invece opportuno che il tecnico dichiarante evidenzi se ancora non sia trascorso il periodo dei 18 mesi di potenziale intervento di annullamento del comune.

Sul contenuto tecnico dell’atto abilitativo

Superato il problema di quale sia l’atto (o gli atti) di cui auto-certificare, non dovrebbero allora esserci problemi di interpretazione “tecnica” del suo contenuto, e invece forse sì qualche problema c’è.

Quello più insidioso può essere l’eventuale rilascio di un condono, sia che sia stato acquisito in forma espressa e formale, sia che sia stato acquisito per silenzio-assenso.

… in caso di condono rilasciato

In caso di condono rilasciato in modo formale va verificato bene il suo contenuto perché – come abbiamo avuto modo di dire in altra occasione (v. articolo “Abusivismo, repressione, condono: quando i nodi vengono al pettine …”) spesso le domande sono state redatte in modo incompleto, magari non richiedendo la sanatoria di tutte le difformità, ma solo di alcune, causa la frettolosa e approssimativa ricerca dei precedenti. Questo si è verificato spesso nei condominii in cui ognuno ha operato per la propria unità immobiliare, ma non per il complesso.

Ma non solo.

Può essere allora che il comune in sede istruttoria abbia effettuato una scrupolosa ricerca dei precedenti e richiesto integrazione anche per le porzioni di cui non era stata fatta domanda, rilasciando un condono “tombale”, coprente tutti gli abusi; in questo caso la “concessione/permesso” in sanatoria è affidabile e su di esso si può pacificamente fondare un’attestazione di legittimità.

In caso contrario, no. Perché è evidente che in caso di richiesta incompleta è stato sanato il richiesto e non il resto.

Non può essere considerato sanato ciò che non è stato dichiarato abusivo; e questo vale per tutte le richieste di sanatoria (speciale o a regime).

Occorrerà allora estendere a ritroso la ricerca degli atti per verificare gli eventuali scostamenti di difformità non sanate risalendo all’ultimo precedente atto effettivamente abilitante.

Questo è uno dei più diffusi motivi di mancata efficacia del condono (rectius: dei condoni) che ancor oggi ne fa rivivere l’attualità.

… in caso di condono formatosi per silenzio assenso

In caso di condono acquisito per silenzio-assenso il problema è ancora più delicato perché il condono si è tacitamente costituito solo se ricorrevano determinate condizioni (come disposto dagli articoli 32 – 33 - 35, commi 18 e 19 - 40).

Dunque non si tratta di un accertamento di fatto ma di merito, che comporta un complesso di:

  • accertamenti collaterali all’atto (versamenti dovuti, tempi di presentazione, non dolosità delle dichiarazioni, …) e
  • valutazioni tecniche (ammissibilità, ricevibilità, completezza e procedibilità della domanda, assenza di vincoli o esistenza dell’assenso dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo,…)

Una sorta di istruttoria (ora per allora – da svolgersi da parte del privato in luogo del pubblico) che, come esperienza insegna, qualche margine di aleatorietà la porta.

Quando non esiste atto in sanatoria ma solo il pagamento della sanzione …

Nel caso in cui, per qualche abuso parziale commesso, si sia pagata la sanzione amministrativa alternativa alla demolizione il problema è giuridico perché il dato reale si scontra con quello formale.

Afferma infatti la giurisprudenza che il pagamento della sanzione (cosiddetta “fiscalizzazione dell’abuso”) non costituisce rilascio di atto amministrativo in sanatoria ancorché le opere corrispondenti non siano più da rimettere in pristino: in altri termini, non sono più demolibili, ma sono e restano prive di titolo, cioè formalmente abusive.

… la disciplina prevista dall‘art. 34, comma secondo, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, cosiddetta procedura di fiscalizzazione dell’illecito edilizio, trova applicazione, in via esclusiva, per gli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, e non equivale ad una "sanatoria" dell’abuso edilizio, in quanto non integra una regolarizzazione dell’illecito e non autorizza il completamento delle opere realizzate, considerato che le stesse vengono tollerate, nello stato in cui si trovano, solo in funzione della conservazione di quelle realizzate legittimamente… “. Così si esprime la Corte di Cassazione Penale, Sez. III^ nella Sentenza n.28747 del 21/06/2018.

Se – come dice per espresso la norma – il riferimento dello “stato legittimo” deve essere agli “atti”, qui l’atto sanante non c’è.

Le opere abusive sono dunque abilitate (rectius: tollerate) a restare così come sono e quindi solo manutenibili, ma non ristrutturabili e, in caso di ristrutturazione o di demolizione e ricostruzione con conservazione della preesistente consistenza edilizia, le opere di cui si è pagata la sanzione amministrativa non sono computabili ai fini del volume preesistente (che resta illegittimo/abusivo).

Non è poco in relazione al valore patrimoniale corrispondente e qui il contenuto della dichiarazione di conformità/legittimità resa dal tecnico ha un peso rilevante (soprattutto in caso di compravendita) e sarà bene che sia puntuale e ne dia atto.

Vista con gli occhi di un tecnico appare come una sorta di contraddizione, perché condanna la porzione abusiva a restare perennemente al suo status quo e lì la congela.

Contraddizione contraria al buon senso e alla finalità della norma che deve mirare al recupero patrimoniale di ciò che, in un modo o nell’altro, ha saldato i debiti con l’ordinamento secondo quel che prevede e consente la legge stessa.

E il Legislatore regionale?

Così la deve aver vista anche la regione Emilia-Romagna che nella recente legge regionale 29 dicembre 2020, n. 14 ha aggiunto l’articolo 10 bis alla previgente legge regionale n. 15 del 2013, che, a proposito dello “Stato legittimo degli immobili”, così dispone: ………………  lo stato legittimo dell'immobile o dell'unità immobiliare è quello stabilito dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione, integrato dagli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali, dai titoli edilizi in sanatoria, rilasciati anche a seguito di istanza di condono edilizio, dalle tolleranze costruttive di cui all’ articolo 19 bis della legge regionale n. 23 del 2004 nonché dalla regolarizzazione delle difformità che consegue al pagamento delle sanzioni pecuniarie, ai sensi dell’ articolo 21, comma 01, della medesima legge regionale n. 23 del 2004”.

Non sfugge che, a parte trascurabili precisazioni di dettaglio, l’innovazione sostanziale sta nel riconoscere “legittimante” il pagamento della sanzione pecuniaria che viene collegata con un “nonché” all’annoverazione dei titoli, assimilandola così (implicitamente) al rilascio di un “atto” sanante (che la giurisprudenza – nell’indeterminazione della legge nazionale, non individua come tale.

Il che rientra presumibilmente nella competenza legislativa regionale concorrente, visto che opera in ambito amministrativo, ma indubbiamente incide in modo sostanziale sugli aspetti patrimoniali e non solo procedimentali.

Un rompicapo in più per chi deve asseverare, che dovrà ben chiarire questo aspetto nella certificazione dello stato legittimo, verificando anche se per caso non esistano disposizioni in merito nella strumentazione urbanistica locale circa le possibilità di intervento sulle opere che hanno acquisito riconoscimento ad esistere pur non essendo coperte da titolo abilitativo sanante.

E anche un’utile provocazione al Legislatore nazionale che sarà bene che prenda posizione in merito se non vuole che sempre più si amplii un irragionevole e incongruo divario regionale sugli effetti dei procedimenti amministrativi.


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Ermete Dalprato

Professore a c. di “Laboratorio di Pianificazione territoriale e urbanistica” all’Università degli Studi della Repubblica di San Marino

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