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La burocrazia difensiva nei settori strategici per la ripresa economica ed il reato di abuso d’ufficio

Di assoluto rilievo la tempestività con cui la Corte Costituzionale ha affrontato la questione di legittimità della recentissima modifica del reato di “abuso d’ufficio” apportato con provvedimento “urgente” dal decreto-legge n. 76/2020 (poi convertito nella legge n. 120/2020).

Dissipando i dubbi che avrebbero potuto appannare l’efficacia di una precisazione quanto mai opportuna di una fattispecie penale strettamente connessa alle esigenze di “serena applicazione” delle norme del PNRR da parte dei funzionari delle Pubbliche Amministrazioni.

Se è vero (com’è vero) che il loro successo dipenderà (anche) dall’assunzione di responsabilità gestionali che una troppo generica formulazione giuridica avrebbe potuto indurre a non assumere.

Anche se dettato dalla contingenza, si tratta di un provvedimento strutturale dell’ordinamento.

*presentazione di Ermete Dalprato


Merita di essere rilevato il contenuto di una recente pronuncia della Corte costituzionale (Sentenza n.8/2022 Pubblicazione in G. U. 19/01/2022  n. 3) in tema di abuso d’ufficio.

Il giudizio di legittimità costituzionale è stato sollevato in riferimento al contrasto rilevato con gli artt. 3, 77 e 97 della Costituzione, dell’art. 23, comma 1, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale), convertito, con modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120, recante modifiche all’art. 323 del codice penale, in tema di abuso d’ufficio.

La citata disposizione ha, infatti, modificato la previgente formulazione dell’art. 323 cod. pen. a tenore della quale «salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni», sostituendo la locuzione «di norme di legge o di regolamento» con l’altra «di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità».

 

Il reato d’abuso d’ufficio

Il reato di abuso d’ufficio è volto, a tutela dell’interesse costituzionalmente garantito, al buon andamento, all’imparzialità e alla trasparenza della pubblica amministrazione.

Tale figura criminosa assolvendo una funzione “di chiusura” del sistema dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, rappresenta, infatti, il punto saliente di emersione della spigolosa tematica del sindacato del giudice penale sull’attività amministrativa.

Tematica percorsa da una perenne tensione tra istanze legalitarie, che spingono verso un controllo a tutto tondo, atto a fungere da freno alla mala gestio della cosa pubblica, e l’esigenza di evitare un’ingerenza pervasiva del giudice penale sull’operato dei pubblici amministratori, lesiva della sfera di autonomia ad essi spettante.

Nel corso del tempo si sono susseguite una serie di modifiche normative che hanno rimodellato questa fattispecie di reato, tentando da un lato di ridurre i margini di elasticità, generatori di persistenti problemi di compatibilità con il principio di determinatezza, e dall’altro di compiere un corretto contemperamento delle esigenze sopra prospettate.

Tuttavia le intenzioni del legislatore hanno dovuto fare i conti con le soluzioni della giurisprudenza, la quale è virata verso interpretazioni estensive degli elementi di fattispecie aprendo a scenari di controllo del giudice penale sull’attività amministrativa discrezionale.

Nella sentenza in commento è la stessa Corte Costituzionale a riconoscere che sia “opinione ampiamente diffusa”, (..) “individuarsi, infatti, proprio in tale stato di cose una delle principali cause della sempre maggiore diffusione del fenomeno che si è soliti designare come “burocrazia difensiva” (o “amministrazione difensiva”). I pubblici funzionari si astengono, cioè, dall’assumere decisioni che pur riterrebbero utili per il perseguimento dell’interesse pubblico, preferendo assumerne altre meno impegnative (in quanto appiattite su prassi consolidate e anelastiche), o più spesso restare inerti, per il timore di esporsi a possibili addebiti penali (cosiddetta “paura della firma”)”.

A questi fini, poco conta l’enorme divario, che pure si è registrato sul piano statistico, tra la mole dei procedimenti per abuso d’ufficio promossi e l’esiguo numero delle condanne definitive pronunciate in esito ad essi. Il solo rischio, del coinvolgimento in un procedimento penale, con i costi materiali, umani e sociali (per il ricorrente clamore mediatico) che esso comporta, basta a generare un “effetto di raffreddamento”, che induce il funzionario ad imboccare la via per sé più rassicurante”.

La burocrazia difensiva nei settori strategici per la ripresa economica ed il reato di abuso d’ufficio

Abolitio criminis della nuova formulazione normativa

La riforma ha ristretto la fattispecie, operando un’abolitio criminis parziale (ergo non costituiscono più reato le condotte non rientranti nella fattispecie tipizzata) su tre distinti fronti:

  • rispetto all’oggetto, la violazione commessa dal soggetto pubblico deve riguardare una regola di condotta (e non, ad esempio, una regola organizzativa);
  • rispetto alla fonte, la regola violata deve essere specifica ed espressamente prevista da una legge o da un atto avente forza di legge, con esclusione delle norme regolamentari;
  • rispetto al contenuto, la regola violata non deve lasciare spazi di discrezionalità.

Abolitio criminis parziale, operante come tale, ai sensi dell’art. 2, secondo comma, cod. pen., anche in rapporto ai fatti anteriormente commessi.

 

Questioni di legittimità costituzionale sollevate

I dubbi del rimettente il vaglio di costituzionalità attengono, sia al procedimento di produzione della norma, e segnatamente alla scelta di introdurla mediante decretazione d’urgenza, sia ai suoi contenuti.

Sotto il primo profilo, la norma censurata violerebbe l’art. 77 della Costituzione, perché del tutto estranea, in assunto, alla materia disciplinata dalle altre disposizioni del d.l. n. 76 del 2020 (in seguito Decreto semplificazione) e avulsa dalle ragioni giustificatrici della normativa adottata in via d’urgenza dal Governo, legate alla ritenuta necessità di introdurre misure di semplificazione amministrativa e di rilancio economico del Paese, per far fronte alle ricadute economiche conseguenti all’emergenza epidemiologica da COVID-19.

Quanto, poi, ai contenuti, la norma denunciata si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost., giacché, alla luce della modifica da essa operata, l’abuso, per assumere rilievo penale, dovrebbe risolversi nell’inosservanza di una norma legislativa che preveda una attività amministrativa vincolata «nell’an, nel quid e nel quomodo».

Secondo il rimettente l’attuale formulazione normativa renderebbe pressoché impossibile la configurabilità del reato, posto a presidio del buon andamento, dell’imparzialità e della trasparenza della pubblica amministrazione, lasciando prive di risposta punitiva le condotte, di coloro che, detenendo il potere di decidere discrezionalmente, si trovano in una condizione privilegiata per abusarne. Ne risulterebbe quindi violato il principio di eguaglianza, giacché, privando di rilievo penale ogni forma di esercizio di discrezionalità amministrativa equiparerebbe il pubblico funzionario ad un comune privato.

 

Rilievi della Corte

Nel dichiarare l’infondatezza e l’inammissibilità delle questioni sollevate la Corte rileva come la modifica introdotta dal Decreto semplificazioni ha quale finalità quella di eliminare i riflessi negativi, in termini di perdita di efficienza e di rallentamento dell’azione amministrativa, specie nei procedimenti più delicati, al fine di contrastare la “burocrazia difensiva” e suoi guasti.

La riforma del reato d’abuso d’ufficio, agendo sulle cause del fenomeno, seppur da tempo sollecitata è definitivamente maturata solo a seguito dell’emergenza pandemica da COVID-19, nell’ambito di un eterogeneo provvedimento d’urgenza volto a dare nuovo slancio all’economia nazionale, messa a dura prova dalla prolungata chiusura delle attività produttive disposta nella prima fase acuta dell’emergenza.

Il Decreto semplificazioni si occupa, in un apposito capo (il Capo IV del Titolo II), intitolato «responsabilità», delle due principali fonti di “timore” per il pubblico amministratore (e, dunque, dei suoi “atteggiamenti difensivistici”): la responsabilità erariale e la responsabilità penale.

Entrambe vengono fatte oggetto di modifiche limitative, all’insegna della maggiore tipizzazione, e con particolare riferimento all’abuso d’ufficio si sostanziano nella sostituzione della locuzione «di norme di legge o di regolamento» con l’altra «di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità».

La recente novella, per quel che qui interessa, estromette pertanto dalle violazioni penalmente rilevati il riferimento ai regolamenti e richiede che la condotta abbia ad oggetto regole specifiche previste in modo espresso da fonti primarie e che non lascino al funzionario pubblico spazi di discrezionalità.

In merito a questo ultimo punto la Corte rileva che “risulta trasparente l’intento di sbarrare la strada alle interpretazioni giurisprudenziali che avevano dilatato la sfera di operatività della norma introdotta dalla legge n. 234 del 1997: la puntualizzazione che l’abuso deve consistere nella violazione di regole specifiche mira ad impedire che si sussuma nell’ambito della condotta tipica anche l’inosservanza di norme di principio, quale l’art. 97 Cost.; richiedendo che le regole siano espressamente previste dalla legge e tali da non lasciare «margini di discrezionalità» si vuol negare rilievo al compimento di atti viziati da eccesso di potere”.

Il Decreto semplificazioni reca un complesso di norme eterogenee accomunate dall’obiettivo di promuovere la ripresa economica del Paese dopo il blocco delle attività produttive che ha caratterizzato la prima fase dell’emergenza pandemica.

In quest’ottica, il provvedimento interviene in molteplici ambiti: semplificazioni di vario ordine per le imprese e per la pubblica amministrazione, diffusione dell’amministrazione digitale, ma anche responsabilità degli amministratori pubblici.

Deve osservarsi pertanto come l’intervento normativo, oggi in discussione, rifletta due convinzioni, che statuiscono il nesso tra la modifica della disciplina dell’abuso d’ufficio e l’emergenza epidemiologica da COVID-19, e che per quanto si è visto, risultano entrambe diffuse ovvero:

  • a) che il “rischio penale” e, in specie, quello legato alla scarsa puntualità e alla potenziale eccessiva ampiezza dei confini applicativi dell’abuso d’ufficio, rappresenti uno dei motori della “burocrazia difensiva”;
  • b) che quest’ultima costituisca a propria volta un freno e un fattore di inefficienza dell’attività della pubblica amministrazione.

LA SENTENZA N.8/2022 DELLA CORTE COSTITUZIONALE E' SCARICABILE IN FORMATO PDF PREVIA REGISTRAZIONE AL PORTALE

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