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Storia del laterizio: artefatti laterizi e percorsi d'acqua

Storia dell'uso del mattone

Articolo tratto dal libro STILE LATERIZIO II - I laterizi cotti fra Cisalpina e Roma - Capitolo 4

Abbiamo inteso collegare – attraverso un salto “acrobatico” – funzionalmente, o solo narrativamente, tutta una serie di artefatti edilizi o soluzioni applicative con impiego di prodotti laterizi che entrano in contatto con l’acqua, risorsa indispensabile di vita e assai scarsa nell’antichità.
L’approvvigionamento dell’acqua nelle civiltà antiche del Mediterraneo ha svolto un ruolo sempre centrale a cui ha corrisposto la ricerca di soluzioni e di dispositivi efficienti di captazione, conservazione e uso oculato.
È interessante seguire nel contesto italico-romano, in particolare campano dove abbiamo a disposizione un’ampia documentazione, i modi di tesaurizzazione e gli stessi “percorsi dell’acqua” a contatto con gli artefatti in laterizio – centrali nella nostra indagine – soprattutto nella fase antecedente alla realizzazione dei grandi e perfezionati acquedotti romani di età imperiale che hanno assicurato la captazione remota dell’acqua, il trasporto a distanza e la sua erogazione a pressione, in forma corrente, sia nella capitale che nelle tante città romanizzate.
A differenza dei territori dell’Italia settentrionale dove è stato più facile accedere alle falde acquifere a mezzo di pozzi realizzati spesso con grandi mattoni curvi in laterizio, nelle regioni meridionali la disponibilità della quantità di acqua necessaria alla vita dei nuclei familiari è stata legata – per molti secoli – alla captazione dell’acqua piovana accuratamente canalizzata ed accumulata in cisterne più o meno grandi. Raccogliere e tesaurizzare l’acqua piovana diventa nel territorio vesuviano – scarso di sorgenti naturali di superficie e con falde sotterranee posizionate al di sotto dei venti metri, oltretutto con presenza di banchi rocciosi duri di natura lavica – una operazione obbligata, la sola praticabile.
Una testimonianza di tale consuetudine è tangibilmente fornita dagli insediamenti della Campania dove gli scavi e gli studi delle città distrutte dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d. C. consentono una lettura completa delle soluzioni adottate.
Sono gli stessi organismi architettonici, mediante la loro concezione morfologica, ad offrire un contributo significativo alla raccolta dell’acqua; in particolare la casa ad atrio di epoca repubblicana, attraverso la sua specifica codificazione tipologica, ne è testimonianza tangibile.
 
È possibile valutare tale apporto attraverso l’analisi delle domus ad atrio di Pompei, Ercolano, Stabia, Oplontis fra i pochi centri – se non gli unici del mondo antico – di cui è dato avere testimonianze copiose e complete dell’abitazione nelle sue strutture di fondazione e di elevazione legate al modello della casa unifamiliare.
Le città seppellite e “congelate” materialmente alla data dell’eruzione del Vesuvio consentono – a fronte delle città romane europee che hanno restituito testimonianze limitate al solo piano terra delle abitazioni – di seguire le caratteristiche di partenza e le evoluzioni della casa italica attraverso più secoli di vita, certamente dalla fase finale della repubblica alla prima età imperiale.
Si è di fronte, in particolare, ai microcosmi abitativi delle domus rappresentative di un modello dell’architettura domestica unifamiliare ampiamente diffuso nelle città della penisola romanizzata, rispetto al quale solo più tardi si differenzierà il modello tipologico dell’abitazione plurifamiliare – documentato soprattutto nella città di Ostia – legato alla concezione del caseggiato urbano, all’idea dell’insula.
La domus campana, da sola, ci aiuta a conoscere la casa italico-romana di città delle classi agiate essendo rimasti superstiti e documentati gli elementi della costruzione insieme agli apparati decorativi nel loro complesso; dalle redazioni pavimentali ai rivestimenti parietali, dagli alzati di facciata ai sistemi di copertura; questi ultimi, in particolare, costituiscono l’incipit – nella nostra trattazione – al tema del rapporto fra elementi in laterizio e percorsi dell’acqua.
La domus unifamiliare, cosi come la conosciamo dagli scavi delle città vesuviane, si definisce in particolare – lungo il III e II sec. a. C. – attraverso la soluzione distributiva dell’atrium quale spazio generativo centrale intorno al quale sono disposti gli ambienti residenziali che consentano lo svolgimento delle attività domestiche e pubbliche della famiglia.
Tale concezione tipologica della casa segnerà lungamente la storia della residenza unifamiliare urbana. Il suo schema spaziale e distributivo codifica e istituzionalizza un organismo edilizio introverso, chiuso perimetralmente verso strada da muri ciechi (o, tuttalpiù, dotati di aperture piccole come feritoie); l’entrata, attestata generalmente sull’asse centrale, conduce sempre direttamente nell’atrio in forma di corte interna – coperta al perimetro dalle falde del tetto e aperta al centro verso il cielo – su cui convergono tutti gli ambienti abitativi con il tablinium, lo spazio più nobile della casa, posizionato in asse alla porta di ingresso sul lato opposto.

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