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The Changing Landscape of Architectural Practice. Serve Insegnare il BIM nelle Scuole di Architettura?

The Changing Landscape of Architectural Practice. Serve Insegnare il BIM nelle Scuole di Architettura?

There is today a pronounced and accelerated convergence in architecture. This convergence is occurring by doers not thinkers; in practice not academia; in building design, fabrication, and construction. It is about solution-centric individuals engaged in real time problem solving, not in abstractions...Those working in architecture and engineering feel pressure to work faster, at lower cost, while maintaining a high level of innovation and quality. At the same time, emergent tools and processes make this possible. Convergence is about the firms, teams and people who thrive in this environment as a result of their ability to creatively combine and innovate.
Randy Deutsch, Convergence: The Redesign of Design, Wiley 2017

Over time, the process of designing and constructing buildings has transformed from a holistic master builder model in which all aspects of the design and construction process are orchestrated by one individual, to the fractured landscape of the early twenty-first century, in which industry professionals are hampered by archaic procurement models and disincentivized from working together for fear of litigation.The causes of this devolution are varied, but the resulting state of practice is one of inefficiency, with architects facing constant value engineering to meet project budgets, poor coordination, and disintegration between parties in the construction document phase. The result is most often excessive change orders and requests for information, which breed constant anxiety on the part of the client over exceeding the project budget and schedule. In the midst of this chaos, architects are losing revenue and relevance at an alarming rate.
Erin Carraher et alia, Leading Collaborative Architectural Practice, Wiley, 2017

L'incipit obbligato di questa nota non potrebbe che essere dato dall'ultima parte della seconda citazione posta a introduzione della stessa: architects are losing revenue and relevance at an alarming rate, certamente più aulica di un recente titolo de La Repubblica concernente la retribuzione e il reddito di architetti e di geometri.

Ovviamente, affermazioni di questa natura non sono inedite: si possono trovare agevolmente in alcune acute analisi di Phil Bernstein, che, a prescindere dal proprio trascorso ruolo in Autodesk, insegna ancora oggi Pratica Professionale alla Yale University.
Come «involontariamente» avrebbe sostenuto Jacques de La Palice dopo l'assedio di Pavia del 1525 (se, appunto, fosse stato ancora in vita), per poter insegnare il BIM (Building Information Modeling), occorrerebbe disporre per esso di una accettabile definizione.
Non si allude qui, naturalmente, a una delle definizioni che tradizionalmente si rintracciano in letteratura, bensì alla dimostrazione che dietro a tale acronimo possa nascondersi un corpo disciplinare autonomo scientificamente riconosciuto.

Si tratta di un tema che anni fa mi fu posto dall'allora collega Gerhard Girmscheid, professore ordinario di BauProzeß Management al Politecnico Federale di Zurigo.
Di fatto, mi limiterei ad affermare che l'acronimo sia oggi la porta di accesso preferenziale al vasto universo della Digitalizzazione.
Se così fosse, tuttavia, potrebbe apparire rischioso immaginare che l'introduzione del famigerato BIM nelle Scuole di Architettura possa avvenire, all'insegna dell'ineluttabilità, attraverso l'insegnamento degli strumenti: in maniera «strumentale».
Ciò non perché le tecnologie abilitanti non siano fondamentali, ma poiché di esse occorrerebbe conoscere storia, essenza e finalità.
Anzitutto, sarebbe bene ricordare come non esista «il» software BIM, bensì che vi sia una pluralità ampia di applicativi (di Scanning e Imaging, di Space Programming & Digital Briefing, di Authoring, di Computational Design, di Interoperable Energy Modeling, Structural Engineering, Building Services' Design, di Code & Model Checking, di Crowd Simulation, di Gamification, di Field BIM) connessi in un Common Data Environment e collegati a dispositivi fissi e indossabili di realtà mista, a sensori, a stampanti 3D e a quant'altro, per non parlare del GIS e delle sue applicazioni geo-spaziali.

Ecco, se si volessero insegnare gli strumenti del BIM, si dovrebbe offrire una simile offerta formativa.

Nella buona sostanza, siccome l'oggetto degli strumenti per eccellenza è il Dato (digitalmente computabile: un truismo qui per davvero!), in realtà, urgerebbe approcciare il tema da parte del discente sotto la fattispecie della Data Science.
Ciò che conta, infatti, è comprendere che cosa siano i dati, come li si generi, che uso se ne faccia, e così via, in quanto il Dato avrà sempre più, se correttamente maneggiato, uno straordinario valore culturale ed economico.
Data Analytics, Data Automation, e molte altre espressioni saranno, infatti, sempre più determinanti nel Settore dell'Ambiente Costruito (AECO Industry).
Tutto ciò detto, la questione principale da affrontare, come hanno fatto non solo Imperial College, University College London, University of Reading, Illinois Institute of Technology, Yale University, MIT, UCLA, ma anche American Institute of Architects e Royal Institute of British Architects (!), riguarda il potenziale trasformativo della Digitalizzazione (e, dunque, del BIM, ebbene sì) nei confronti della identità e dello statuto dei professionisti, dei progettisti e, in particolare, degli architetti.

Per questa ragione, introdurre il BIM nella formazione, così come nella professione, significa rimettere in discussione un processo di istituzionalizzazione del mestiere che ha origini albertiane, ma che, infine, si conclude nel Novecento.

Non si discorre, in questa sede, di Digital Architecture o di Parametricism, in qualche modo di poetiche e di filosofie progettuali basate sul «Digitale», bensì della intima natura stessa che la Digitalizzazione comporta per il Settore delle Costruzioni e, di conseguenza, in particolare, del ruolo che gli architetti, in particolare, e i loro consulenti tecnici, in generale, possono assumere nel quadro della cosiddetta «Reinvenzione» (riconfigurazione) del Settore e del Comparto, secondo il consenso internazionale di Boston Consulting Group, KPMG, Financial Times, McKinsey, Roland Berger, The Economist.
In definitiva, la ripresa di produttività del Settore passa attraverso una progettazione orientata al funzionamento del cespite immobiliare o infrastrutturale (le Operations) e un incremento dei procedimenti automatizzati connessi a un sistema di metriche in tempo reale che consentano di regolare tempestivamente i processi in atto.
In altri termini, il ruolo del progettista, in generale, e dell'architetto, in particolare, appare decisivo, nel senso di determinante nell'affermare o nel compromettere la posta in gioco, economica, data dalla capacità dei beni immobiliari e infrastrutturali di supportare l'erogazione dei servizi alle persone che interagiscono con essi.
E' palese che questo ruolo non può che essere rilevante solo se situato all'interno di un paradigma «produttivistico» dell'integrazione tra le richieste del committente, la concezione dei progettisti, le istanze dei realizzatori, le esigenze dei gestori e i bisogni degli utenti; la Digitalizzazione, di conseguenza, è assolutamente imprescindibile al fine di raggiungere questa condizione.
Tale situazione, però, collide, o quanto meno è sideralmente distante, dagli assetti strutturali in cui versa la libera professione in Italia, cosicché è chiaro che, allorché si riflette sul dialogo tra accademia e professione, quando si parla delle necessità del mercato e degli operatori, occorre preliminarmente domandarsi a quale modello culturale e professionale ci si voglia indirizzare.
Il punto è che le locuzioni come «centralità del progetto», le enfasi sulla «progettualità», e le stesse invocazioni ai concorsi di progettazione non possono sfuggire a questo interrogativo, al grado di tradizionalismo o di innovazione insito nella concezione, da parte di committenti e di gestori, del significato di bene immobiliare (e infrastrutturale).
Da tempo, nei Paesi Anglosassoni, ci si interroga con particolare intensità, sugli effetti che la Digitalizzazione comporta e induce riguardo alla pratica professionale, evidenziando come la coordinazione dei flussi informativi di per se stessa generi un processo di integrazione decisionale, in cui, appunto la «Collaborazione», non possiede nulla di irenico, di benevolo, ma risponde, al contrario, a una logica ferrea di condivisione di priorità assai precise e definite, in cui la leadership progettuale è assolutamente contendibile.
I modelli proposti, ad esempio, da un rapporto britannico come The Edge Commission Report on the Future of Professionalism – Collaboration for Change si ritrovano simili nel recente volume di Erin Carraher e altri, intitolato Leading Collaborative Architectural Practice, in cui si legge: 

Welcome alternatives to these siloed, contentious, and risk-adverse practices have emerged with the rise of Building Information Modeling (BIM) and the development of collaborative contract structures in the early 2000s. These structures showed how the creation of joint partnerships between key stakeholders—owners, architects, and contractors at a minimum—who share both the risk and reward for a project’s success could incentivize an integrated delivery approach. 

Queste affermazioni non apportano certamente alcuna novità per un attento osservatore del dibattito nordamericano, ma risultano vieppiù significative in virtù del fatto che progressivamente stiano costituendo la posizione ufficiale della corporazione, della rappresentanza degli architetti statunitensi, evidenziando come la questione non si limiti agli ambienti accademici progressisti e intellettualistici.
Quel che è certo è il fatto che il mood prevalente nel Nostro Paese appare distante dalla preoccupazione di integrare pienamente la prestazione professionale dell'architetto entro un quadro organizzativo e contrattuale «collaborativo», come testimoniano il contrasto accanito all'Appalto Integrato, l'intento flebile di procedere a processi aggregativi (il nanismo dimensionale è particolarmente accentuato), il rinnovato individualismo del progettista, volto a ribadire un primato autoriale, già messo in discussione, in ottica digitale, ad esempio, da Carlo Ratti.
Randy Deutsch, nel suo Convergence: The Redesign of Design, mette bene in risalto la complessa circostanza in cui gli architetti possano muoversi sinergicamente cogli altri attori coinvolti senza smarrire una identità così radicata, o almeno senza perdere una parte di essa.
Non si deve, infine, dimenticare come la Uberification o la Uberization che dir si voglia, profittando della debolezza di apparati professionali frammentati e isolati, di un individualismo che è ormai divenuto solitudine, possa, nel mercato delle prestazioni progettuali, creare innovative soluzioni di riaggregazione e di integrazione.
L'interrogativo fondamentale è il seguente: sino a quando un modello organizzativo tradizionale che mette debolmente in rete idee creative degli architetti connettendole relativamente estemporaneamente col vaglio dei consulenti tecnici, spesso in assenza di determinazioni delle committenze, può reggere, avendo, oltre a tutto, alimentato potenzialmente la Distinzione, la Separazione e, pertanto, il Conflitto cogli esecutori e coi gestori?
Ovviamente, peraltro, questa forma mentale si riproduce anche nei contesti contrattuali concessori, più inclini alla sinergia e alla cooperazione: almeno in apparenza.
Comunque la si voglia porre, la questione attiene al fatto che la Rappresentazione gradualmente lascia il posto alla Simulazione e alla Virtualizzazione: concepire un bene immobiliare o infrastrutturale (anche idearne la demolizione, la trasformazione o la conservazione) sta ormai divenendo un processo all'inverso che parte dalle Operations per concludersi nel Briefing, per dirla con un paradosso.
Certo è che la Pre-Occupancy Evaluation (Digital, Virtual, Gamified, Immersive) e il Soft Landings sono icone di tutto ciò.

Insomma, insegnare il BIM nelle Scuole di Architettura potrebbe voler dire mettere a nudo una «Identità Imprenditiva» dell'architetto: una vera e propria affermazione blasfema agli occhi delle istituzioni accademiche? Ovvero, sancire un ripensamento radicale dei Corsi di Laurea?



 

 

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