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BIM: Un Dilemma per gli Architetti

BIM: Un Dilemma per gli Architetti

La relazione che intercorre tra l'Architettura e la Digitalizzazione non è quella maggiormente precoce, per quanto, negli Stati Uniti, secondo i primi rapporti di McGraw-Hill gli architetti fossero i maggiori utilizzatori di certi strumenti, ma è probabilmente la più rivelatrice della Transizione Lenta a cui ci si sta apprestando.
Del resto, gli architetti, e i loro consulenti tecnici, rimangono non certamente i primi beneficiari della digitalizzazione, bensì i maggiori produttori di essa.
Per prima cosa, occorre, quindi, nel panorama dei Data-Driven Process, capire lo scarto che la digitalizzazione introduce nelle prassi, avendo ben presente il divario differenziale tra organizzazioni professionali di natura e dimensione incomparabili.
In un recente saggio nordamericano, dedicato alle prassi professionali nell'architettura si legge: "the introduction of BIM represented even more of a technological paradigm shift than the earlier transition from paper to CAD, because it also affected the social nature of practice, requiring new standards, workflows, and means of communication (...) Through technology, the communication barriers between silos would be demolished, allowing practices and projects to achieve their full potential. This revolutionary change promised to free architects from the burden of documentation and allow for greater focus on design".
La citazione non rivela nulla di particolarmente nuovo sulla retorica della digitalizzazione, su dispiegamento di potenziale e sollievo dalla ripetitività, ma dice, in vece, molto sul punto centrale, lo statuto sociale.
Nel catalogo di una mostra che, in Francia, è stata recentemente dedicata alla figura dell'architetto si legge: "l’architecte ne laisse pas indifférent. Personnage de roman ou de film, de bande dessinée ou de jeu pour enfants, à la une des journaux et des magazines, en timbre ou billet de banque, il est l’un des hérauts de notre temps".
Chiaramente, l'architetto, altrove,  forse più che in Italia, gode di un prestigio sociale rimarchevole, anche se sempre teso a rimarcare la propria utilità, e, come osservava Emmanuelle Borne sulle colonne de L'Architecture d'Aujourd'hui, appare districarsi all'interno delle diverse evoluzioni, a iniziare dalla "montée en puissance du BIM".
Sappiamo bene, peraltro, che, in molti Paesi, l'architetto opera come effettivo coordinatore del processo progettuale, sia pure entro contesti giuridici specifici e irriducibili.
Siamo, altresì, ben consapevoli che, nel Nostro Paese, l'idea primigenia progettuale molto spesso parte dal rilievo (ormai, in misura crescente, parzialmente digitale) di un edificio esistente, non solo per conservarlo o per trasformarlo, ma anche per demolirlo e ricostruirlo.
Lo stereotipo diffuso, tuttavia, resta quello di un operatore creativo che, con atto individualistico e autoreferenziale, lungo un asse temporale lineare, interviene per primo, per esercitare, attraverso schizzi manuali o script computazionali, per tracciare una configurazione formale, in maniera relativamente indifferente alle ragioni dei suoi consulenti tecnici, che seguiranno e si adatteranno.
Quanto questa immagine sia giustificata e riscontrabile è tutto da verificare, ma, in ogni caso, funge da contraltare alla icona della progettazione manifatturiera più avanzata, di natura circolare e sostanzialmente priva di una autorialità così spiccata come quella che si ritrova nel Settore delle Costruzioni: Jennifer Whyte, infatti, ricordava come "the romance of the architect as a sole practitioner, which permeates this elegy to drawing, is misplaced".
Per contro, l'autorappresentazione che, nell'ultimo periodo, è stata offerta dalla categoria non appare particolarmente esaltante, per quanto suffragata dai rapporti annuali di ACE e di CNAPPC e si riferisce fortemente a una idea di mercato professionale in crisi per la riduzione della Domanda, oltre che per il sovraffollamento.
In definitiva, ciò che emerge è che, a partire dal XIX secolo, l'incremento di complessità dell'opera, e, conseguentemente, la rischiosità che essa comporta, ha progressivamente incrinato l'olismo della progettazione architettonica, frammentandola in miriadi di specializzazioni più propense a confliggere che non a cooperare.
Una iniziativa strategica adottata congiuntamente dalla CUIA e dal CNAPPC ambisce opportunamente, in questa contingenza, a riconfigurare il nesso che sussiste tra l'ambito accademico e quello professionale sia sul versante degli intrecci tra formazione e praticantato sia sulle relazioni tra ricerca operativa e professionalità evolut(iv)e.
Naturalmente, l'argomento non può essere ristretto alla sola professione di architetto, ma deve investire anche quelle più legate all'ingegneria e, di conseguenza, rappresentanze come CNI, OICE e CoGeGl, vale a dire i consulenti tecnici dell'architetto negli ambiti di sua competenza e con ruoli progettuali maggiormente diretti nel contesto della progettazione delle opere infrastrutturali: General Construction e Civil Engineering.
Per rimanere all'ambito dell'architettura (quanto, però, nella Smart City, o anche solo nella Città Rammendata o Rigenerata questa distinzione potrà valere sino in fondo?), è molto presente nel Nostro Paese l'aspirazione a emulare l'esperienza francese in materia di legislazione sull'architettura, tesa a riconoscere all'architetto un ruolo, è il caso effettivamente di dirlo, centrale, a fronte dei noti indicatori assai preoccupanti per quanto attiene a livello reddituale, dimensione organizzativa, natura societaria, a cui sono corrisposte tendenze altrettanto negative nel reclutamento da parte della sedi universitarie, indiscriminatamente proliferate negli ultimi decenni.
Il rimando alla Francia vale anche per la generalizzazione degli affidamenti, almeno da parte della committenza pubblica, tramite concorsi di progettazione.
Si tratta innegabilmente di sforzi di grande portata, che, investendo ovviamente le Scuole di Architettura, lambiscono marginalmente le Scuole di Ingegneria, ove, però, si registra, in termini di insoddisfazione espressa dai laureati, una ancor più forte criticità in rapporto al Corso di Laurea in Ingegneria Edile Architettura, sulla base dei dati forniti dalla CopI.
Come già sottolineato dallo scrivente altrove, contemporaneamente a questo intento, si registra, nell'Accademia, un forte interesse per introdurre nei percorsi informativi e per sviluppare in quelli scientifici il tema della Digitalizzazione che, pur presentandosi sotto molteplici vesti, è percepito principalmente nel Settore delle Costruzioni attraverso l'acronimo BIM, che sta per Building Information Modeling, Model o Management.
Tale tema, di tendenza, appare indispensabile ormai ai responsabili delle offerte formative, così come agli esponenti delle rappresentanze, benché le sue logiche immediate suscitino una certa diffidenza nei confronti di apparati mentali consolidati, di natura non del tutto affine, che lasciano presagire un lento processo di transizione.
Le stesse accademie sono fortemente criticate al proposito nel contesto nordamericano: "the lack of follow-through in the architecture industry relative to the aspiration for a more collaborative approach is in part the result of a lack of academic and professional training on the subject. Architects are trained how to design buildings, not how to lead or participate in teams of multidisciplinary professionals with different personalities, cultural backgrounds, and communication styles".
Il punto principale, tuttavia, è altro, rimandando alle conseguenze ultime che la digitalizzazione potrebbe arrecare alla professione di architetto e, più in generale, a tutte le professioni tecniche del Comparto, in virtù di una intima natura della stessa che potenzialmente sovverte i tratti consolidati dello statuto professionale, del suo valore reputazionale, dei sistemi di responsabilità che evoca.
Si tratta di una tematica certamente radicale, dirompente, che è stata trattata sistematicamente nel Regno Unito in alcuni centri universitari, come University of Huddersfield, University of Liverpool o University of Salford, e, in particolare, da una studiosa come Jennifer Whyte, prima a University of Reading poi all'Imperial College.

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