BIM
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Il BIM come instrumentum regni?

Il BIM è solo uno strumento che serve ai progettisti, in genere, e agli architetti, in particolare, per accrescere la propria capacità di «controllo» sulle ipotesi formulate «in precedenza»?
Si tratta di una affermazione/interrogazione che riflette o tradisce una convinzione assai radicata che assume un ambito di coerenza e di validabilità esclusivamente entro confini circoscritti, per essere oltre agevolmente falsificabile: confini, infatti, tendenzialmente di carattere analogico.
È opportuno osservare due fenomeni: l'identificazione, da parte di alcuni architetti, della digitalizzazione (di cui il BIM è l'epifenomeno) con la tridimensionalità e il fatto che, all'opposto, altri architetti si interessino oggi alla Artificial Intelligence e all'Internet of Things.
Per quanto riguarda la prima questione, la focalizzazione sugli aspetti geometrico dimensionali e sulla loro rappresentazione è assolutamente ovvia per gli architetti, ma il punto è che la posta in gioco non nasce, per una committenza veramente digitale, più in quel «luogo», bensì nella articolazione di una struttura computazionale di dati.
Non è tanto a valere la questione del Computational Design e del Parametricism nel generare forme a partire da algoritmi, che fa inorridire coloro che intravedono una equivalenza tra architettura e script making, ma, semmai, è il passaggio dalla rappresentazione alla simulazione a fare problema.
Nessuno sarebbe così sciocco da asserire che la digitalizzazione, di per se stessa, aumenti la «creatività», che resta naturalmente la ragione d'essere della concezione architettonica, per usare una espressione cara alla cultura francofona: potrebbe, anzi, accadere pure il contrario.
Resta, tuttavia, il fatto che questo committente è, sin da subito, interessato a comprendere dall'architetto e dai suoi consulenti tecnici come il cespite possa «funzionare» nel ciclo di vita.
Tale «semplice» richiesta, in verità, comporterebbe un precoce coinvolgimento di tutti gli operatori coinvolti nella vita utile di servizio dell'opera da ideare, venendo a incidere sul primato autoriale dell'architetto: non per nulla, Antoine Picon ha parlato di Ownership, in luogo di Autorialità.
Da ciò discende l'equivoco per cui il «BIM» sarebbe apportatore implicito di collaborazione e di integrazione, due categorie per nulla scontate e, al contrario, assolutamente forzate o forzose, benché necessarie alla luce della impostazione strutturale poc'anzi menzionata.
D'altra parte, proprio l'istituto dell'appalto integrato ha dimostrato non la sua inettitudine, ma l'incapacità degli attori di ragionare solidalmente.
Tutte queste considerazioni rientrano sempre nel milieu delle cose tradizionali: epperò, quel prodotto immobiliare di cui si parla ha iniziato a mutare la propria intima natura.
Ecco allora che non valgono più solo le prestazioni dell'edificio isolato, ma le attività (i servizi: anche la manifattura 4.0 sarà servitizzata al massimo) che esso non più «ospita», bensì contribuisce a «generare».
Questi beni appaiono, perciò, sempre meno «immobili», perché sono interconnessi, sono cognitivi, non valgono più solo in quanto tali, si rivolgono a esigenze individuali e dinamiche, fanno sorgere ossimori apparenti, come quello per cui si dia una norma singolare evolutiva in «tempo reale».
Per queste ragioni, mutando la natura del prodotto, inizia a essere posta in discussione l'identità del progettista che la concepisce.
Un esempio chiaro è quello dato dal Digital Briefing Process, che non consiste esclusivamente nella formulazione computazionale, da parte del committente, dei propri (Information) Requirements: il che richiamerebbe un funzionalismo significativo, ma obiettivamente datato, e, in ogni caso, esigerebbe, per non scadere in compliance pedissequa, una vis dialettica tra cliente e architetto per cui la richiesta, rigidamente computazionale, quantitativa, possa essere negoziata e derogata in «autorialità» condivisa.
La soglia si oltrepassa quando forme differenti, immersive o meno, di coinvolgimento dell'utenza prospettica non preludono tanto a forme di progettazione partecipata o persino involontaria (scomodando Rudofsky, Pagano o De Carlo: sino a Sfriso) quanto alla attenzione, computazionale, ai «comportamenti», ai «servizi».
Ciò che fa WeWork, con Daniel Davis, tutto sommato, non è solo, come tanti altri, ripensare il Workspace Management, ma, soprattutto, immaginare, a partire dal machine learning, il cespite, e lo spazio, categoria capitale per l'architetto, in altro modo.
Qui si saldano i due piani argomentativi iniziali: il «modellare» una struttura di dati che rappresenta non semplicemente le forme di ciò che non si muoverà più, ma che fa scaturire la morfogenesi da quello che, invece, muterà spesso o continuamente; il progettare probabilisticamente questo tipo di prodotti immobiliari (di opere di architettura?).
E evidente che il riferimento ricorrente, da parte del mondo dell'architettura al Deep Learning cela la preoccupazione per l'Automated Professional, ma è palese che l'eventuale, provocatoria, sostituzione dell'architetto non avverrà tramite un robot Kuka, ma grazie a Watson IoT.
Al di fuori delle suggestioni, strumenti di Workflow Engineering (come quelli di Flux) o di Visual Programming molto dicono delle tendenze evolutive.
La soppressione del lavoro intellettuale di carattere ripetitivo e mediocre è già assolutamente evidente, a partire dalla semi-automazione degli iter di rilascio dei titoli abilitativi: da Singapore a Vienna.
La disponibilità di Big Data (derivanti, ad esempio, da centinaia di commesse gestite digitalmente), evidenziata da Alain Waha, di cui possano usufruire le maggiori Engineering Consultancy dischiude una straordinaria possibilità di rendere semi-autonomi molti processi decisionali «minori», alleviando, ma di fatto eliminando, fabbisogni occupazionali.
Poco importa che per gli architetti sia preferibile usare applicativi come Dynamo piuttosto che non come Python (i riferimenti sono puramente esemplificativi): certo è che Dashboard e Data Analytics popoleranno sempre più le pratiche professionali.
È chiaro che, per un architetto, e per un progettista, verificare le interfacce tra gli oggetti significa rivedere le relazioni tra mentalità e gerghi spesso poco commensurabili: esercizio non certo triviale.
Certo è che, per un architetto, volgere la propria mente al prodotto (ove Building Information Modeling diviene Process Information Modeling) vuol dire interrogarsi, forse per la prima volta dall'era albertiana, è questa di sicuro una affermazione riduzionista, con radicalità sulla propria identità: di Archi-preneur?
Senza una adeguata cultura digitale che gli consenta di gestire probabilisticamente la propria originalità creativa, l'architetto potrà evitare di essere «replicato»?
Sarebbe meglio, come invita a fare Randy Deutsch, riflettere su Data Driveness e Convergence, anziché rifugiarsi in interpretazioni consolatorie sulla «strumentalità» del BIM, che valgono sinché si ragiona meramente sull'efficientamento delle prassi tradizionali.

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