Abusi maggiori da ampliamento fabbricato commessi in zona vincolata: le regole del Terzo condono edilizio
Consiglio di Stato: secondo le previsioni di cui alla legge 326/2003, gli “abusi maggiori” non sono mai condonabili quando commessi in zona sottoposta a vincolo in epoca anteriore alla realizzazione delle opere, indipendentemente che si tratti di vincolo a inedificabilità assoluta o relativa
Di terzo condono edilizio abbiamo parlato più volte, anche per differenziarlo - come peraltro vale per i primi due - dalla procedura di sanatoria edilizia classica (cioè permesso di costruire in sanatoria ex art.36 del Testo Unico Edilizia).
Oggi
trattiamo la sentenza 8043/2022 del 16 settembre del Consiglio di
Stato, inerente il diniego di condono edilizio per opere consistenti in “frazionamento
appartamento al piano terra del fabbricato ottenendo due unità
abitative ed ampliamento delle stesse mediante chiusura e suddivisione
di un portico di circa mq. 10 e mc 30 e chiusura, con muratura in
blocchi del tipo siporex, dello spazio di circa mq. 5.40 e mc. 16,
sottostante al terrazzo del piano superiore, prolungato per ml. 3.45 di
circa cm. 50 verso ovest; - copertura terrazzo – per una superficie di
circa mq 11 – al piano superiore del fabbricato”.
Senza comunicazione dei motivi ostativi al condono non si può rifiutare una sanatoria? Dipende
Secondo i ricorrenti, l'art. 10 bis della legge 241/1990, avendo portata generale, è applicabile anche ai procedimenti di sanatoria edilizia, ancorchè vincolati, e pertanto l'assenza di una comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di condono comporta l’illegittimità del diniego di condono nonché l’illegittimità derivata dell’ordinanza di demolizione.
Palazzo Spada smonta questa tesi osservando che è vero che la recente giurisprudenza di legittimità ha affermato che “L'istituto del preavviso di rigetto, stante la sua portata generale, trova applicazione anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la conseguenza che deve ritenersi illegittimo il provvedimento di diniego dell'istanza di permesso in sanatoria che non sia stato preceduto dall'invio della comunicazione di cui all'art. 10-bis l. n. 241/1990 in quanto preclusivo per il soggetto interessato della piena partecipazione al procedimento e dunque della possibilità di un apporto collaborativo, capace di condurre ad una diversa conclusione della vicenda”, ma affinchè la violazione dell’art 10 bis comporti l’illegittimità del provvedimento impugnato, il privato non può limitarsi a denunciare la lesione delle proprie garanzie partecipative, ma è anche tenuto ad indicare gli elementi, fattuali o valutativi, che, se introdotti in fase procedimentale, avrebbero potuto influire sul contenuto finale del provvedimento (Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 27/04/2020, n.2676: “Ai fini della configurabilità della violazione dell'art. 10-bis, l. n. 241/90, le garanzie procedimentali non possono ridursi a mero rituale formalistico, con la conseguenza che, nella prospettiva del buon andamento dell'azione amministrativa, il privato non può limitarsi a denunciare la lesione delle proprie pretese partecipative, ma è anche tenuto ad indicare o allegare gli elementi, fattuali o valutativi, che, se introdotti in fase procedimentale, avrebbero potuto influire sul contenuto finale del provvedimento”).
In questo senso l’art. 21 octies della legge 241/90 introduce un onere di allegazione e probatorio “rafforzato” a carico del privato che intende far valere la violazione dell’obbligo, per l’amministrazione, di comunicare preventivamente i motivi ostativi all’accoglimento di una istanza.
A tale affermazione conduce anche la
constatazione che la norma, solo con riferimento alla violazione
dell’obbligo di dare comunicazione dell’avvio di procedimento afferma
che è l’amministrazione a dover dimostrare, in giudizio, che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso:
dalla differente formulazione del primo e del secondo periodo dell’art.
21 octies, comma 2, si può quindi inferire che al giudice è consentito
rilevare d’ufficio l’esistenza di circostanze che rendono “palese” che
il provvedimento conclusivo del procedimento non avrebbe potuto avere un
diverso contenuto, allo scopo di “paralizzare” le censure finalizzate a
far valere violazione procedimentali, diverse dalla mancata
comunicazione dell’avvio di procedimento.
Gli abusi edilizi maggiori
Nel caso di specie le appellanti si sono limitate ad affermare, peraltro solo nell’atto d’appello, che <<l’istanza di condono edilizio presentata dalle ricorrenti ed attuali appellanti conteneva interventi tra loro incontestabilmente “diversi” per “natura” e “tipologia” (frazionamento appartamento al piano terra del fabbricato ottenendo due unità abitative ed ampliamento delle stesse mediante chiusura e suddivisione di un portico di circa mq. 10 e mc 30 e chiusura, con muratura in blocchi del tipo siporex, dello spazio di circa mq. 5.40 e mc. 16, sottostante al terrazzo del piano superiore, prolungato per ml. 3.45 di circa cm. 50 verso ovest; - copertura terrazzo – per una superficie di circa mq 11 – al piano superiore del fabbricato”) i quali comportavano, e comportano, conseguentemente, valutazioni “diverse” in ragione della strumentazione urbanistico-edilizia del Comune (PRG e PTP). Va rilevato, infatti, che l’art. 9 del PTP del Comune, ferme restando le prescrizioni previse in detto Piano, rende ammissibili in tutte le zone del territorio isolano (RUA, PRI e PI) interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di restauro e risanamento conservativo, di riqualificazione estetica degli immobili e delle aree pertinenziali anche mediante l’inserimento di elementi architettonici e tipici tradizionali che non costituiscano nuove volumetrie>>. Tali rilievi, tuttavia, non solo sono tardivi, non essendo stati formulati nel ricorso originario, ma neppure fanno intendere per quale ragione le opere abusive debbano essere ricondotte tra quelle consentite dagli strumenti urbanistici vigenti nel Comune.
Si tratta di opere implicanti aumento di
volumi, la qual cosa impedisce di qualificarli come meri risanamenti
conservativi né come interventi di mera ristrutturazione (Cfr. Consiglio di Stato sez. V, 08/04/2014, n.1653: “Nelle
opere edilizie, la semplice ristrutturazione si verifica quando gli
interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne,
interessano un edificio nel quale sussistano e, all'esito degli stessi,
rimangano inalterate le componenti essenziali, quali i muri perimetrali,
le strutture orizzontali, la copertura; è ravvisabile invece
l'ordinaria ricostruzione allorché vengono meno, per evento naturale o
per volontaria demolizione, le succitate componenti essenziali
dell'edificio preesistente e l'intervento si traduce nell'esatto
ripristino delle stesse, senza alcuna variazione rispetto alle
originarie dimensioni dell'edificio e, soprattutto, senza aumenti di
volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla originaria
sagoma di ingombro; diversamente, in presenza di aumenti di volumetria,
si verte in ipotesi di nuova costruzione, con i relativi effetti, ai
fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui
esistenti, come previsto dagli strumenti urbanistici vigenti.”) e impone di considerarle quale intervento di nuova costruzione, cioè quale abuso edilizio “maggiore” ai sensi della tabella allegata al DL 269/2003.
Niente condono per gli abusi edilizi maggiori in zona vincolata (indipendentemente dalla natura del vincolo
L’istanza di condono, oggetto del diniego impugnato in questo giudizio, è stata presentata quindi ai sensi del DL 269/2003, e che la giurisprudenza della Sezione è ormai da tempo assestata nel senso che il condono edilizio di cui al DL 269/2003, convertito nella legge 326/2003, non è consentito se abbia ad oggetto “abusi maggiori” commessi in zona sottoposta, precedentemente alla realizzazione delle opere, a vincolo: la diversa interpretazione delle norme di riferimento è stata recentemente sottoposta all’attenzione della Sezione, che con sentenza n. 824/2022 ha riformato la sentenza del TAR Piemonte n. 972/2015, che invece si era espressa nel senso che il condono di cui alla legge 326/2003 non escludesse a priori la condonabilità dei c.d. “abusi maggiori” commessi in zona vincolata, ammettendola in presenza di determinate condizioni.
Dunque, riformando tale decisione, la Sezione ha ribadito che secondo le previsioni di cui alla L. 326/2003, gli “abusi maggiori” non sono mai condonabili quando commessi in zona sottoposta a vincolo in epoca anteriore alla realizzazione delle opere, indipendentemente che si tratti di vincolo a inedificabilità assoluta o relativa: in tali situazioni, dunque, è inutile la richiesta del parere di compatibilità paesaggistico, posto che si versa in una situazione di divieto di condono stabilita dal legislatore.
Da ciò discende che in presenza di interventi qualificabili come nuova costruzione e realizzati in area soggetta a vincoli paesaggistici, il diniego di sanatoria edilizia è atto dovuto ai sensi della l. 326/2003.
Non siamo in presenza di pertinenze
In ultimo, Palazzo Spada osserva che, ad avviso delle appellanti, gli interventi oggetto dell’istanza di condono, singolarmente considerati, costituirebbero semplice adeguamento funzionale o, al più opere pertinenziali; di conseguenza rientrerebbero nell’area di applicazione del condono, essendo del resto compatibili con la disciplina urbanistica vigente: il motivo è infondato.
Tenuto conto della descrizione delle opere effettuata nell’ordine di demolizione se ne deve escludere la natura pertinenziale, o di mero adeguamento funzionale, essendosi l’intervento compendiato nella chiusura di due portici e nell’inglobamento della relativa volumetria all’interno delle unità abitative ivi esistenti, che sono state ampliate. Al piano superiore, inoltre, è stata effettuata la copertura di un terrazzo, per una superficie di circa 11 mq.
Il Collegio deve rammentare che secondo la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “la qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile, infatti, soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici, ma non anche ad opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tali, cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 13 gennaio 2020, n. 309; Cons. Stato, Sez. II, 12 febbraio 2020 n. 1092).
Essendo la nozione di "pertinenza urbanistica" meno ampia di quella definita dall'art. 817 c.c. non può ritenersi consentita la realizzazione di opere di grande consistenza soltanto perché destinate al servizio di un bene qualificato principale.
Inoltre, un’opera di modeste dimensioni, quantunque non suscettibile di una utilizzazione economica diversa da quella in concreto svolta a servizio del fabbricato principale, deve però essere riconoscibile come entità distinta rispetto a questo ultimo, il che non può predicarsi quando la superficie dell’opera venga inglobata all’interno del fabbricato che si assume principale, aumentando la superficie di locali preesistenti: in tal caso è evidente che ci si trova di fronte ad un ampliamento del fabbricato principale.
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