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La passione è geometria

Marcello Balzani intreccia poesia, filosofia e visione architettonica indagando il rapporto tra sacro e sconsacrato, voce e corpo, attraverso autori come Chandra Candiani, Anne Sexton, Calandrone, Rovelli, Pasolini e Bolaño. Il testo esplora l’estetica dell’amore, la geometria del desiderio e il suono come costruzione identitaria e culturale.

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“Vai lenta o veloce, come tu vuoi”

Lei si difende con lo sguardo di antilope. Con il seno levigato come uno specchio, le gambe, fusti irrigati e irrorati. Tocca con delicatezza leggera. Illumina il buio della notte. È un godere senza premura. Un fiore spuntato fra la sabbia di una duna bagnata di rugiada. Guarda un lampo, ti mostro il bagliore: è simile al luccicare di mani su nubi scintillanti. Mia gazzella: il tuo cuore palpita veloce e compatto.

Sono versi delle “Mu’Allaqāt”, le famose poesie arabe preislamiche cantate da sette poeti nelle tribù nomadi del deserto tra il VI e il VII secolo, tradotte (tutte insieme per la prima volta) da Daniela Amaldi per Marsilio in un’edizione di un po’ di anni fa. Un universo composto e tramandato oralmente che fa ancora fremere per le “molteplicità di forme della sua fantasia poetica”.

Quale animalità o natura richiede a noi stessi di essere riconosciuta? A volte “la fatica della bellezza nell’istante apre il pugno e corre galoppa il bisogno di parole che ospitino fitto il mistero” scrive Chandra Candiani nel suo “Pane del bosco” edito da Einaudi, e credo che se sapessimo riconoscere i nostri “guadi animali” si complicherebbe meno la vita. In fondo “l’acqua è scalza” e i piedi (zampe o zoccoli) sono “vestiti della sua trasparenza”.

“Lasciami stare con il mio carattere.

La pioggia è stupenda.

Lasciami dissetare, finché sono viva.”

 

Una famosa immagine di Giovanni Gastel che mostra quali altre “pelli” possono crescere sotto la nostra “pelle” e quanto sia importante riconoscere e stare con il proprio carattere.
Una famosa immagine di Giovanni Gastel che mostra quali altre “pelli” possono crescere sotto la nostra “pelle” e quanto sia importante riconoscere e stare con il proprio carattere. (Marcello Balzani)

 

 


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Trasformazioni

Cenerentola infilò la scarpetta come una lettera d’amore la sua busta. E poi con il principe vissero, si dice, felici e contenti, come due bambole in una teca museale. Mai impicciati da pannolini e polvere, mai litigando sul tempo di cottura di un uovo, mai imbolsiti dall’età, due sorrisi carini stampati per l’eternità.

Cappuccetto Rosso aveva la sua coperta di Linus rossa come il sangue di pollo. Quella vecchia carota della nonna veniva mangiata veloce come uno schiaffo. Il lupo era pesante come un cimitero con la pancia ricucita piena di pietre.

I capelli di Raperonzolo ricadevano al suolo come un arcobaleno ed erano gialli come piscialetto e forti come guinzagli.

Biancaneve roteava gli occhi, blu apri-e-chiudi, da bambolina di porcellana. E il mare rombava come un treno in retromarcia e i segreti trapelavano da ogni finestra come il gas.

17 fiabe dei fratelli Grimm rivisitate da Anne Sexton in “Trasformazioni”, tradotto e curato con grande cuore da Rosaria Lo Russo per La nave di Teseo.

Sono 17 favole nere spudoratamente trasformate in splendidi monologhi attualizzati nel virtuosistico stile “metaphor mad”, tanto da diventare rapidamente un’opera teatrale.

Questa “strega di mezz’età” che narra è una performer folle all’apice della carriera, allegorica, posseduta, corrosiva, ma anche infestante, misteriosa, osmotica.

La poetessa pop rock “cammina cammina nel bosco delle metafore folli” e “troverà la sua bara precoce” con la “sua bellezza sfacciata, la sua oltranza allegra e disperata, il suo viaggio nella selva della vita scritta.” A volte non c’è più nulla da dare, nessuna ricompensa.

Le minacce ormai non servono e i paragoni e i voleri annaspano tra secchiate d’acqua marina che lo scorrere ci riversa contro. Quindi acconsenti pure (e vivi in tenerezza come nelle favole), tanto lo sgambetto finale arriverà comunque!

Scrive Anne Sexton: la bellezza è una passione semplice ma, amici miei, alla fine ti ritrovi al ballo di fuoco con le scarpe di ferro.

 

Un mio scatto ricavato all’interno del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino di Palermo.
Un mio scatto ricavato all’interno del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino di Palermo. (Marcello Balzani)

Un luogo straordinario dove la magia è di casa e anche la sua rappresentazione.

Si cercano sempre risposte. Come mai? Trovi una chiave d’oro, una monetuccia, una cordellina e come se una graffetta slargata potesse essere un’opera scultorea (e in effetti lo è)… apri il tuo libro delle “fiabe strambe” che trasformano (tutto)!


4

Il sacro e la nuova forma sconsacrata

Perché hai una debolezza di spiga e muscoli di cavalla e un solco da aratura? Flessuosa e madida. Metti una mano qui come una benda bianca, chiudimi gli occhi. Hai fatto di me il tuo favo di luce. Usa la bocca, sfilami dal cuore il pungiglione. Lo senti? Il tuorlo a cielo aperto? La prima goccia densa come miele della tua forma algebrica d’amore che s’interna, impasta il sale delle combinazioni, di terra e sorriso con una nuova competenza d’acqua. Saliva nel vivo della carne. Pianura del corpo tutta risvegliata dalle fruste del vento sotterraneo, sotto l’orizzonte pelvico, libera. Quando le tue braccia scrivono in aria un verbo mai pensato, un alfabeto fatto per aprirsi. E io ti sento venire come un bulbo di prua. Cammini con la carne rinata dai miei baci. Affiora, trabocca, tutto il corpo fa un suono di mare. E tornerò nella tua bocca con la leggerezza della luce, così sfamata da non avere fame. Che spargimento sul caldo umano come di lucciole sulla campagna notturna! Apri chi occhi! E... mancami! Incidi! Tigre-amore pescami! La bestia è corpo e volume senz’ali nel frumento! Quando arrivi si sente il bagliore. E dopo mettimi in ordine con il peso di essere umana. Perché è vero che l’amore non possiede la crudeltà e la dolcezza dei fenomeni umani: ha la fermezza della vita che sfonda e che si manifesta.
Ogni fibra del corpoanima è pronta a farsi abitare con fatica e incoscienza, rinnovata continuamente, in una trasparente emorragia di luce. È tutto dolce, anche la stanchezza.

Sono le parole (da me intersecate con la saliva nel vivo della carne) di Maria Grazia Calandrone di “Serie fossile”, un poema sull’amore edito da Crocetti. Alterno la lettura di queste bellissime liriche con i rimbalzi (di luce) e di stelle di Carlo Rovelli nel suo “Buchi bianchi” pubblicato con Adelphi. Sento che la caduta della stella nel profondo nero irrimediabile può avere una speranza e rendere dolce-amara anche la scienza. Nella “schiuma di spin” la compressione e il rallentamento richiedono una rottura di continuità della bellezza formulata da Einstein. Ha ragione Maria Grazia Calandrone, pasolinianamente “ciò che è sacro si conserva accanto alla nuova forma sconsacrata”.

Passano gli anni ma tutto (per me) sembra ancora vivo in un istante.
Traiettoria di caduta e grani elementari (di spazio, di tempo, d’amore).
In fondo bisogna cambiare l’ordine delle cose e non è facile.
Il mio amore è (ancora) una membrana che aderisce al suono liquido della materia che sei, alla tua voce.

 

L’immagine è un mio scatto di un vaso di porcellana della manifattura di Meissen del 1900-1910 esposto al MIC di Faenza.
L’immagine è un mio scatto di un vaso di porcellana della manifattura di Meissen del 1900-1910 esposto al MIC di Faenza. (Marcello Balzani)

 

Buco Bianco e Buco Nero rimbalzano nell’orizzonte degli eventi come liquida materia di "spinfoam" in cui mi sembra di riconoscere le forme (sconsacrate?) dell’amore.

 


3

Le due bocche

Giudichiamo le persone come sane o folli, maschi o femmine, buone o cattive, degne di fiducia, deprimenti, maritabili, moribonde, più o meno inclini a farci guerra, di poco superiori agli animali, ispirate da Dio per lo più in base al suono della voce. Sono giudizi che si formano velocemente e possono essere brutali. Ecco perché la qualità e l’uso della voce è così importante. Per Aristotele il tono più basso della voce maschile si attribuisce alla tensione esercitata sulle corde vocali da parte dei testicoli funzionanti come pesi di un telaio; anche l’allineamento dei pori della pelle è importante!

Nel mondo antico il gemito raggelante della Gorgone, le voci di cagne ululanti delle Furie, il balbettio di Cassandra, il chiasso di Artemide che va alla carica nei boschi, il discorso seducente di Afrodite, l’eco ultraterrena delle terribili urla annuali delle donne di Lesbo nella loro gara di bellezza, il chiasso selvaggio di femmine che sveglia Ulisse approdato all’isola dei Feaci, la garrulità della ninfa Eco che Sofocle descrive come “la ragazza senza uscio in bocca” sono rappresentazioni inquietanti della natura femminile. Bisogna mettere una porta in bocca alle donne, perché la voce femminile, nei millenni di patriarcato, non sa esprimere autocontrollo, moderazione e solidità mentale come quella maschile.

Nello stereotipo classico di genere la donna non possiede in sé la misura dell’etica; per le donne tutto è incontrollato nel suono: urla, singhiozzi, lamenti, sonore risate, grida di dolore o di piacere. Chiudere la bocca alle donne con Solone avveniva anche per legge. La voce femminile è stimolo di licenziosità e disordine, nasce e genera follia. La donna è quella creatura che riversa l’interno all’esterno troppo direttamente ed esponendo il proprio corpo con proiezioni somatiche, emotive, vocali e sessuali. Le due bocche (ambedue protette da labbra) sono connesse e trovano per gli antichi una relazione tra incontinenza verbale e sessuale, ad esse viene anche attribuito il medesimo termine (in greco e in latino) che le identifica.

Ed ecco come già dal IV secolo a.C. si realizzano (non sappiano da chi e per quale intenzione) delle statue di Baubo, la “dea sconcia”, che vedono le due bocche fuse insieme o l’atto di esporre i genitali femminili nell’azione rituale di “tirare su le vesti”. La dea Baubo parla in una lingua oscena come l’onomatopeico baubau greco mentre la parola ricorda il sostantivo di utero. Nel gesto c’è un rumore visivo che proietta positivamente un’espressione apotropaica e forse a volte anche un’attività catartica. Le straordinarie statue di Baubo rappresentano un diagramma caotico di un’identità femminile scandalosamente manipolabile. Il raddoppio e l’intercambiabilità della bocca genera una creatura il cui sesso è cancellato dal suono e il suono è cancellato dal sesso, come se le due bocche di Baubo si appropriassero incessantemente l’una dell’altra.

Ho sintetizzato il pensiero di Anne Carson in “Il genere del suono”, il saggio finale della bellissima raccolta “Glass, Irony & God”, tradotta anche in italiano da Patrizio Ceccagnoli per Crocetti editore. “The Gender of Sound” deve ancora trovare una risposta interpretativa. Per Anne Carson repressione e autocontrollo sono state (e sono ancora) azioni e virtù socialmente richieste, separando interno ed esterno, limitando soggettività umana ed espressione culturale.

I suoni non sono mai neutri e le nostre “presunzioni in materia di genere” influenzano oggettivamente la nostra percezione. Voce e linguaggio sono diversi tra uomini e donne?

Modelli flessionali, gamme di intonazioni, preferenze sintattiche, campi semantici, dizioni, trame narrative, strumenti comportamentali, pressioni del contesto sono così differenti?

Forse sì (ed è bellissimo che lo sia) ma importante è trattenere il respiro e ricordare sempre per quanto tempo alla donna sia stata chiusa la bocca per aver usato la voce nel dire (soprattutto) ciò che non andava detto.

 

opera di Helena Almeida dal titolo “Ouve-me” del 1979
Un mio scatto dell’opera di Helena Almeida dal titolo “Ouve-me” del 1979, che ho avuto il modo di comprendere in una mostra a lei dedicata all’IMS di San Paolo, curata da Isabel Carlos. (Marcello Balzani)

 

Il “genere del suono” appare nel “genere della forma” e nei gesti ripetuti per la costruzione del “abaco di bocche” attraverso la deformazione delle labbra: è quel “rumore visivo” che esprime la (neppure tanto subdola) violenza della repressione che state sentendo?

 


2

Il senso del divino

«Il senso del divino, il senso del sacro non può che portare contro la civiltà del benessere. Se c’è una violenta reazione contro il consumismo non può che essere di carattere sacro, religioso».

Pasolini sentiva l’ambiguità della parola –sacro- e l’incompletezza sintetica della parola –Dio- se non connessa alla religiosità degli esclusi, dei contadini e del Terzo mondo, agendo incessantemente per un’immortalità nei confronti della libertà espressiva. Nel 1968 alla XXIX Mostra del Cinema di Venezia viene presentato “Teorema” di Pasolini e premiato dall’Office Catholique International du Cinéma. Nel 1968, anno rivoluzionario, Pasolini aveva ancora solo 7 anni da vivere.

La rocambolesca avventura viene raccontata da Italo Moscati in “Pasolini e il Teorema del sesso” edito dal Il Saggiatore, in uno straordinario racconto dell’anno dello scandalo che portò paradossalmente il film ad essere elogiato dalla critica cattolica e poi sequestrato ed «escluso per tutti». La trama è sintetica, ricorda Moscati: un giovane, interpretato nel film da Terence Stamp, entra nella bellissima casa di un industriale milanese e conquista uno dopo l’atro, sconvolgendo abitudini e mentalità, l’industriale (Massimo Girotti), sua moglie (Silvana Mangano), i loro figli e la cameriera (Laura Betti). È un misterioso «Ospite che porta il suo sesso sacro» nella casa dei padroni.

È l’«irruzione religiosa», è un dio seducente che trasmette amore anche in senso fisico. Inimici hominis domestici eius.

Sarà uno spartiacque che alimenterà i Bertolucci e i Ferreri.

“Il regista mite e allarmante sembra aver inghiottito lo scrittore. Le sequenze dei suoi film hanno vampirizzato le sue poesie e i suoi romanzi. E sono andate oltre.” Ci ricorda sempre Moscati che nel 1973 a Bologna, in un’aula gremita di universitari, professori e cineasti, Pasolini, chiamato a confrontarsi su –Erotismo eversione merce- disse tre volte la parola «provocazione» e poi disse: «Essi non hanno voluto vedere il cazzo enorme sulle loro teste». «Essi», i critici, non capivano che “il sesso era la sua arma di regista in rivolta”.

Lo spirito intermedio, la prospettiva pneumatica, nello spazio fra angeli e demoni, fra uomo e Dio.

Ogni volta che mi riguardo “Teorema” vedo, in una immagine di Moscati, Pasolini in piedi, sul set della società italiana, in mezzo agli attori, gridare col suo megafono: «Azione!» e voler dire contemporaneamente «Pensiero!».

 

Fotogramma di “Teorema”, utilizzato anche per i manifesti del film, in cui Silvana Mangano (la moglie) è distesa in attesa del “dio che seduce”.
Fotogramma di “Teorema”, utilizzato anche per i manifesti del film, in cui Silvana Mangano (la moglie) è distesa in attesa del “dio che seduce”. (Marcello Balzani)

 

L’ho “rivolta” pasolinianamente e abbrustolita in un rosso ruggine formalizzato… potete capire bene perché.

 


1

La passione è geometria

Non bisogna mai perdere la dimensione simbolica e neppure quella metaforica. È una ricchezza del nostro pensiero che si consolida nel linguaggio e che deve essere sempre alimentata. Da piccoli viene più facile dedicare tempo a sognare queste analogie, poi da grandi si perde l’abilità per scarso allenamento e si atrofizza una parte essenziale del nostro cervello, credendo che non sia così indispensabile per vivere. Roberto Bolaño ha il potere di far comprendere la ricchezza che una narrazione lirica può trasportare.

“La passione è geometria.
Rombi, cilindri, angoli che pulsano.
La passione è geometria che cade nell’abisso,
osservata dal fondo dell’abisso.”

I seni arrossati dall’acqua calda. Filamenti di sogno. Toccarsi appena le labbra con le labbra. Un amalgama che ci confonde.

L’incontro della nudità che forma sudore come velo. Il paradiso appare velocemente. Lo stupore sulla luna dell’innamorato e i tuoi occhi che splendono in ogni angolo. È come se stessi –mordendo- qualcosa di irreparabile. Ho sognato labbra… si muovevano fra i rami. E sento in me crescere quel ricordo dell’amore adolescente: l’amore sfrenato, il sogno dentro un altro sogno, i crepuscoli annegati, e poi sei di nuovo nascosto nell’intreccio, sdraiato sui binari del treno. Il sogno a cui ti riferisci ti è appena passato davanti, nell’istante sottile in cui ti concedevi una tregua.

Roberto Bolaño (1953-2003) cileno, ma anche del Messico e della Catalogna, nomade latinoamericano, nel 1993 raccoglie in “L’Università sconosciuta” i suoi versi composti fin dal 1977. Il volume, creato come un testamento lirico nell’addensarsi della malattia e che troverà le stampe solo dopo la sua morte, viene oggi tradotto con una coerenza d’amore da Ilide Carmignani per l’edizione SUR. È un “poema narrativo” sublime.

Scriveva Roberto Bolaño che la Bellezza appare, scompare, riappare, scompare, ancora una volta riappare, sfuma. Alla fine senti soltanto le pulsazioni di un pozzo, che è il tuo cuore. Quante cose ci ammazzano e ci rimpiccioliscono, tutti presi dall’assalto del Nulla. La Bellezza non sospirerà: vorrà vedere tutto. La poesia entra nel sogno come un palombaro in un lago infinito, torbido e infausto. Contemplatela dal fondo... La poesia entra nel sogno... con rime invisibili e rime blindate, all’intersezione fra la morte e la poesia.

Come una freccia lanciata nel cuore: il vaso di Poe.

Basta imparare a leggere.

“Il suo sguardo è bellissimo,
come se vedesse per la prima volta le scene
che ha desiderato tutta la vita.”

 

Günter Knop ispirata all'Art Nouveau e all'Art Déco in cui il nudo femminile si inserisce metaforicamente nella dimensione geometrica.
Immagine di Günter Knop ispirata all'Art Nouveau e all'Art Déco in cui il nudo femminile si inserisce metaforicamente nella dimensione geometrica. (Marcello Balzani)

 


 

Dalla rubrica «Marcello Balzani: tra Parola e Immagine»

C’è un numero che, più di altri, incarna l’idea di equilibrio e compiutezza: sei. È il primo numero perfetto, perché somma dei suoi divisori (1, 2, 3), ma è anche la metrica dell’esametro omerico, che ha guidato per secoli il racconto del viaggio, del mito, dell’umano.

A questo numero si ispira la struttura di “Perfetto Sei”, una rubrica che raccoglie i testi di Marcello Balzani come pensieri in cammino, intrecciati a immagini e citazioni che non illustrano, ma evocano, non spiegano, ma interrogano.

Il titolo è anche un gioco di specchi: si può leggere come “Sei perfetto”, allusione alla somiglianza divina dell’essere umano, fatto — secondo la tradizione — a immagine di Dio. Un invito, forse, a riscoprire nel frammento la traccia di un’armonia nascosta.

Ogni articolo della rubrica ospita progressivamente sei pensieri. Sei come unità compiuta, come sequenza che diventa ciclo. Quando l’articolo si completa, ne nasce uno nuovo. E ogni nuovo inizio si pone in cima alla serie, come il primo passo di un nuovo viaggio. L’intero progetto si dispiega così in una serie aperta di cerchi perfetti, ognuno con il proprio tema originario e la propria traiettoria di senso.

PERFETTO SEI

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