Dalle CAVE un volano per la Green Economy
Una fotografia sulla situazione delle cave in Italia attraverso il Rapporto Cave di Legambiente 2014
Perché è necessario ripensare le attività estrattive
Quello delle attività estrattive è un settore allo stesso tempo antico e moderno, e rappresenta in maniera efficace le contraddizioni e le opportunità per un Paese come l'Italia. Non è un’esagerazione perché nella gestione delle cave rientrano temi fondamentali come quelli del paesaggio, dell’edilizia, dei rifiuti e non da ultimo il mondo della ricerca.
Purtroppo molto spesso in Italia si assiste ancora ad un approccio sviluppista e senza cognizione degli enormi passi avanti fatti dalla tecnologia. Ma non si tratta di un’accusa rivolta alle sole aziende. Amministratori e tecnici, regionali e comunali, nonché una mancanza di investimenti nella ricerca innanzitutto da parte dello Stato centrale fanno sì che da decenni nulla o poco sia cambiato.
Non solo, negli ultimi anni con la crisi economica e delle costruzioni che sta mostrando tutti i suoi effetti anche nel settore delle attività estrattive, si sta perdendo un’altra enorme opportunità per invertire la rotta.
Le conseguenze della crisi nel settore sono lampanti: i prelievi di sabbia e ghiaia nel 2012 sono stati -43% rispetto al 2009, ed i consumi di cemento -22% rispetto al 2011.
Se si guarda con attenzione ai cambiamenti che stanno avvenendo nel settore delle costruzioni si comprende come oggi vi siano tutte le condizioni per cambiarlo nella direzione di una innovazione ambientale che è l’unica possibilità di uscita dalla crisi con più lavoro e un diverso rapporto con il territorio e le comunità intorno. Va in questa direzione la Direttiva 2008/98 che fissa al 2020 di raggiungere per il recupero dei materiali inerti quota 70% (oggi siamo sotto il 10%), ma anche la domanda di un mercato sempre più attento alla sostenibilità e tracciabilità dei materiali da costruzione, e lo pretende un paesaggio devastato da migliaia di cave attive e abbandonate.
IL RAPPORTO CAVE 2014
Con il Rapporto Cave 2014, presentato lo scorso Aprile, Legambiente ha fornito un quadro aggiornato della situazione nelle diverse regioni italiane, per evidenziare problemi ma anche le opportunità, e per accendere finalmente i riflettori su un tema di cui troppo poco si parla. Si perché ancora a livello nazionale nessuno se ne occupa seriamente tanto da fornire dati e statistiche sulle attività estrattive.
Non solo, la legislazione nazionale in materia risale al 1927 e non si ricordano interventi dei ministeri da decenni sul tema, né c’è una chiara consapevolezza da parte delle Regioni, che dal 1977 hanno le competenze in materia, del ruolo che dovrebbero svolgere per indirizzare il settore senza subire il peso degli interessi delle lobby come avvenuto fino ad oggi.
I dati
Il quadro che è emerso risulta impressionante. Perché sono ancora 5.600 le cave attive mentre sono 16.045 quelle dismesse nelle Regioni in cui esiste un monitoraggio.
Se infatti dovessimo sommare le cave abbandonate di Calabria e Friuli Venezia Giulia, che non hanno un monitoraggio, il dato arriverebbe a sfiorare le 17 mila cave dismesse.
Come detto negli ultimi anni la crisi del settore edilizio ha ridotto i dati delle quantità estratte per tutti i materiali lapidei, ma i numeri rimangono comunque enormi.
Sono infatti 80 i milioni di metri cubi estratti solo per sabbia e ghiaia, materiali fondamentali nelle costruzioni, ma elevati sono anche i quantitativi di calcare (31,6 milioni di metri cubi) e di pietre ornamentali (oltre 8,6 milioni di metri cubi).
L’estrazione di sabbia e ghiaia rappresenta il 62,5% di tutti i materiali cavati in Italia; ai primi posti Lazio, Lombardia, Piemonte e Puglia, tutte Regioni con oltre 10 milioni di metri cubi di inerti cavati e che da sole raggiungono oltre il 62,8% del totale estratto ogni anno con circa 50 milioni di metri cubi.
Obiettivi e prospettive future
A fronte di questi numeri risulta quanto mai necessario promuovere una profonda innovazione nel settore delle attività estrattive, ridurre il prelievo di materiali e l’impatto delle cave nei confronti del paesaggio. Oggi è anche possibile farlo con risultati clamorosamente positivi in termini di occupazione ed economici. Lo dimostrano i tanti Paesi europei dove si riduce la quantità di materiali estratti attraverso una politica incisiva di tutela del territorio, una adeguata tassazione e la spinta al riutilizzo dei rifiuti inerti provenienti dalle costruzioni. Questa sfida va percorsa coinvolgendo il mondo delle costruzioni oggi in profonda crisi, ed è l’unica strada possibile per dare un futuro a tante aree altrimenti condannate a vedere progressivamente degradata la propria identità e qualità del paesaggio.
È fondamentale intervenire allo stesso tempo su più fronti. Perché il nuovo meccanismo che si deve instaurare deve passare innanzitutto per la tutela del territorio, restituendo alla legalità un ruolo centrale. Occorre infatti adeguare il quadro delle regole per garantire tutela e trasparenza, perché esistono ancora troppe aree del Paese in cui regna l’incertezza che inevitabilmente favorisce gli appetiti speculativi, mentre ancora troppi Piani spingono l’attività estrattiva invece di regolarne una corretta gestione. Ovviamente in questa visione è necessario eliminare l’eccessiva discrezionalità da parte di chi concede i permessi e il peso degli interessi legali e delle ecomafie.
Lo Stato deve intervenire attraverso una nuova Legge Quadro che affronti i temi fondamentali e che riguardi: le aree in cui l’attività di cava è vietata e quelle in cui è condizionata a pareri vincolanti; i criteri per il recupero delle aree una volta dismessa l’attività e le garanzie che avvenga realmente l’intervento; l’estensione della VIA per tutte le richieste di cava senza limiti di dimensione (per cui oggi viene sistematicamente aggirata), e i termini delle compensazioni ambientali.
La nuova legge dovrà inoltre prevedere indicazioni precise sulle modalità di coltivazione dei siti di cava funzionali al contesto ambientale e paesaggistico e al suo ripristino contestuale. L’avanzamento del fronte di cava determina fortemente l’impatto delle cave, e non può essere discrezione dell’impresa ma deve seguire o dipendere dalla geomorfologia locale in modo da limitare l’impatto visivo e permettere la ricostruzione del profilo topografico preesistente.
Non si può poi pensare di continuare ad avere una situazione in cui da una parte si assiste a grandi guadagni e dall’altra enormi impatti sul territorio. I canoni di concessione sono semplicemente irrisori per cui occorre introdurre in tutta Italia canoni che siano almeno come quelli in vigore in Gran Bretagna, ossia pari ad almeno il 20% del prezzo di vendita. È una questione di giustizia, di tutela e di equilibrato utilizzo dei beni comuni, ma anche di innovazione perché in tutti i Paesi europei l’aumento in parallelo dei canoni per le attività estrattive e per il conferimento a discarica degli inerti è stato il volano per la riorganizzazione e modernizzazione del settore.
Gli introiti delle Regioni per la sola sabbia e ghiaia risultano di 34,5 milioni di euro l’anno, contro gli oltre 239 milioni risultanti dall’ipotesi di applicazione del canone attualmente presente nel Regno Unito, un incremento pari a sette volte i livelli attuali. Un divario enorme, che risulta ancor più evidente nelle Regioni dove cavare è gratuito, Sardegna e Basilicata.
E proprio qui si lega il terzo e fondamentale passo da spingere: il recupero e riciclo degli inerti. Un settore innovativo come quello del recupero degli inerti provenienti dalle demolizioni in edilizia può sostituire quelli di cava – come sta avvenendo in molti Paesi europei – e che consente di avere molti più occupati (per una cava da 100mila metri cubi l’anno gli addetti in media sono 9 mentre per un impianto di riciclaggio di inerti gli occupati sono più di 12) e di risparmiare il paesaggio.
Nei casi europei in cui ciò è stato fatto, come nel Regno Unito e in Danimarca, si è intervenuto da subito tassando seriamente il conferimento dei rifiuti C&D in discarica, aumentando i canoni di concessione ed incentivando le aree di riciclo dei materiali creando in questo modo nuovi posti di lavoro. Tutto ciò innescherebbe un processo virtuoso che toccherebbe inevitabilmente anche la qualità delle nuove costruzioni in edilizia e nel campo delle infrastrutture. In Gran Bretagna infatti, come del resto da anni fa la Provincia di Bolzano, esiste una rigida certificazione energetica secondo la quale gli edifici residenziali vengono valutati in base alla loro efficienza energetica, ma anche rispettando criteri di sostenibilità dell’intero ciclo di costruzione per cui anche l’utilizzo di aggregati riciclati rientra nei parametri considerati.
Occorre accelerare la crescita nel nostro Paese di una moderna filiera in cui siano le stesse imprese edili a gestire il processo di demolizione selettiva degli inerti provenienti dalle costruzioni in modo da riciclarli invece che conferirli in discarica. Ridurre il numero di cave e i quantitativi estratti è possibile, senza con questo togliere lavoro e prospettive alle aziende del settore.
È evidente la necessità di fare chiarezza nel quadro normativo e le mancanze che da decenni si registrano sia da parte dei Governi sia in molti casi da parte delle Regioni, ma è un tema anche culturale che riguarda il mondo della progettazione perché oggi non vi sono ragioni tecniche o normative a impedire l’utilizzo di materiali provenienti dal riciclo.
Bisogna partire col fissare obiettivi nel tempo di progressivo utilizzo dal 2014 al 2020 degli aggregati riciclati e per superare ogni barriera ancora presente nei capitolati di appalto o nella discrezionalità da parte di stazioni appaltanti e responsabili dei cantieri nel preferire materiali di origine naturale. Un obiettivo che deve interessare non solamente gli Enti pubblici e le società a prevalente capitale pubblico, come previsto attualmente per il solo 30% dei materiali, ma tutte le opere senza distinzione. Nei capitolati poi deve valere solo un principio “prestazionale” rispetto ai materiali e non di “provenienza”.
In questo discorso si deve citare anche un esempio tutto italiano. È il caso del Veneto, dove si producono in media oltre 5.500.000 di tonnellate all’anno di rifiuti da C&D, di cui più dell’ 80% vengono avviati a recupero e utilizzato anche in infrastrutture stradali.
Raggiungere questi obiettivi in tempi brevi non solo è possibile ma diventa sempre più urgente. Coinvolgere tutti gli attori del settore, partendo proprio dalle aziende, ripensare il modo di cavare è fondamentale per guardare alla prospettiva che il Paese vuole e deve costruire. In modo da uscire dalla crisi con un profilo più sostenibile e innovativo.