Incremento prezzi: la soluzione è nei contratti
Nel mondo dell'edilizia l'impennata dei prezzi dei materiali e del costo dell'energia sta mettendo in difficoltà tanti contraenti. In questo articolo, Sara Valaguzza fornisce alcuni suggerimenti per rivedere le regole del contratto rendendole funzionali ad affrontare il problema.
Fluttuazione dei prezzi e come affrontarla con adeguate previsioni contrattuali
L’incremento dei prezzi dei materiali da costruzione, a cui si è aggiunto quello dell’energia, sta schiacciando svariate centinaia di contraenti. Scrivo contraenti e non costruttori, volutamente. Perché la morsa riguarda certamente chi costruisce, ma non solo. L’incremento dei costi si riflette inevitabilmente anche sul committente che, pur quando riesce a prevedere un budget (cosa nient’affatto scontata), di questi tempi non vi può comunque fare affidamento per prevedere i costi dell’opera, se non in termini di larghissima massima.
Insomma, il sistema del prezzo chiuso e quello del prezzo massimo garantito sono al collasso.
Il fatto che contraenti e contratti siano a rischio nel momento della ripresa e resilienza appare come uno di quegli strani scherzi del destino.
Nel contesto della instabilità dei prezzi, ancora una volta (esattamente come durante il Covid), purtroppo, la relazione tra le parti non trova risposte adeguate né soluzioni nella disciplina “tradizionale” dei contratti di costruzione, spesso basati su clausole capestro, ad uso e consumo del contraente più forte, utili finché non servono davvero ad affrontare problemi reali, come sono invece quelli che abbiamo davanti.
In queste righe, proverò a fornire alcuni suggerimenti per rivedere le regole del contratto rendendole funzionali ad affrontare il problema di fronte al quale di questi tempi ci troviamo (e nei prossimi tempi ancora ci troveremo).
Riparto da un concetto che ritengo basilare e che sono ben consapevole di semplificare, a beneficio di una discussione ampia, non per soli addetti ai lavori.
Il concetto appartiene al diritto, ma è comprensibile facilmente sulla base della esperienza comune: il contratto di appalto di lavori non è un contratto aleatorio, ma è un contratto commutativo, cioè un accordo con il quale una parte affida ad un’altra parte, che paga, la realizzazione di un’opera, assieme all’organizzazione dei mezzi necessari e alla gestione utile allo scopo.
In altri termini, a differenza di quanto accade quando si sottoscrive un contratto di assicurazione (contratto aleatorio), in cui un soggetto si assume il rischio di un altro (per esempio, nel caso della assicurazioni contro il c.d. rischio vita, il rischio che una persona muoia prematuramente) a fronte del pagamento di un prezzo (c.d. premio), versato come canone periodico a scadenze convenute, quando si sottoscrive un contratto di costruzione ciascuno dei due contraenti accetta solo quella parte del rischio che rientra nell’alea normale del contratto, senza assumersi il rischio dell’altro né di eventi imprevedibili.
In poche parole, il rischio del contratto di appalto di lavori, per l’appaltatore, riguarda l’obbligazione di costruire un’opera secondo le regole dell’arte, nel tempo convenuto e ai prezzi pattuiti, nelle condizioni che è normale aspettarsi alla luce delle circostanze previste o prevedibili secondo buona fede.
Per il committente consiste, principalmente, nell’obbligazione di pagamento secondo tempi e importi concordati.
Né il committente né l’appaltatore si assumono invece il rischio degli eventi imprevisti ed imprevedibili che modificano il rapporto contrattuale, rendendolo non eseguibile o eseguibile a condizioni ben diverse.
E difatti se la prestazione diventa impossibile (un terremoto rende inagibile la zona sulla quale si dovrebbe costruire un palazzo) o eccessivamente onerosa (una casa viene a costare il doppio del previsto), disarticolando l’accordo (il famoso sinallagma) e alternandone lo schema negoziale, le parti possono sciogliersi dal vincolo che hanno accettato di assumersi.
Su che cosa si intenda, poi, per eccessiva onerosità si potrebbe discutere. Per quanto riguarda la tematica dell’aumento dei prezzi, direi che nessuno potrebbe seriamente mettere in dubbio che si tratti di un evento eccezionale, che merita rimedi eccezionali.
Un esempio per tutti aiuterà a comprendere che cosa ha inteso la giurisprudenza civile in tema di contrattualistica privata per eccessiva onerosità. Nel 1988, la Corte di Cassazione (Cass. Civ., 23.05.1988, n. 3575), tenuto conto che il prezzo di un trattore nordamericano oggetto del contratto di compravendita di cui si discuteva in giudizio era vincolato al valore del dollaro, ha ritenuto divenuta eccessivamente onerosa l'esecuzione della prestazione dal momento che si era verificato uno “scossone” valutario che avrebbe portato il prezzo di acquisto del trattore a 23.867.694 lire da 19.500.000.
Questa vicenda è utile perché consente di confermare che la fluttuazione dei prezzi, la svalutazione, l’inflazione sono tutti elementi considerati, oltre certi limiti di “normalità” o “prevedibilità”, causa di eccessiva onerosità capace di portare alla risoluzione del contratto ove si tratta di modifiche significative che, se conosciute dall’inizio, avrebbero potuto condurre i contraenti ad accordarsi per pattuizioni differenti.
Fatto questo primo passaggio, è possibile procedere al secondo: quando accadono circostanze impreviste che sovraccaricano una delle parti, è possibile, invece che sciogliere il vincolo negoziale, trovare nuovi equilibri. In particolare, quando si verificano fatti imprevisti od imprevedibili che fuoriescono dalla normale alea del contratto, l’ordinamento giuridico consente alla parte che subisce la maggiore onerosità di chiedere al giudice di risolvere il contratto, liberandola dalle obbligazioni assunte. In situazioni del genere, l’altra parte può evitare la risoluzione offrendosi di modificare equamente le condizioni del contratto, ripristinando così, in altri termini, il sinallagma.
Tralasciando per il momento la (a mio avviso sterile) discussione sul se la norma in tema di eccessiva onerosità sopravvenuta - e la conseguente possibilità di rinegoziazione - sia applicabile ai contratti pubblici (possibilità sulla quale l’ANAC pare avere sollevato diversi dubbi, ritenendo che l’art. 106 del D.Lgs. n. 50/2016 non sia compatibile con l’art. 1467 c.c.) non vi è dubbio che vi sia nel nostro ordinamento giuridico un principio che consente di riequilibrare i contratti in ragione di dinamiche dialogiche e collaborative che portino ad inserire modifiche concordate a beneficio della prosecuzione equilibrata della relazione contrattuale.
Ovviamente, applicare questo principio ai contratti di appalto sarebbe salvifico in questo momento per riattivare gli ingranaggi dei contratti di costruzione.
La risoluzione di un contratto di costruzione a causa dell’alterazione del sinallagma dovuta al continuo stravolgimento dei prezzi di contratto, si sa, non è una soluzione per nessuno. Come è possibile allora intervenire sui contratti con sistemi che consentano alle parti dei contratti di costruzione di dotare gli accordi, internamente (cioè all’interno dell’articolato contrattuale), di schemi operativi che consentano di ripristinare quell’equità che occorre per evitare ora la risoluzione, ora la sospensione, ora la gara deserta?
Sulla base dei due passaggi logici sopra formulati, a me pare che, semplicemente, la soluzione al nostro problema sia da affidare ad un meccanismo revisionale, da inserire nei contratti in corso, aggiungendo un apposito articolato alle pattuizioni che legano i contraenti o integrandolo nelle regole dei contratti nuovi, con il quale le parti prevedano, con una certa periodicità (una volta ogni mese, ogni bimestre, ogni semestre, comunque come si creda meglio), di esaminare l’elenco prezzi del contratto per valutare se esso contenga dei prezzi non più coerenti con le aggiornate condizioni del mercato.
Ove uno o più dei prezzi contrattualizzati fossero anormalmente alti o bassi, allora l’accordo tra le parti dovrebbe consentire di esaminare la situazione in contraddittorio, per valutare azioni capaci di attenuare gli effetti del rialzo e per cogliere l’opportunità di eventuali ribassi, ed eventualmente concordare il riconoscimento del maggiore costo assunto nel periodo di riferimento. Le clausole dovrebbero anche consentire al committente, auspicabilmente in collaborazione con la direzione dei lavori, di richiedere ogni documentazione opportuna per evitare fenomeni di c.d. over compensation dell’appaltatore e, al contempo, dovrebbero tutelare quest’ultimo per il caso in cui il committente si rifiuti irragionevolmente di riconoscere l’aumento oggettivamente prodotto all’interno del mercato di riferimento.
Accanto a clausole del tipo appena accennato, sarebbe bene che le parti concordassero un registro dei rischi dedicato a definire misure che spronino l’appaltatore e la sua filiera a porre in essere misure di attenuazione del rischio, per esempio favorendo una programmazione che sfrutti momenti di acquisto di materiali in momenti strategici, eventualmente anche accordando sistemi di anticipazione o di acconto.
Alcuni spunti, per i contratti di appalto privati, si trovano nella disciplina (peraltro non soddisfacente) degli appalti pubblici.
Portare la contrattualistica al centro del dibattito per la soluzione dei problemi del caro prezzi piuttosto che la legislazione, e il principio di trasparenza e collaborazione, piuttosto che la furiosa interpretazione di precetti che nascono già vecchi, potrebbe avere anche una utilità sistematica complessiva per il mercato delle costruzioni nel suo insieme.
Del resto, l’esperienza dei decreti Ministeriali – l’ultimo dei quali è pure stato sospeso dal TAR - non è riuscitissima (per usare un eufemismo).
Si arrenderà mai il nostro governo a lasciare che ci si concentri sui contratti invece che sulla legge? Io spero sempre che quel momento arrivi presto.
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