Urbanistica
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La legge urbanistica fondamentale compie 80 anni: riflessioni sullo stato dell'arte

Una ricorrenza che sta passando sotto silenzio, distratti e travolti dall’emergenza quotidiana, è il genetliaco della legge n. 1150/42 che - al confronto dei decreti-legge (ormai mensili e di vita precaria ed effimera) - ci appare come un monumento; non nel senso museale del termine, ma perché è ancor oggi (in parte) vigente e rappresenta un cardine della materia urbanistica.

Una bella carriera che merita forse qualche considerazione; non per farne una commemorazione (che sarebbe fuor di luogo e anche di malaugurio, visto che è ancora in vita), ma per una riflessione sullo stato attuale dell’arte.


Qualche dato storico

Era il 17 agosto 1942 quando il Re Vittorio Emanuele III, promulgava la legge n. 1150 che sarebbe poi stata pubblicata il 16 ottobre 1942 nella Gazzetta ufficiale n. 244 per entrare in vigore il 31 ottobre del 1942 e restarci ancora a tutt’oggi, come ci conferma il d.lgs. n. 179/2009 che ha fatto la ricognizione delle norme ancora vigenti e che la enumera cronologicamente nell’Allegato 1 come 763^ legge dello Stato italiano ancora vigente.

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Prima

Prima della legge n. 1150/42 non esisteva una legge organica dell’urbanistica. Non è che non si facesse pianificazione; già dalla seconda metà del 1800, dopo l’unità d’Italia, importanti città avevano il loro bravo piano regolatore.

La previgente legge n.2359 del 25 giugno 1865 aveva infatti incidentalmente introdotto al Capo VI (articoli 86-92) lo strumento urbanistico del “piano regolatore” che restava però indeterminato nei contenuti e nella modalità tecnica di redazione che erano libere e si rifacevano unicamente alla cultura della materia.

Il che forse di per sé non era un male perché testimonia che c’era una cultura in grado di interpretare e dare corpo alla generica definizione di “piano regolatore”.

Si è detto che il tema della pianificazione era solo “incidentalmente” trattato nella legge n. 2359/1865 perché la legge era dedicata alla “espropriazione per causa di utilità pubblica” (il che già testimonia la stretta connessione tra potere pianificatorio e diritto di proprietà). L’urbanistica era dunque intesa anche come strumentale alla potestà espropriativa.

Solo con la legge n. 1150 però all’urbanistica viene riconosciuta la dignità giuridica di materia autonoma, meritevole di una disciplina unificata a livello centrale.

Cosa che la legge fa istituendo una gerarchia di strumenti urbanistici, stabilendo il loro contenuto (anche tecnico) e (aspetto non irrilevante) le procedure di approvazione che dovevano all’epoca apparire particolarmente innovative e complesse perché tese alla pubblicizzazione e ad una forma (seppur embrionale) di partecipazione attraverso l’istituto delle “osservazioni”. Già allora era un iter complesso, unico nel suo genere.

La legge n. 1150/42 struttura quindi l’urbanistica italiana e per questo viene definita “legge urbanistica fondamentale” (in sigla l.u.f.)  - forse sarebbe ancor meglio dire “legge istitutiva dell’urbanistica”.  Non certo per la sua longevità.

 

Dopo

Longevità che il Legislatore dell’epoca non aveva certo previsto e che, anzi, il Legislatore successivo addirittura non avrebbe voluto, se è vero che la successiva modifica (che avverrà dopo 25 anni nel 1967 con la legge n. 765) fu definita “legge ponte”.

Su questa definizione - e non sulle modifiche analitiche (pur importanti) introdotte rispetto al testo del 1942 - varrà la pena soffermarsi ancor oggi.

La qualifica di “ponte” fu attribuita – quasi come escusatio di non aver fatto di più – perché doveva essere una norma di transizione verso …. una radicale riforma della materia che ne fissasse i principi regolatori.

E qui sta l’aspetto culturalmente più rilevante: il fatto che il Legislatore (leggasi la Cultura dell’epoca) già aveva maturato la necessità di una individuazione/revisione integrale dei principi cardine anche in vista dell’ormai prossima istituzione delle regioni e dell’attivazione della competenza legislativa concorrente che la Costituzione fin dal 1948 aveva riservato loro.

Per consentire alle regioni un sereno e consapevole esercizio delle funzioni legislative attribuite, occorreva dunque determinare bene quei “princìpi fondamentali che l’articolo 117 riservava comunque alla legislazione dello Stato.

Si badi che si parla dei “principi” (cioè di quei criteri immodificabili che devono ispirare ogni successiva azione) e non degli obiettivi (che possono essere mutevoli nel tempo e nei luoghi).

Si intravedeva già allora (nel 1967) l’esigenza di porre dei concetti generali condivisi all’interno dei quali poi operare (sia il Legislatore che il Pianificatore).

E’ noto che l’intento del Legislatore è andato deluso.

Dopo la legge n. 1150/42 (e la legge n. 765/67) ci sono state altre leggi urbanistiche di rilevo che hanno integrato quella del 1942, ma in realtà non sono state molte quelle di portata innovativa e generale; anzi direi che alla categoria innovativo/concettuale appartiene solo la n. 10/77, anche se bisogna precisare che le velleità originarie di trasformare la “licenza” edilizia in “concessione” – che sottintendeva un’implicita modifica dei principi giuridici - è stata subito ridimensionata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.5 del 1980.

Se a monte ci fosse stata una legge di principi questo non sarebbe accaduto.

Altre leggi di riforma urbanistica non se ne sono viste:

  • né la legge n. 47/85 di riordino del settore vigilanza/repressione (che pure ha avuto un respiro innovatore – v. InGenio  06/01/2021 “Abusivismo edilizio, repressione, condono: quando i nodi vengono al pettine ….”) perché operava in un ambito settoriale e, per così dire, disciplinava ciò che può succedere “a valle della pianificazione” (e ne tutelava l’attuazione);
  • né la pur fondamentale legge “Galasso” anch’essa settoriale sulla tutela del “paesaggio”;
  • né tanto meno il Testo Unico dell’Edilizia, come certifica la sua stessa titolazione.

Non parliamo delle recenti legislazioni d’urgenza che sono ben lontane dall’assumere anche solo una parvenza di organicità.

 

La gestione del “miracolo economico”

La legge n. 1150/42 inquadra concettualmente (e giuridicamente) la materia urbanistica: la “fonda” attraverso regole su cui possono innestarsi poi le azioni politiche (ovvero gli obiettivi).

Benché nata in pieno tragico periodo bellico, traduce e struttura in norma giuridica le elaborazioni che la cultura accademica e professionale avevano fino ad allora maturato ed esercitato sul campo.

Sta di fatto che con quella legge abbiamo gestito la ricostruzione post-bellica e un periodo di grande espansione.

Ricostruzione che, diciamoci la verità, pur con tutte le giustificazioni del caso - l’emergenza, la necessità della ripartenza economica  … (pare di sentire le voci di adesso) - non sempre è riuscita bene e di cui qualcuno attribuisce la colpa alla norma all’epoca vigente.

Affermazione ingenerosa: la legge fondamentale fissa i criteri e le metodologie (e i principi), non i contenuti delle pianificazioni che sono (ed erano) rinviate (come è giusto) alle scelte politiche; forse queste non sono state all’altezza. Mancanza di una cultura gestionale?

Perché, va detto, la legge fondamentale (e la sua integrazione con la legge ponte) non sempre è stata applicata coerentemente, spesso è stata male applicata, a volte anche disapplicata. Forse neppure capìta e studiata a fondo.

 

Principi e obiettivi (non confondiamo)

La legge non vincola le scelte, ma definisce come porle in atto. E lo fa per concetti e principi appunto.

Fermi restando i principi – che sono i canoni comportamentali – gli obiettivi possono mutare in funzione del tempo, del luogo, della politica che si vuole porre in essere (perché la pianificazione è attività politica).

I principi però restano immutabili se c’è una comune condivisione di filosofia di vita, di etica comportamentale, di valori fondanti di una società.

Se i principi vanni ricercati anche in ciò che è implicito nelle pieghe della legge, gli obiettivi vanno espressi e resi palesi.

E la legge fondamentale aveva anch’essa espresso i suoi obiettivi originari quando, all’articolo 1, si proponeva “di assicurare, nel rinnovamento ed ampliamento edilizio delle citta', il rispetto dei caratteri tradizionali, di  favorire il disurbanamento e di frenare la tendenza all'urbanesimo”.

Concetti che poi non paiono così distanti da quelli affermati attualmente, anche se espressi in modo sintetico in una legge di per sé laconica (ha disegnato l’assetto della materia in soli 45 articoli), con un linguaggio ben lontano da quello indubbiamente più analitico e raffinato delle leggi attuali.

L’attuale condiviso criterio del “consumo di suolo zero” (peraltro originato dalla Comunità Europea) è un obiettivo, non un principio.

 

Il contributo delle leggi regionali

Certo, a distanza di ottant’anni – in un contesto socio-economico assai diverso – è giusto parlare di rinnovamento.

Sta di fatto che – in assenza di una legge di principi che delinei il confine di competenze e principi – le regioni hanno comunque cominciato a legiferare dovendo “dedurre” i principi tra le pieghe della legislazione vigente: ed infatti la Corte Costituzionale ha inanellato una serie di sentenze chiamate a dirimere contenziosi di (vere o presunte) invasioni di campo delle regioni nel territorio giuridico riservato allo Stato.

Le legislazioni regionali più avanzate hanno avuto indubbiamente il pregio di sondare e proporre (anche in modo pionieristico) nuove metodiche, ma il fatto di dover operare in un quadro statale confuso ci sta portando a differenziazioni regionali che inducono confusione e incertezze operative.

Forse in tema di principi non abbiamo le idee chiare, non solo perché non siano stati in grado di produrre una Legge (dopo i falliti tentativi Lanzillotta e Lupi-Mantini di fine/inizio secolo), ma perché addirittura, rispetto all’ultima versione che vedeva enunciati come “principi” metodiche innovative (quali il PSC e il POC suggeriti proprio da anticipazioni periferiche), recenti leggi regionali li stanno smentendo.

 

Un dubbio

Il non avere ancora elaborato una “legge di Principi” potrebbe anche essere dovuto al fatto che tali principi sono concetti ancestrali, innati, talmente radicati nella cultura popolare che non c’è bisogno di esplicitarli (per questo si chiamano principi perché sono degli “a priori non dimostrabili e universalmente condivisi).

Se così è non c’è nessun problema. Se però così non fosse e fosse invece sintomo che non siamo sicuri di quali siano e non sappiamo identificarli, allora un po’ ci sarebbe da preoccuparsi.

Ermete Dalprato

Professore a c. di “Laboratorio di Pianificazione territoriale e urbanistica” all’Università degli Studi della Repubblica di San Marino

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