Sostenere la sostenibilità?
In italiano il verbo “sostenere” è transitivo: niente di sconvolgente, si dirà. Eppure le parole non sono innocenti, dal momento che la grammatica rispecchia in un certo modo la realtà: la descrive e la intercetta, in maniera dinamica e flessibile, adattandosi ad essa piuttosto che adattandola a sé. E così “sostenere”, in quanto verbo transitivo, appunto, ha bisogno di un oggetto a cui rivolgersi, si insegna nelle scuole. Quale oggetto, dunque, dobbiamo sostenere?
La questione cui stiamo tentando di rispondere non è oziosa, poiché serve ad orientare e a far luce su uno dei tarli che maggiormente assilla l’ingegnere contemporaneo: la sostenibilità. Cavalcando l’onda della crisi ecologica, dell’ideologia Verde e della Green Economy, il concetto di sostenibilità – come quello di ecologia, peraltro – ha fatto irruzione con prepotenza nel gergo comune del professionista che si interfaccia con problematiche ambientali. Questioni di mode, certo: una volta si parlava di alienazione e plusvalore, oggi ci si diletta con Corporate Social Responsibility e Sostenibilità. Eppure le mode, proprio in quanto mode, non si configurano solamente come vezzi stilistici: servono a catalizzare positivamente il mercato e ad attrarre ricchezza.
Nel ventaglio di questi concetti, capaci di conquistare produttori e consumatori, e che si configurano come valori in sé e per sé, troneggia anche la sostenibilità, la quale ha oramai acquisito un appeal da rivista patinata. Ed è talmente in voga parlare di sostenibilità che – neanche a dirlo – nel sentire comune si sta verificando uno scivolamento linguistico che ha portato a far coincidere la sostenibilità con la bontà, quasi fossero sinonimi. Se è sostenibile, allora è buono, si pensa: e così ci affanniamo a stilare report di sostenibilità, caratterizziamo i nostri prodotti come sostenibili, richiediamo certificazioni ed indicatori di sostenibilità, inconsciamente convinti che siano attestati di qualità incondizionata.
L’errore – se c’è un errore – è tuttavia a monte, non a valle: fino a che non avremo definito l’oggetto della sostenibilità, non saremo in grado di caratterizzarla come “buona” o “cattiva”. Anche perché forse non esiste una sostenibilità buona e una cattiva: la sostenibilità è, punto. Come per la coerenza: si può essere tanto coerenti nel bene quanto nel male; si pensi ad un impavido molto coerente: si getterà prontamente nel fuoco per salvare la vita di un amico, ma potrà anche non disprezzare l’idea di rischiare la propria vita alla roulette russa. Sempre per coerenza. E così vale per la sostenibilità: dipende dall’oggetto cui si rivolge. Sarà auspicabile la sostenibilità del riciclo dei rifiuti, delle relazioni sociali, o di un economia a misura d’uomo, ma, d’altra parte, sarà impensabile la sostenibilità di una guerra, di un uragano o di un sonno, per esempio. Nessuno di noi si sarebbe augurato che la Guerra Fredda fosse totalmente sostenibile, e proprio per questo motivo abbiamo aspirato a siglare trattati di pace duratura. La bontà dell’oggetto della sostenibilità – che perciò si definisce come sostenibile – determina così anche la bontà della sostenibilità stessa.
La richiesta di sostenibilità si configura come l’appello a mantenere un oggetto per un tempo più lungo possibile, preferibilmente in maniera indefinita: una sorta di principio di conservazione. E qui solitamente la riflessione in materia si arresta, ritenendo che si sia oramai giunti ad un punto di approdo più che saldo. Ma forse non è così. Prendiamo, ad esempio, le fonti di energia di natura fossile: perché auspichiamo la loro sostenibilità? Che cosa desideriamo veramente, che i nostri figli abbiano a disposizione la nostra medesima quantità di risorse? Che i nostri successori possano ancora fare il pieno di super? Forse questo non ci interesserà, tutto sommato, una volta che si sia inaugurata l’economia all’idrogeno sognata da Rifkin. O una volta potenziate le capacità umane di esplorazione virtuale mediante la creazione di avatar personali: il teletrasporto, dopotutto, estirpa alla radice la problematica del consumo di energie finalizzate ai nostri spostamenti.
Probabilmente – ma questa è soltanto un’ipotesi da vagliare attentamente – dobbiamo ritenere che l’aggettivo “sostenibile” debba qualificare non tanto un oggetto fisico (la benzina, il carbon fossile o l’ecosistema), quanto un’azione; e così ci rituffiamo di testa nel mare dell’etica. In buona sostanza, sono sempre le nostre azioni – e le nostre scelte – ad essere più o meno sostenibili: è sostenibile l’utilizzo di certi reattori, non è sostenibile l’utilizzo del nucleare; è sostenibile il viaggio in treno ma non quello in aereo o in auto; è forse sostenibile uno schiaffo di correzione fraterna ad un amico, ma è totalmente insostenibile il pianto di un figlio per un’intera notte.
Se la sostenibilità ha dunque come oggetto principe le azioni, allora le valutazione cui saremo chiamati sarà una valutazione etica (“è bene X”, “è male Y”, etc.), e avrà come oggetto di giudizio sia i mezzi, che i fini, che le modalità proprie di queste azioni. Il nostro motto, dunque, non sarà tanto “Sostieni X perché devi sostenere X!”, quanto “Sostieni X perché X è un fine buono, i mezzi che hai scelto sono adatti e la tua azione è ben fatta!”. È ben diverso. La ricetta: “manteniamo le risorse, perché le risorse devono essere sostenibili” è oramai da superare, forse perché non ci è neanche mai piaciuto troppo cibarci di tautologie.
La sostenibilità fine a se stessa ha fatto la sua stagione, è ora di cambiare il guardaroba. Magari proviamo a ripescare dall’armadio i vestiti vecchi della valutazione morale, tanto le mode sono cicliche. E così, sì, saremo pronti a parlare di sviluppo sostenibile – uno sviluppo sostenibile delle nostre coscienze e della nostra capacità di giudizio delle nostre (e altrui) azioni. L’etichetta della sostenibilità, dopotutto, sta iniziando a scollarsi da sola, dobbiamo solo tirare con forza uno dei due lembi. E compiere un atto, questo sì, sostenibile.