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Ivrea città industriale moderna del XX secolo

Cosa accomuna la città industriale di Ivrea al villaggio operaio di Crespi d'Adda? Uno sguardo ai due siti italiani riconosciuti Patrimonio Mondiale Unesco, luoghi in cui lo spazio della fabbrica, lo spazio del lavoro e della comunità insediata segnano un’idea innovativa di welfare e di progresso materiale.

Nel luglio 2018, all’interno dei lavori della quarantaduesima sessione del World Heritage Committee (WHC),è stato definitivamente accolto l’inserimento di Ivrea nella Lista dei beni Patrimonio mondiale dell’Unesco.

Avviata su proposta della Fondazione Adriano Olivetti nel 2008, la preparazione della candidatura era stata formalizzata nel 2012 con l’inserimento nella tentative list italiana e perfezionata all’inizio del 2016 scegliendo il tema Ivrea città industriale del XX Secolo, con l’intento di fondere insieme la dimensione dell’architettura moderna e quella del paesaggio industriale olivettiani. 

La proposta di candidatura del 2008 si presentava quale esito delle iniziative promosse per ‘Centenario della nascita della società Olivetti’, dentro un percorso di riconoscimento avviato già alla fine degli anni ’90 e strutturato su solide basi documentarie e su innovative azioni di tutela e valorizzazione: nel 2000 la catalogazione di oltre 300 edifici appartenenti a pieno titolo a tale patrimonio; la realizzazione del Maam, Museo a cielo aperto dell’architettura moderna (2001); il PRG del 2004 (Campos Venuti, Barbieri, Oliva) che ha sancito l’organicità e la storicità dei tessuti della città olivettiana interpretati come ‘città storica moderna’; le attività della Summer school ‘ISSI’ del Politecnico di Milano, che dal 2007 al 2012 hanno lavorato su traiettorie di valorizzazione del patrimonio olivettiano e delle sue architetture moderne, con una riflessione confluita in una ampia produzione documentaria e scientifica.
Ivrea. Città storica antica e Città storica moderna, foto di Paolo Mazzo F38F
Ivrea. Città storica antica e Città storica moderna, foto di Paolo Mazzo F38F

Ivrea, dunque, costituisce il 54° sito italiano riconosciuto dal WHC e, come già alcuni commentatori hanno sottolineato, il secondo che pone attenzione a un paesaggio industriale, dopo il villaggio di Crespi d’Adda a Capriate San Gervasio istituito nel 1995: luoghi del ‘900, in cui lo spazio della fabbrica, lo spazio del lavoro e della comunità insediata segnano un’idea innovativa di welfare e di progresso materiale.

Se non sembra sbagliato accumunare su questo versante tematico Ivrea a Crespi d’Adda, devono  al contempo, essere riconosciute differenze sostanziali, riconducibili al senso, alla scala e alla sostanza che i due casi presentano. Differenze che fanno di Ivrea una realtà singolare - e insieme esemplare -nel ‘campionario’ nazionale e internazionale dei beni appartenenti al patrimonio Unesco. Partiamo dalla sostanza. 

Crespi d’Adda, un villaggio operaio pre-moderno

Crespi d’Adda costituisce un vero e proprio villaggio operaio pre-moderno (la sua fondazione inizia nel 1877), riconducibile alle forme di un capitalismo illuminato e filantropico (la famiglia Crespi), che si muove con originalità agli albori della rivoluzione industriale italiana.
Un villaggio unitario, circoscritto e urbanisticamente distinto; destinato agli operai e ai lavoratori della fabbrica tessile cotoniera e per le loro famiglie; dotato di ogni struttura necessaria e  illuministicamente pianificato nel suo ‘splendido isolamento’ geografico. Sul modello delle company towns inglesi, il progetto di Ernesto Pirovano prevede un impianto ordinato e composto attorno alla fabbrica di case complete di giardino e orti,  di ville per i dirigenti, di tutte le strutture comunitarie necessarie a una armoniosa e laboriosa convivenza.
Se questo isolamento ha costituito  la condizione primaria della sua pregevole conservazione, non altrettanto si può dire della durata che segue le difficili sorti del settore tessile nei primi anni del ‘900, spegnendosi di fatto già prima del secondo conflitto mondiale.

Ivrea si differenzia dal villaggio operaio di Crespi d’Adda non solo per non essere una company town realizzata attraverso un univoco rapporto tra la  città e la fabbrica. Il progetto urbanistico olivettiano si innesta nella città eporediese traguardandola dentro un orizzonte di sviluppo di respiro territoriale; si snoda all’interno del suo paesaggio urbano e lo integra continuamente in un arco temporale di almeno quaranta anni, mettendo al lavoro un ‘laboratorio di modernità’ che stringe insieme architettura, urbanistica, visione industriale progressista e innovazione sociale.
Ivrea. Una vista delle Officine ICO di Figini e Pollini – Secondo e terzo ampliamento (1939-49), foto di Paolo Mazzo F38F
Ivrea. Una vista delle Officine ICO di Figini e Pollini – Secondo e terzo ampliamento (1939-49), foto di Paolo Mazzo F38F

A Ivrea sono riconoscibili circa trecento edifici che appartengono a vario titolo al patrimonio moderno olivettiano, di cui almeno quaranta sono ‘monumenti’ che rivestono una posizione primaria nella storia dell’architettura moderna, di cui la core area Unesco include preliminarmente gli edifici più rappresentativi disposti lungo la via Jervis, il cosiddetto decumano olivettiano. Oltre alle numerose opere che costituiscono riferimenti internazionali per la storia dell’architettura moderna, Ivrea contempla almeno tre quartieri unitari moderni di notevole dimensione (Jervis-Castellamontenella core area, Canton Vesco e Bellavista nella buffer zone Unesco), ai quali le caratteristiche di eccezionale qualità architettonica, urbanistica e ambientale attribuiscono indiscutibilmente un valore storico. Tali edifici e quartieri possono essere considerati una vera e propria antologia dell’architettura moderna italiana. Un modello atipico di città industriale moderna che si pone come alternativa concreta ai processi di industrializzazione novecenteschi e si confronta con le dinamiche della grande crescita urbana del dopoguerra.

Ivrea, una città ‘laboratorio di modernità’

Per quanto concerne la scala, il villaggio di Crespi d’Adda si raccoglie interamente dentro i suoi settanta ettari, all’interno dei quali nel periodo di massimo sviluppo poteva contare su poco meno di 3.500 lavoratori e 1.300 abitanti insediati.
A Ivrea la core area individuata in sede di candidatura include prudentemente un ambito di analoghe dimensioni, ma la buffer zone si estende per altri 478 ettari, senza contare le molte realizzazioni e decentramenti collocati in altri comuni dell’arco canavesano, che ne fanno un progetto plurale moderno di rilevanza territoriale. Non è, infine, confrontabile  nemmeno alla scala del paesaggio industriale, in quanto Ivrea è il risultato di un processo di industrializzazione urbana coniugata ai processi di produzione agricola di un territorio rurale come il Canavese, in cui si sperimenta un originale progetto di decentramento produttivo.

Ma la differenza sostanziale non riguarda solo la qualità degli edifici architettonici o la differente dimensione a cui si riferiscono i due modelli. Tale differenza è da ricercarsi nella visione industriale e sociale che sta alla base del progetto olivettiano da Camillo, attraverso soprattutto Adriano, fino a Roberto Olivetti.
Un laboratorio urbanistico, architettonico, imprenditoriale e sociale durato quasi un secolo e legato alla visione sociale e industriale di Adriano Olivetti.  
L’idea di welfare aziendale e di comunità industriale utopica che il villaggio di Crespi d’Adda restituisce è essenzialmente riconducibile al capitalismo illuminato e filantropico italiano di fine ‘800, teso a ridurre conflittualità operaia e a individuare condizioni ideali e civili per le finalità di produzione.
Il patrimonio moderno olivettiano testimonia l’unicità di un modello di imprenditoria civile, progressista e democratica, capace di abbracciare produzione industriale, dimensione umana e sociale delle comunità, architettura, design cultura e innovazione, distinguendosi per innovativi progetti industriali basati sul principio secondo cui il profitto aziendale debba essere reinvestito per il benessere di una comunità: un progetto imprenditoriale e sociale concreto e non utopico, esemplare nella storia economica italiana e mondiale della seconda metà del ‘900.

Il riconoscimento del WHC del luglio 2018 restituisce, così, da una parte pienezza storica a quel secolo breve di interventi e di realizzazioni che con grande influenza hanno inciso – e oggi continuano a incidere anche sul piano simbolico – sulla storia urbana eporediese e sull’assetto del territorio canavesano. Dall’altra cancella culturalmente quel confine che troppo a lungo ha separato il Moderno dall’idea di patrimonio storico, costringendolo, spesso, all’interno di una differente estetica, portatrice di estraneità morfologica, radicalità estetica e dequalificazione urbana. 

Paolo Galuzzi

Dipartimento di Architettura e studi urbani - Dastu, Politecnico di Milano - Direttore della rivista dell’INU “Urbanistica”

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