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Il BIM e il Cloud Design

Il BIM e il Cloud Design

Uno dei problemi più grandi che si pone di fronte a una struttura di progettazione contemporanea che voglia accedere al modo di progettazione BIM è senza dubbio il tema della “interoperabilità”: lo scambio dati, e informazioni, tra gli operatori.

Essa è sempre stata trattata in passato come mero problema tecnico: un file “architettonico” deve poter essere trasferito, con il minor numero di imperfezioni possibili, a chi deve occuparsi delle parti ingegneristiche, a chi deve occuparsi di quelle economiche, o anche a chi deve occuparsi di aspetti di cantiere, di produzione. Chiunque segua un qualsiasi progetto sa benissimo quanta parte del lavoro stia nello scambio continuo di informazioni e documenti tra strutture che non si trovano nello stesso luogo, e quanto i tempi di aggiornamento, ricezione, valutazione siano gran parte del lavoro quotidiano di network di operatori che vengono assemblati in modo diverso per le diverse occasioni: tender, gare, concorsi di progettazione, gruppi di progettazione, esecuzione, monitoraggio.

Qual’è il rapporto tra la importante mole di dati collegata ai modelli BIM, che danno evidenza a una serie di relazioni, e questo scambio continuo, fatto anche di intederminatezza, rimpallo di responsabilità, di attività lavorative? Chi se ne assume il “carico”?

Nelle esperienze pionieristiche, c’è sempre un sovraccarico da parte della struttura che intende spingere l’innovazione, e che concentra su di sé il carico di modellazione più importante, che sintetizza dati essenziali al controllo del processo. Cosa generalmente più semplice da ottenere in ambiti come quello dell’architettura più tradizionalmente legati a questo tipo di modellazioni e alla loro gestione anche temporale, non sottoposta a strette rendicontazioni. “Our labour is cheaper” ha detto uno dei componenti del gruppo di progettazione dello studio SHoP Architects, di New York, impegnato a sperimentare in prima persona i nuovi metodi di progettazione. Nel loro caso, poi, l’esigenza di controllo del processo si legava alla possibilità di realizzazione di forme complesse, non sempre accettate dalle imprese, timorose della incertezza collegata. “Ogni nostro progetto inizia soprattutto al telefono”, era un altra delle frasi chiave del loro lavoro.

Img 1 - BIM -scape - Progetto MEIS - A sinistra: elaborati impiantistici, a destra la corrispondente vista del modello BIM

In Italia ci sono strutture che hanno scelto di intraprendere la strada del BIM e cercano per questo relazioni con altri su cui basare uno scambio di alto livello. Ma allo stesso tempo devono occuparsi di “fill the gap”: di fare un coordinamento richiesto a chi deve mettere in campo un modello di sintesi, anche quando certe informazioni latitano. Lo ha fatto e lo sta facendo, solo per fare un esempio, lo studio -scape, che ha deciso coraggiosamente di lavorare in BIM sull’appalto pubblico del nuovo museo MEIS di Ferrara fin dalla fase definitiva. E che ha scelto di rendere un servizio anche al proprio committente facendo una integrazione e verifica degli elaborati provenienti dalle diverse sorgenti. E che sta ora intessendo rapporti professionali con una rete di società e studi interessati ad evolvere il proprio metodo di lavoro, o che già stanno sperimentando metodi di lavoro BIM.

Img 2 - BIM -scape - Progetto MEIS - sopra: Il modello HVAC e Plumbing con un “sistema selezionato”
sotto: una verifica di clash detection attuata via web e condivisa con i consulenti.

Dietro a queste strutture di dati, quindi, ci sono e ci devono essere dei rapporti di lavoro: chiunque inizi a lavorare con strumenti o con un metodo BIM mette le relazioni, la raccolta e la gestione di dati al centro del proprio interesse. Il tema “politico” è al centro di questi processi.
Ma lo è anche quello della forma professionale.
Strumenti digitali come quelli che vengono continuamente raffinati, infatti, aprono la strada alla possibilità che chi non si occupava prima di certi argomenti possa in qualche modo interessarsene. Il software è il “ponte” verso conoscenze altre, per la semplice caratteristica di stabilire un linguaggio comune, condivisibile. Ma soprattutto perché stabilisce un ponte verso la simulazione: costruttiva, energetica o economica che sia. E lo fa con un elemento, il 3D, potenzialmetne sintetico. In un processo, e un’epoca, continuamente soggetti a distrazione.

Proprio sui “digital bridges” si basava uno dei più innovativi programmi di ricerca della prima scena digitale, il “Product Architecture Lab” dello Stevens Institute of Technology, che non a caso metteva insieme ingegneria, product design e architettura su un terreno comune basato sul software, e sulla costruzione di procedure personalizzate per lo scambio e l’analisi in tempo reale. Installato, non a caso, in una scuola di ingegneria. E mirato a rompere le barriere disciplinari per costruire figure professionali “nuove”.

Img 3 - Le schema di curriculum del programma PAE dello Stevens Institute of Technology

Chi costruisce certi modelli non può essere un “disegnatore”, o per aggiornare i termini ai tempi un “BIM Monkey”: modellare un impianto, o una carpenteria, o un rivestimento, significa conoscerlo, o imparare a comprendere quanto dagli altri proviene. Alcuni sostengono che la soluzione sia ancora una volta da affidarsi allo specialismo: solo un tavolo di specialisti può arrivare alle soluzioni.
La pratica e l’osservazione dei processi in cui siamo stati immersi ci mostra al contrario come l’estensione delle interazione e l’espansione delle competenze generino nuove figure professionali, che appunto incarnano il ruolo che questi modelli, queste procedure permettono.
E la formazione può giocare un ruolo chiave, soprattutto se attuata sul campo.
Ce lo dice l’esperienza del Solar Decathlon Europe, a cui il nostro team universitario, coordinato dalla Università Roma Tre, ha partecipato da quattro anni, con diversi studenti e professionisti coinvolti, in cui la struttura del gruppo di lavoro era basata proprio su una strutturazione “cloud” del gruppo di lavoro, in cui gli studenti erano formati per costituire figure ponte tra il modello centrale, multiutente, e tutti gli altri modelli e informazioni che venivano generate a contorno.

Una struttura di “cloud design”, che ha dovuto fronteggiare i momenti più difficili proprio nella capacità di aggiornamento delle informazioni di progetto lungo tutto il processo.

Img 4 - Lo schema di Cloud Design del team “RhOME for DenCity” per Solar Decathlon 2014, a Novembre 2013. Al centro i modelli, in blu le “figure ponte” descritte nel testo.

La capacità di sintesi dei ragazzi si è dimostrata molto alta, e la corrispondente qualità dei progetti ha una grande percentuale affidata alla sinergia alta tra le componenti, e sul coinvolgimento di tutti i partecipanti oltre i propri recinti disciplinari. Questo ha dato qualità e profondità all’architettura, ma anche alla strategia energetica, costruttiva, alla logistica.
Un meccanismo complesso, a cui in fondo non così inaspettatamente, proprio la capacità di sintesi e di flessibilità della nostra cultura ha dato un apporto decisivo, in un contesto sicurametne favorito dall’aspetto speculativo e di innovazione, ma non scevro da tempistiche, tutte piuttosto strette e contingentate.
Il software si sta evolvendo rapidamente, e la cultura professionale sta seguendo sviluppi analoghi, questo, se non definisce ancora una soluzione certa, di certo definisce però un interessantissimo campo di indagine, ricerca e pratica professionale, con la maggiore integrazione possibile.

 

 

Stefano Converso

Research Fellow - Parametric Design in Contemporary Practice, Adjunct Professor of Parametric Design, Università degli Studi Roma Tre - Dipartimento di Architettura

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