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Stili di leadership ed allenamento

i diversi stili di leadership in un'azienda

Quale la scelta migliore?

Gli stili manageriali sono in parte legati alle attitudini determinanti della personalità, in parte frutto di un lavoro di consapevolezza ed esperienza del contesto organizzativo insieme. Le aziende richiedono flessibilità negli stili manageriali, che sono conseguenza di apprendimento sul campo e feedback puntuali dei propri collaboratori.
 
“Wolfang Amadeus Mozart fu educato fin dalla primissima età da maestri estremamente motivati e intelligenti. Non nacque esperto – lo divenne” HBR n. 9 settembre 2007
 
Esistono molti stili di leadership perché esistono molti contesti organizzativi che richiedono atteggiamenti e comportamenti differenti.
Daniel Goleman, scrittore, psicologo statunitense con due nomination al premio Pulitzer, ne parla e li definisce come sei capacità di influire sulle persone, aiutarle a lavorare meglio per raggiungere uno scopo finale, comune. Il contesto organizzativo può essere quello di un’azienda ultra dinamica, in sviluppo verticale del business come quella di Google, con persone di età media 25-35 anni; oppure quello di un’azienda metalmeccanica di terza generazione dove il passaggio dal fondatore e poi ai figli e da loro ai fondi di private equity, ha modificato le persone ma non la mission. Il prodotto ha subito negli anni un invecchiamento dovuto alla scarsa innovazione, le persone hanno un’età media più elevata, ed il turn-over aziendale è stato scarso o nullo negli ultimi 15 anni.
La leadership cambia quindi in funzione di variabili organizzative e di variabili soggettive: come la maturità dei collaboratori, il tipo di business, il clima della concorrenza, le preferenze nei processi di decisione e le dinamiche dei team di lavoro.
Inoltre non esiste uno stile di leadership giusto ed uno sbagliato ma uno stile che sia funzionale agli obiettivi e scopi dell’azienda ed alla motivazione delle persone. In ogni caso il leader dovrà fare i conti con aspetti di sé stesso relativi alla propria gestione emotiva ed allo stress. In alcune situazioni l’eccesso di lavoro potrà far reagire con la frustrazione di non riuscire ad arrivare a tutto e allo stesso tempo si può avere la pretesa di voler fare bene, tutto e subito! Probabilmente farà lavorare tutti in extra-time. Lo stile diventerà autoritario o cosiddetto pusher perché si pretenderà, non si chiederà alle persone di svolgere un normale compito. Questo automaticamente ingenererà scarsa fiducia, qualche conflitto e demotivazione diffusa. Prendersi il tempo per riflettere sullo stile di leadership adeguato a quella specifica situazione, considerare che il pusher non è quello giusto, quanto invece uno stile più morbido e supportivo come quello di coach è questione di “scelta prudente” (vedi articolo Ingenio di M.T.Russo). Lo stile coach è uno stile che sa delegare compiti e chiedere di lavorare su alcuni problemi le persone che ne hanno voglia e competenza. Porta maggiori risultati e fa sentire le persone utili, creative, corresponsabili. Altri esempi di inadeguatezza dello stile di leadership adottato si ha per esempio quando un capo agisce uno stile visionario in un contesto di crisi in actu. Avrà conversazioni con i collaboratori sulle loro aspettative organizzative ideali, incoraggerà nel protendersi verso scopi ambiziosi, mentre l’azienda deve rispondere nell’immediato a crisi dei mercati, sfiducia dei consumatori e magari tagli delle risorse umane. Lo stesso stile invece è fondamentale in fase di rilancio di un gruppo, quando si fa intravvedere alle persone, la coerenza tra quello che realizzano e potrebbero fare in futuro, una ricaduta magnifica sul clima e le relazioni reciproche.
Una volta in un azienda ho visto identificato perfettamente un capo, anche leader, con lo stile che in quel momento incarnava lui e si rispecchiava, a cascata, in tutte le persone dell’azienda. Lo stile è cosiddetto di tipo affiliativo: cioè di persona che lavora con empatia verso l’altro, trasferisce energia emotiva che trova in sé stesso, contagiando i gruppi. Si prefigge come obiettivo principale quello di supportare, con qualunque mezzo. Non è manipolativo, ha uno spirito positivo ed ottimista, non ha altri intenti. L’azienda viveva un momento di cambio di successione e lui, che faceva capo, cercava di comprendere le motivazioni e le aspettative di ciascuno. Investiva nel costruire relazioni con i suoi riporti più vicini, le dieci persone con cui aveva un tempo fisso ogni giorno. Tempo dedicato ai singoli ed ai loro gruppi. Si sforzava di capire i bisogni reali, personali e professionali delle sue dirette persone e delle loro aree di responsabilità.
Per evitare fraintendimenti ed idealizzazioni: lo stile autoritario non è sbagliato a priori, mentre invece lo stile affiliativo è giusto. Paolo per esempio, che lavora come responsabile della sicurezza di un organo di vigilanza dei Giochi Olimpici di un paese accogliente con cui collaboravo, distribuisce nelle sue riunioni direttive precise, ne richiede l’esecuzione ed il feedback in tempi scanditi e rigorosi stabiliti da lui stesso. Nelle riunioni successive informa tutti degli errori commessi, di eventuali cali di performance, per un miglioramento incrementale dell’attività, in modo da tornare agli standard di eccellenza su cui si era impegnato in prima persona nel garantirne l’esecuzione. Controllare da vicino le persone, sostituirle e dare loro qualunque tipo di supporto era ciò che ciascuno di loro si aspettava, la macchina era perfetta. In quel periodo l’allarme terrorismo era alto ed il controllo doveva essere più che garantito senza lasciare nulla al caso. I suoi collaboratori erano fit con lo stile del capo, ne sentivano il supporto, il rigore e ne riconoscevano autorità ed autorevolezza senza mai lasciarsi andare a gossip, che sono la disfunzione di un feedback che non si riesce a dare all’interessato. In questo preciso contesto, se Paolo si fosse detto “ora uso uno stile democratico, cosi mi vedono più buono!”, avrebbe iniziato ad ascoltare esternazioni, opinioni, preoccupazioni, stimolando decisioni collettive in modo da favorire un consenso unanime. Tutto questo avrebbe rallentato drammaticamente i tempi di delivery, avrebbe reso confuse le persone che avevano bisogno di sapere cosa fare e/o non fare rispetto ai piani stabiliti. L’ascolto richiede tempo, mentre il contesto richiedeva direttive chiare e forti, da eseguire in tempi certi. Il suo stile era quindi vincente e Paolo era adeguato al contesto ed alle aspettative di ruolo della sua organizzazione. Nessuno lo ha mai accusato di mobbing e nessuno lo avrebbe voluto in un modo diverso.
Infine uno stile alle volte incompreso, come i comportamenti di chi lo esercita. Si tratta dello stile di leadership battistrada. Penso a Pietro ed all’azienda che ha fondato insieme alla vision eccellente di altre persone vent’anni fa. Penso agli standard ambiziosi, innovativi ed alle performance che immaginava e che si è adoperato per anni ad implementare, le pratiche virtuose di collaborazione che ha contribuito a creare, le reti in ambito Education che ha consolidato a livello internazionale. Ha cercato solo il meglio, per importarlo, cambiarlo ed adattarlo al contesto. Le performance insoddisfacenti dei collaboratori le ha sempre tollerate poco e male ed è per questo che ha uno stile da battitore libero, da testa di ponte, da imprenditore per il bene comune. Ora che le cose si sono avviate ed iniziano a camminare con le loro gambe, le politiche da lui adottate non hanno bisogno di questo stile che resta comunque quello di un cow boy che, come John Wayne è una leggenda! Sarà lui a modificarsi nello stile o sarà un altro con altro stile a portare avanti l’impresa? Lui è convinto che nel primo caso ci sia dell’apprendimento da fare e la motivazione a farlo è una sua priorità.
Esperti dunque non si nasce, si diventa! Nuove ricerche dimostrano che le prestazioni eccellenti, più che da un innato talento o capacità, nascono da anni di pratica e dalla guida di un maestro. Il n. 9 di HBR del settembre 2007 dice che la maggior parte delle persone che aspirano alla leadership, non ha mai partecipato a competizioni di livello nazionale o internazionale, per cui non ha idea di quanto serva per giungere a tali livelli. A chi non è dell’ambiente sportivo o agonistico in genere, può sembrare che le prestazioni degli esperti siano eccellenti a seguito di un esercizio quotidiano costante di anni o addirittura di decenni. Tuttavia, il vivere in una cava non fa diventare automaticamente dei geologi! Non sempre l’esercizio porta alla perfezione. Per diventare degli esperti e per sviluppare la competenza, occorre un particolare tipo di pratica, una pratica metodica e di un maestro. Il tennista Agassi nel suo libro Open, ce ne dà una idea. Ogni tipo di arte e scienza ha bisogno di almeno 10.000 ore di allenamento direbbe Malcom Goldwell, per diventare professionista in un campo qualunque. Tale pratica richiede degli sforzi considerevoli, specifici, e duraturi volti a raggiungere un obiettivo misurabile, ri-misurabile, che prima non poteva essere raggiunto. Questo tipo di pratica metodica può essere adattata a parecchi scenari del mondo della leadership. Un esempio efficace è quello degli studi di caso offerti da molte scuole di business, che creano le condizioni di come agire in problematiche di vita reale. Aiutano però a conoscerne le conseguenze attraverso l’osservazione dei feedback immediati rispetto alle loro scelte. In questo modo, gli studenti possono esercitarsi nel prendere decisioni dieci–venti volte alla settimana. Le simulazioni di guerra nelle accademie militari hanno la stessa funzione, ponendo gli allievi di fronte a situazioni in cui analizzare azioni funzionali o meno al contesto ed individuare le decisioni da presentare agli ufficiali; questo tipo di situazioni caratterizzate da un immediato feedback sviluppano, in chi le sperimenta, capacità di leadership perché incoraggiano ad applicarsi metodicamente in aree sconosciute. Le ricerche in diversi campi mostrano che solo lavorando su ciò che non siete capaci di fare vi trasformate negli esperti che vorreste diventare!
 
Parole chiave: leadership, stili, contesto organizzativo, emozioni, allenamento, collaboratori.
 

Biografia: Sono Trainer certificato per Accenture-Usa e Lore International Institute, insegno People Management e Personal Development in Scuole di Formazione Aziendale come il Politecnico di Milano. Sono Executive Coach, PCC per I.C.F. e Certificata MBTI® OPP Europe con oltre 2000 ore di sessioni individuali e di gruppo. Sono Indipendent Expert per la D.G. EACEA di Bruxelles. Infine sono laureata in Giurisprudenza e Psicologia del Lavoro.