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La Fine di un Mondo?

Una riflessione di Angelo Ciribini

La drammatica e repentina crisi strutturale, dalle dimensioni ancora non esattamente valutabili, che sta affliggendo, tra gli altri, anche il settore della costruzione e dell’immobiliare non potrà certo risolversi semplicemente in auspicati e auspicabili investimenti pubblici e partenariali salvifici, tesi a conservare il pur incerto stato precedente delle cose.

Non basterà, infatti, «riaprire i cantieri», o meglio, aprirne di nuovi.

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È necessario, in effetti, porsi, in via definitiva, una serie di annosi interrogativi, che sollecitano una profonda riconfigurazione del settore, quesiti sinora differiti e, in ultima analisi, neutralizzati spesso in retoriche di prammatica sull’innovazione.

In questo momento, al contrario, occorre domandarsi seriamente se i valori del nuovo ambiente costruito, o meglio della nuova cultura industriale nel comparto, improntati a digitalizzazione, decarbonizzazione, circolarità, sostenibilità, innovazione sociale, possano davvero essere compatibili con uno scenario impregnato di atomizzazione dimensionale, conflitto identitario, riluttante cambiamento, e così di seguito.

Come reagire di fronte a una improvvisa accelerazione di tematiche che, se accettate realmente, non possono che causare un profondo rivolgimento negli assetti inveterati del settore?

Sarà davvero possibile, entro questa improvvisa dinamica, traghettare interamente il comparto, incluse le micro e le piccole organizzazioni, probabili destinatarie degli esiti nefasti della recessione, in un contesto inedito in cui, appunto, condizioni eccezionali costringeranno a evidenziare per ciascun soggetto quale sia il valore autentico da esso generato per riposizionarsi e non perire?

Le si potrà davvero supportare, addirittura «salvare», confermandole nell’ambito autoreferenziale della frammentazione dei micro e dei piccoli interventi privi di una regia complessiva?

Sara possibile valorizzare, in ogni caso, le medie organizzazioni professionali e imprenditoriali strutturate e modernizzatrici che si stavano affermando prima della crisi?

Se, perciò, si volesse effettivamente far recitare, in maniera proattivo, al settore un ruolo di motore cruciale della ripresa, o meglio della ricostruzione, sociale ed economica del Paese, dopo la pandemia, non si potrebbe che auspicare che emerga una forte capacità strategica, capace di far intravedere logiche sistemiche di medio e di lungo periodo, con visioni inedite.

La traslazione, del resto, per il settore, della generazione di valore e di marginalità dall’universo tangibile del costruire a quello immateriale dell’esperire nei cicli di vita e delle vite (del relazionarsi in una nuova spazialità: nel modo problematico del distanziamento, mentale ancor prima che fisico), universo intriso, quest’ultimo, di valenze ambigue sulla possibilità che i servizi digitalizzati al vissuto delle persone si tramutino in sorveglianza delle stesse, è una sfida epocale che farebbe sì che gli attori si attrezzassero assai diversamente rispetto agli orizzonti loro noti.

Un settore che riproponesse i paradigmi e gli armamentari tradizionali rinuncerebbe, infatti, a recitare il ruolo da protagonista nei tempi post-emergenziali che sono attesi.