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Come cambierà la progettazione del Sistema edificio-impianto dopo la pandemia

COVID-19: analisi dell'ing. Rollino su cosa cambierà nella progettazione energetica ed impiantistica

Dopo l'emergenza COVID-19 cambieranno molte cose, tra queste anche la progettazione del sistema edificio-impianto soprattutto, per quanto riguarda la realizzazione e manutenzione degli impianti HVAC in chiave anticontagio. Con l'ing. Luca Rollino un'interassante analisi degli effetti che questa pandemia sta portando anche nel campo dell'impiantistica, convinti che solo un approccio integrato possa rispondere alle necessità di ogni singolo edificio. 

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«Nulla sarà più come prima»

Molto spesso si abusa di questa frase, ma è probabile che nella situazione in cui ci troviamo possa essere particolarmente adeguata.

La pandemia che ci ha colpito, e che ci costringe ad una lunga permanenza tra le mura domestiche, a detta di molti esperti, avrà conseguenze molto importanti su tutti gli aspetti della nostra vita, personale e professionale.

Cosa cambiera nella progettazione energetica ed impiantistica

E, penso, avrà conseguenze importanti anche in un ambito specifico, ovvero quello della progettazione energetica ed impiantistica.

In realtà, non mi sono reso conto immediatamente dell’incidenza molto forte sulla progettazione del sistema edificio-impianto e, soprattutto, sulla realizzazione e manutenzione degli impianti HVAC.
Non me ne sono reso conto sino a quando non è stato richiamato dalla prof.ssa Ilaria Capua (nota virologa, luminare in materia) durante un suo intervento televisivo, uno studio secondo cui gli impianti ad aria possono essere causa di trasmissione del Covid 19.

Se questo fosse vero, sarebbe la rivoluzione, perlomeno in ambito impiantistico.

Per capire cosa è vero, e cosa è invece non lo è totalmente, e, soprattutto, per derivarne un insegnamento reale e pratico per il futuro, procediamo per gradi, muovendoci per piccoli passi tra medicina e ingegneria.

Partiamo dal virus, o meglio dai virus, e dalle modalità di contagio

Le modalità di trasmissione dei virus sono varie, ma a noi ne interessano essenzialmente 2: la trasmissione aerea e la trasmissione aerea tramite quelle che con terminologia inglese vengono definite «large droplets», ovvero le goccioline di saliva che espelliamo tossendo o starnutendo.
Per chiarezza, quest’ultimo è il caso del Covid 19 (oltre ad altre modalità di trasmissione che in questo caso esulano dal nostro interesse). In parole povere, se sono contagiato e non “non apro bocca”, non contagio nessuno, mentre se parlo e starnutisco posso contagiare quanti sono ad una distanza sufficiente.

Tale distanza si può calcolare con un modello fisico, che è stato impiegato largamente per studiare la diffusione dei contagi all’interno degli ambienti chiusi (un articolo su tutti: Ghia, U. & al., Assessment of Health-Care Worker Exposure to Pandemic Flu in Hospital Rooms, ASHRAE Winter Conference 2012).

In generale, come la stessa professoressa Capua ha illustrato, affinché ci sia un contagio, non basta “assorbire” una particella, ma serve una certa dose infettante di virus, ovvero una quantità sufficiente affinchè un virus possa rendere malato un sistema vivente. Volendo nuovamente semplificare, non basta che qualcuno tossisca, ma è necessario che vi tossisca maleducatamente addosso.
Anche in questo caso, esiste un modello matematico che descrive l’infezione. Tale modello può essere riassunto nell’equazione proposta da Riley and Nardell, che si concretizza nell’equazione di Wells & Riley:

C = S (1 – e–Iqpt/Q)

Dove:

  • C è il numero delle nuove infezioni
  • S è il numero dei soggetti “contagiabili”
  • I è il numero dei soggetti “contagianti” (al tempo dei Promessi Sposi li avrebbero definiti untori)
  • q è il numero di dosi “infette” immesse nell’aria ambiente
  • p è la ventilazione polmonare richiesta per ogni soggetto “contagiabile”, espresso come portata in volume
  • t è il tempo di esposizione
  • Q è il tasso di ventilazione di aria di rinnovo o disinfettata

La dose infettante di cui parlavamo poco sopra è legata alla “Iqt/Q” della nostra equazione: dato per scontato che ciascuno di noi deve respirare per vivere, o stiamo poco in un ambiente, o in questo ambiente non ci sono “untori” o vi è un fortissimo rinnovo dell’aria.

A parità di condizioni, questo si può ottenere o aumentando le superfici di immissione dell’aria in un ambiente, o aumentando la velocità dell’aria immessa, o facendo entrambe le cose. 

Questo è l’unico intervento tecnologico attuabile, con però dei limiti legati al comfort interno, al rumore e ai consumi energetici. È anche l’intervento più immediato, per il quale sono già stati pubblicati interessantissimi articoli che dimostrano come l’aumento della portata di aria di ventilazione riduca il rischio di contagio negli ambienti chiusi (su tutti, consiglio gli scritti di Michele Vio). Da notare che in Italia, con la quarantena, si punta essenzialmente a ridurre il valore “I”, distanziando le persone, ed il tempo “t”, vietando gli assembramenti.  Con l’uso diffuso di mascherine si riduce il termine “q” (le dosi infette nell’aria).

Se fosse così, nulla di particolarmente complesso.

La relazione tra impianto HVAC e diffusione del virus all’interno degli ambienti chiusi

Peccato però che esista uno studio fatto dal Guangzhou Center for Disease Control and Prevention (liberamente consultabile sul web) secondo cui ci sarebbe una relazione tra impianto HVAC e diffusione del virus all’interno degli ambienti chiusi.

In particolare, lo studio ha preso in considerazione il contagio avvenuto all’interno di un ristorante cinese in cui un soggetto, a causa dell’impianto di ventilazione, ha contagiato tutti coloro che erano seduti nei tavoli vicino al suo. È però fondamentale prestare attenzione alla terminologia usata dagli autori: cito testualmente, «in this outbreak, droplet transmission was prompted by air-conditioned ventilation. The key factor for infection was the direction of the airflow». 
Quindi, non è l’impianto a diffondere il contagio, ma la tipologia di impianto (ad aria), la sua progettazione di dettaglio (portata, velocità dell’aria, collocazione dei terminali di emissione) e, soprattutto, la direzione del flusso d’aria. In sé, la notizia non sarebbe preoccupante: intanto perché è statisticamente poco rilevante (un caso non è significativo), ed in secondo luogo perché potrebbe essere un impianto “mal progettato e/o mal gestito”, e di conseguenza non si ha evidenza che in caso di corretta progettazione e/o gestione le cose sarebbero andate in modo analogo.

Quindi, primo “learning point”: nella peggiore delle ipotesi, quanto riscontrato dagli studiosi cinesi dimostra che l’impianto di ventilazione ha rappresentato un “amplificatore” del contagio, e non la causa del contagio rappresentata invece “dall’untore” che tossiva al tavolo del ristorante.

Secondo “learning point”: se ho un impianto di condizionamento ad aria o un impianto di ventilazione, qualche attenzione in più è meglio che la dedichi. In tale caso, molto utile è il ricorso alle raccomandazioni date da AICARR per la gestione dei luoghi di lavoro cui siano asserviti impianti a tutt’aria.
Tra le varie accortezze, vi è anche quella di aumentare la portata d’aria e di utilizzare solo aria esterna per l’immissione all’interno degli ambienti.
In alternativa (e questo lo dice ASHRAE, in uno studio di qualche anno addietro: Leach, T., Scheir, R., Ultraviolet Germicidal Irradiation (UVGI) in Hospital HVAC Decreases Ventilator Associated Pneumonia, ASHRAE Winter Conference 2014) si può dotare l’impianto di un sistema germicida ad ultravioletti, tanto efficace quanto costoso.

PER APPROFONDIRE Riduzione del rischio SARS-CoV2-19 mediante gli impianti di climatizzazione e ventilazione esistenti: le indicazioni di AICARR

Terzo “learning point”: gli impianti che movimentano aria devono essere progettati sempre in ottica “worst case” (ovvero secondo il “principio della massima sfiga”). Si deve considerare che in un mondo globalizzato, diventa sempre più plausibile l’ipotesi di diffusione di malattie aliene al contesto specifico, trasmissibili per via aerea tramite goccioline di saliva, e gli impianti ad aria mal progettati e/o realizzati e/o mal gestiti possono essere almeno un limite molto forte per la fruizione degli spazi.
A titolo di esempio, si pensi cosa implicherebbe in Italia se lo studio cinese fosse confermato: negli ambienti chiusi con sistemi ad aria, la distanza minima non potrebbe più essere 1.5 m ma decisamente un valore più alto, funzione della velocità di movimento dei flussi. In poche parole: un delirio peggiore delle autocertificazioni governative.

Quarto“learning point”: dobbiamo cambiare totalmente l’approccio alla progettazione del sistema edificio impianto.  E lo dobbiamo fare pensando alla mitologica “Legge di Murphy”: quanto è successo potrebbe accadere di nuovo, e potrebbe essere pure peggio.

Come cambieranno gli impianti dei nostri edifici

Da qui in avanti, lasciamo i virus e torniamo al “building system” cui tutti (il sottoscritto in primis) abbiamo maggior affinità.

Si parta, come sempre, dal passato (“Historia Magistra Vitae”, diceva Cicerone nel De Oratore).

Esisteva ad inizio Novecento una pubblicazione, “L’ingegneria sanitaria”, che, a dispetto di quanto potrebbe far pensare il nome, trattava in modo analitico e scientifico la progettazione degli edifici in un’ottica di salubrità e di comfort degli occupanti. Senza volersi dilungare, l’aspetto che maggiormente veniva ripetuto ai progettisti dell’epoca era che dovevano considerare“sporchi” gli ambienti. In effetti, talierano i locali pubblici (uffici, scuole, ospedali) dell’Italia giolittiana, frequentati da una popolazione poco avvezza all’igiene personale (ricordo ai più che all’epoca ci si lavava… cambiandosi frequentemente i vestiti e la biancheria, da cui l’intenso lavoro delle lavandaie).  In tali ambienti si dovevano evitare impianti che movimentassero grandi quantità di aria, magari in flusso turbolento, per impedire una diffusione di polveri e batteri.

Facendo un salto repentino ai giorni nostri, tale raccomandazione è stata “dimenticata” in quanto la maggior pulizia degli spazi e delle persone, e un livello tecnologico inimmaginabile all’epoca, hanno reso di fatto trascurabile l’esigenza di non movimentare l’aria, consentendo la realizzazione di impianti a tutt’aria (a portata fissa o variabile) per tutti quegli ambienti per cui l’Indoor Air Quality (IAQ) fosse uno dei requisiti fondamentali. In pratica, al sistema ad aria si demanda sia il mantenimento dell’IAQ, sia la garanzia della corretta temperatura (e umidità relativa) degli spazi confinati.

Tutto questo è stato vero sino ad oggi.

Dopo la pandemia, la proposta acritica di un impianto a tutt’aria, scelto in base alla semplice esperienza pregressa, deve quantomeno essere evitata. Con questo non si deve mettere al bando una tipologia impiantistica a favore di un’altra in modo definitivo. Semplicemente si deve iniziare a riflettere sul fatto che non esiste una risposta univoca a chi chiede quale sia il miglior impianto per un ospedale o per un ufficio, ma l’unica risposta possibile è “dipende”.  Cosa che irrita, e non poco, chi ha un approccio deterministico alla professione.

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