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Il rispetto delle distanze tra pareti finestrate: spunti di riflessione

L’obiettivo del presente contributo è quello di rappresentare un quadro di riferimento per riassumere e approfondire la materia sulle distanze tra pareti finestrate ai sensi dell’art. 9 del D.M. 1444/1968 cercando di offrire spunti di riflessione volti a comprendere l’ambito applicativo/giurisprudenziale della disposizione.


L’art. 9 D.M. 1444/1968: destinatari e ratio

L’articolo 9 del D.M. 1444/1968 si occupa delle c.d distanze minime intercorrenti tra fabbricati, distinguendo, fra le varie zone territoriali omogenee, come definite dall’art. 2 del D.M. 1444/1968, i differenti limiti inderogabili.

In primis, la platea di destinatari a cui si rivolge la norma sono:

  1. da un lato, gli enti comunali, i quali devono attuarla in sede pianificatoria in linea con il disposto dall’art. 41 quinquies della Legge Urbanistica n. 1150 del 1942. Difatti i Comuni devono sempre attenersi alla previsioni di cui all’art. 9 potendo solo prevedere distanze ulteriori e maggiori rispetto a quelle oggetto della norma ma mai inferiori. Ciò comporta, ad esempio, che la prescrizione dell’art. 9 avente carattere sovraordinato rispetto agli strumenti urbanistici locali, può da sola fondare l'annullamento di un titolo edilizio non rispettoso della disciplina afferente alla distanze.
  2. dall’altro lato, i soggetti privati, che non possono derogare alla norma nemmeno mediante accordi intersoggettivi, in quanto la materia afferente alle distanze, come dettata dalla normativa di settore del D.M. 1444/1968, è volutamente sottratta alla disponibilità derogatoria da parte dei privati.

Quanto al livello contenutisti e applicativo la disposizione in esame afferma:

  1. in relazione alla zona A) (intesa come “parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestano carattere storico, artistico e di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi”) che “per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale”;
  2. in relazione ai soli “nuovi edifici” ricadenti in zone diverse da quelle A), che “è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”;
  3. in relazione alla zona C) (intesa come “parti del territorio destinate a nuovi complessi insediativi, che risultino inedificate o nelle quali l'edificazione preesistente non raggiunga i limiti di superficie e densità di cui alla precedente lettera B”) che “è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all'altezza del fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a ml. 12”.

Dunque, la norma si interessa delle varie distanze minime da rispettare sia nel caso di fabbricati esistenti - zona A) e C) - che di “nuovi edifici ricadenti in altre zone”.

La ratio e l’importanza dell’art. 9 risulta di facile comprensione, difatti la logica sistematica è volta ad evitare che tra edifici con pareti finestrate si formino delle intercapedini in grado di pregiudicare la salubrità dei luoghi.

In buona sostanza, vi è, quanto meno, una doppia tutela:

  1. da un lato la salvaguardia degli interessi ambientali (art. 9 e 41 Cost.);
  2. dall’altro la salvaguardia della salute (art. 32 Cost.).

Proprio in forza della primarietà degli interessi tutelati, la giurisprudenza, in maniera del tutto univoca, afferma natura inderogabile della disposizione.

Il massimo consesso della giustizia amministrativa afferma infatti che “La disposizione contenuta nell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, in virtù della quale la distanza tra edifici antistanti deve essere di dieci metri, ha carattere inderogabile, poiché si tratta di norma imperativa, la quale stabilisce in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza” (Consiglio di Stato sez. IV, 16/09/2020, n.5466).

Tuttavia, questa rigidità è stata oggetto di un parziale temperamento da parte della medesima giurisprudenza che ha ritenuto potersi applicare alla materia il principio di proporzionalità, per cui la norma, a livello operativo/pratico, deve essere calata nel caso concreto per valutare, di volta in volta, se si possa operare un bilanciamento tra i vari interessi in gioco:

  • privatistici, identificati nella opportunità di poter edificare e/o modificare i fabbricati/immobili di proprietà;
  • pubblicistici, aventi natura generale, al mantenimento della salubrità dei luoghi.

In questo modo, nel silenzio delle norma, il formante giurisprudenziale ha provato ad evitare situazioni di palese irragionevolezza pratica, “derogando” (rectius attenuando), in determinati casi, all’inderogabilità prevista dalla stessa disposizione.

Sul punto si deve infatti evidenziare l’arresto giurisprudenziale che, sebbene solitario nel suo genere, ha ritenuto “Il vincolo della distanza minima deve però essere applicato secondo il canone di proporzionalità, ossia nei limiti necessari a prevenire il degrado igienico-sanitario. Di conseguenza, il rispetto puntuale della distanza minima dalle pareti finestrate non è necessario se non vi siano pericoli di peggioramento delle condizioni igienico-sanitarie nelle abitazioni servite dalle finestre. Questa situazione può verificarsi quando non vi sia esatta corrispondenza tra il nuovo muro e la contrapposta parete finestrata, oppure quando attorno a quest’ultima rimanga comunque spazio sufficiente per conservare l’aerazione e l’illuminazione” (cfr. TAR Brescia, sez. I, 9 febbraio 2016, n. 229).

Alla luce di tale isolato orientamento diviene, dunque, fondamentale la valutazione puntuale e specifica della situazione di riferimento per comprendere quei casi concreti in cui la deroga alla distanza non comporti effettivi pericoli di peggioramento delle condizioni igienico-sanitarie e/o di formazione di intercapedini dannose/nocive.

Il rispetto delle distanze tra pareti finestrate: spunti di riflessione

Il presupposto applicativo dell’art. 9 per le “nuove costruzioni”: la parete finestrata. Cosa si intende? La distanza deve essere rispettata anche nel caso di una sola parete finestrata?

Il presupposto indefettibile per la corretta applicazione la norma in esame è che le distanze afferiscano alle pareti finestrate.

Sul punto è interessante evidenziare che non risulta a livello normativo una precisa definizione di parete finestrata. Infatti, l’art. 900 c.c. (rubricato “specie di finestre”) si limita ad affermare che “Le finestre o altre aperture sul fondo del vicino sono di due specie: luci, quando danno passaggio alla luce e all'aria, ma non permettono di affacciarsi sul fondo del vicino; vedute o prospetti, quando permettono di affacciarsi e di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente”.

Proprio per tale ragione il ruolo nodale è stato svolto dalla giurisprudenza che, sebbene non in maniera univoca, di volta in volta, ha cercato di risolvere il vuoto normativo per delineare e definire le peculiari caratteristiche per ritenere finestrata una parete.

Un primo orientamento ha ritenuto applicabile il criterio restrittivo, secondo cui la parete finestrata è rappresentata da tutte le aperture (balconi, finestre di tutti i tipi, porte-finestre) che garantiscano la sola veduta (sul punto cfr. Corte appello Firenze sez. III, 06/07/2021, n.1381, Tribunale Lanciano, 24/03/2020, n.82, T.A.R. Milano, (Lombardia) sez. II, 23/05/2019, n.1168).

Diversamente, un secondo orientamento ha sposato il criterio estensivo, in forza del quale vengono ricomprese all’interno della parete finestrata non solo le mere aperture aventi natura di veduta ma altresì le aperture qualificabili come semplici luvi (sul punto cfr. T.A.R. Brescia, (Lombardia) sez. II, 06/04/2021, n.319; T.A.R. Roma, (Lazio) sez. II, 05/03/2021, n.2763; Tribunale Lanciano, 24/03/2020, n.82).

Le considerazioni sopra esposte evidenziano chiaramente che non vi è una risposta precisa in grado di poter definire le pareti finestrate quali vedute o quali luci, in quanto, a seconda dell’interpretazione che si intende accogliere, la parete può risultare sia finestrata che non.

Altra questione che è stata oggetto di dibattito giurisprudenziale è quella afferente alla possibilità di applicare la disciplina sulle distanze ex art. 9 D.M. 1444/1968 anche in presenza di una sola parete finestrata.

In questo caso il solco normativo e giurisprudenziale è univoco nel dare risconto positivo.

Questo in quanto, a livello letterale, la norma non prevede che la presenza di una sola parete finestrata comporti una deroga generale alla disciplina di settore.

In linea con tale motivazione la stessa giurisprudenza ha inteso applicare la norma anche nei casi in cui sia presente una sola apertura tra gli edifici (cfr. Cassazione civile sez. II, 01/10/2019, n.24471).

In ultimo, risulta rilevante dipanare anche un ulteriore interrogativo, vale a dire se la distanza prevista dall’art. 9 in esame sia applicabile per tutta la parete dotata di finestra oppure per la sola porzione della parete interessata dalla medesima apertura.

Anche questo quesito è stato affrontato dalla giurisprudenza in maniera risolutiva, per cui, tutt’oggi, la valutazione del rispetto della distanza deve essere effettuato tenendo conto dell’intera parete e non già della sola area finestrata, in quanto la ratio della disposizione è sempre finalizzata alla salvaguardia dell'interesse pubblico/sanitario a mantenere una determinata intercapedine salubre degli edifici che si fronteggiano e non delle sole zone dotate di finestre.


Normalità e derogabilità delle distanze tra fabbricati dopo Sblocca Cantieri e Semplificazioni: il punto

Segnaliamo, sullo stesso argomento, un approfondimento di Ermete Dalprato scritto a valle delle un po’ convulse, radicali e non sempre congruenti modifiche apportate alle norme sulle distanze tra fabbricati nell’arco di soli due anni per opera dei DL 32/2019 e 76/2020 (“Sblocca Cantieri” e Semplificazioni”).

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Nelle zone diverse dalla A) ai “nuovi edifici” si applica sempre la disciplina sulle distanze? E nel caso di “Demoricostruzione”?

Sempre l’art. 9 in esame si interessa ancora, al comma 2, della distanza tra fabbricati nel caso di nuovi edifici nelle zone diverse dalla A).

In relazione a tale aspetto risulta interessante comprendere se il termine “nuovo edificio” ricomprenda le sole nuove costruzioni ovvero se debbano intendersi anche quelle opere di “demoricostruzione”, vale a dire l’edificazione di immobili ricostruiti a seguito di demolizione.

Sul punto, secondo quanto ritenuto dalla giustizia amministrativa, il limite della distanza minima di 10 metri per i nuovi edifici deve operare per tutti quegli interventi edilizi (ampliamenti volumetrici, sopraelevazioni, recupero di sottotetti, ecc) realizzati per la prima volta e che siano idonei a determinare significative trasformazioni urbanistiche ed edilizie.

La norma, dunque, si applica in modo indistinto per tutte le nuove opere, indifferentemente dalla tipologia di intervento effettuato. Infatti, anche un intervento di basso impatto edilizio, quale ad esempio la mera realizzazione di un ripostiglio ovvero di una veranda, se non rispettosa del limite di cui all’art. 9, può minare la salubrità dei luoghi tutelata da legge e ritenersi di conseguenza illegittimo. 

In questo modo l’ambito attuativo della norma viene circoscritto a quei soli casi in cui sia ravvisabile concretamente una nuova edificazione e non per gli interventi di demoricostruzione, come peraltro affermato dalla stessa consesso amministrativo secondo cui: “la giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. sez. IV, 14-9-2017, n. 4337) ha avuto modo di affermare che la disposizione dell’articolo 9 n.2 del D.M. n. 1444 riguarda “nuovi edifici”, intendendosi per tali gli edifici (o parti e/o sopraelevazioni di essi) “costruiti per la prima volta” e non gli edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse. (…) Non può, pertanto, conformemente ad altre pronunce del giudice amministrativo, l’intervento essere comunque considerato un novum, atteso che, in relazione ad esso, non rilevano le variazioni di sagoma ed ingombro, le quali riguardano invece una distinta porzione, specificamente giustificata dall’intervento di adeguamento funzionale, da considerarsi autonomamente” (Cons. Stato, sez. VI, 18 gennaio 2018, n. 2448).

Medesime considerazioni erano già state fatte proprie in passato dallo stesso Consiglio di Stato che non aveva ritenuto applicabile la norma per quegli interventi di ricostruzione dell’esistente, in quanto la disposizione avrebbe comportato un sostanziale effetto espropriativo e lesivo nei confronti del privato. Questo in quanto, come noto, l’espropriazione deve essere attuata solo mediante gli strumenti tipizzati da legge e non mediante meccanismi applicativi da parte di disposizioni di legge volte a disciplinare altre situazioni giuridicamente rilevanti.

Dopotutto, ad opinare diversamente, si arriverebbe all’assurda conclusione secondo cui il privato, per procedere con una mera demoricostruzione, debba arretrare il proprio immobile rispetto all’allineamento preesistente, accettando la relativa diminuzione volumetrica.

Alla luce di ciò, è corretto ritenere che per gli interventi di demoricostruzione, che abbiano piena coincidenza di sedime e sagoma con il manufatto preesistente, le distanze tra pareti finestrate inferiori a quelle di cui all’art. 9 possano trovare giusta deroga, con conseguente disapplicazione della norma.