Data Pubblicazione:

Politiche urbanistiche da ripensare

Politiche urbanistiche da ripensare

Nonostante la loro attività, il loro entusiasmo, il loro amore per l’urbanistica, il Centro Nazionale di Studi Urbanistici, nato nel 1965, e l’Istituto Nazionale di Urbanistica, nato nel 1930, contano poco o nulla in questo Paese orientato più a distruggere l’ambiente che a proteggerlo e a conservarlo.
Centro e Istituto hanno discusso, hanno studiato, hanno proposto, hanno segnalato criticità, fragilità e rischi, hanno commentato disegni di legge e piani territoriali, hanno ripetutamente offerto collaborazione allo Stato, alle Regioni, alle Province, ai Comuni. Quasi sempre invano.
Come sarebbe l’Italia se non ci fossero state queste onorevoli e valorose istituzioni? se non ci fossero stati i Piani? se non ci fossero state le poche regole che il Paese si è dato?
La risposta è drammatica: esattamente com’è, poiché tutti fanno tutto; e dovunque.
All'urbanizzazione diffusa, alla città diffusa e alla devastazione territoriale che ne è venuta s’è accompagnato un gravissimo attentato all'economia complessiva e un onere insostenibile a carico della comunità.
Gli enti locali non riescono più a pagare le manutenzioni dei servizi e dei sottoservizi, la gestione dei rifiuti, i trasporti scolastici; non riescono a offrire una decente viabilità, un’efficace tutela dei beni culturali, un decoroso pacchetto di servizi se non con sistematico ricorso ai privati, ai quali pagano giganteschi interessi.
Non ne faccio una questione estetico/romantica di bellezze violate, che pure c’è, viva e aspra; ne faccio una questione economica.
Nessuno ha fatto il conto di quanto costi il fallimento delle politiche territoriali e urbanistiche, dall’ambiente ai trasporti, ai servizi, all’energia, all’industria, all’agricoltura, alla montagna, alla casa, al turismo.
Nessuno ha fatto il conto di quanto costi il dissesto idrogeologico. Spendiamo ingentissime risorse per riparare i guasti e non investiamo nulla per prevenirli; basterebbero a far prevenzione solo gli interessi del capitale speso per le emergenze. La profilassi costa assai meno della terapia.
Ignorati i tre eccellenti monumentali volumi Per la salvezza dei Beni Culturali in Italia della Commissione Franceschini (1966). Non se ne fece nulla.
Ignorati i quattro volumi dello Studio della sistemazione idraulica e della difesa del suolo, redatti dalla Commissione Interministeriale De Marchi (1970), dopo gli eventi disastrosi del 1966 (Agrigento, Firenze, Venezia), che il Centro Nazionale di Studi Urbanistici ha celebrato con un convegno a Roma nel quarantennale. Neppure quei lavori il Paese utilizzò e bastano quattro gocce di pioggia perché questo povero Paese perda un pezzo di sé: vedi gli omicidi di Vicenza, di Genova, di Modena, della Liguria e della Sardegna. Ultimi quelli di Refrontolo, a due passi da Treviso. Più che colposi, sono omicidi volontari.
E quando la portata del Piave a Pederobba toccherà i cinquemila metricubi il secondo, come fu nel 1966, andremo sotto come allora e anche di più, perché da quella volta non si è fatto nulla e si è gravissimamente aggravata la situazione generale. Intanto, che Dio ce la mandi buona, come disse poche ore prima della catastrofe del Vajont un famoso ingegnere della SADE, che fu poi l'unico ad andare in galera.
Sono perciò convinto che s’imponga un profondo rinnovamento della legislazione, della pianificazione e della gestione urbanistica; una specie di rivoluzione culturale, una poderosa rifondazione dell’etica e della cultura di Astengo e di Piccinato, ma anche di Giovannoni e di Piacentini. Ciò significa ricominciare daccapo.
Vado per temi.

Legislazione
S’impone una radicale semplificazione del quadro normativo, che va invece complicandosi.
L’ultima creatura dello Stato, il disegno di legge urbanistica nazionale, è un vero disastro.
Se diventasse legge, non cambierebbe nulla e sarebbe perduta per sempre l’occasione di fare un testo unico dell’urbanistica in Italia: nell’ultima stesura del DDL, non c’è, per esempio, alcuna abrogazione, neppure della 1150/1942, che continuerebbe perciò a vivere in parallelo, aggiungendo confusione a confusione, disordine a disordine, disastri a disastri.
Scritta in una lingua sconosciuta, piena di rinvii, di richiami e di ovvietà e insopportabilmente retorica, ha lo stesso impianto culturale del DDL sulla perequazione e del DDL sul consumo di suolo: sarà un’altra succulenta occasione di fortuna per gli azzeccagarbugli.
Invece di eliminare strumenti inutili e dannosi, il DDL ne aggiunge altri all’apparato ormai ingestibile: il DQT, per esempio - Direttiva Quadro Territoriale - bizzarro acronimo che nella Q e nella T richiama il quo usque tandem di Cicerone; oppure le ZTU - Zone di Trasformazione Urbanistica - che rispetto alle famigerate ZTO cambiano soltanto il nome.
Se ai principi fondamentali è dedicata quest’attenzione, si salvi chi può; temo infatti che rimpiangeremo la legge fascista, che a settantadue anni è assai più giovane di codesta porcheria. E assai più nobile.

Pianificazione
Ho contato venti tipi di piano nel Veneto (qualcuno a Venezia ne ha contati centodue nel Centro Storico), quasi sempre inutili e dannosi. Il Veneto è infatti la penultima regione in Italia per aree protette e le seconda per aree urbanizzate.
Dobbiamo eliminare i cento piani inutili, dare contenuti, decoro, rigore agli altri, che sono spesso senza direttive, senza prescrizioni e senza vincoli. In queste condizioni, non hanno alcuna efficacia, non sono piani.

Gestione
È nota a tutti la catastrofe degli uffici, dove eserciti di fannulloni impongono lo strapotere di un’ottusa e dannosa burocrazia, angosciosa e angosciante: metri cubi di carte inutili; nessun controllo, nessuna vigilanza, nessun provvedimento repressivo, nonostante la legge: né penale, né amministrativo, né fiscale; si consente tutto a tutti.
E quando tutti i piani impedissero un intervento scellerato, c’è sempre in agguato un accordo di programma.
Ogni abuso è sanabile e sanato: non si demolisce nulla, purché si paghi.

Etica, cultura, senso civico, bonum commune
Intorno al 1250 san Tomaso d’Aquino, dissertando sul bonum commune, già di Aristotele, diceva: melius est quam bonum unius, il bene di tutti è migliore del bene di uno solo; nel 1574 Papa Gregorio XIII emanò una Constitutio Apostolica che prese il nome dall’incipit Quae publice utilia ac decora, in cui riconosceva chiaramente la priorità assoluta della publica utilitas e del decorum sulla cupiditates e i commoda dei proprietari terrieri; ma ne combinò anche di peggio, come quando impedì ai cardinali di sopraelevare i loro palazzi sparsi in mezza Roma.
Il bonum commune non è di destra, né di sinistra, come i comandamenti, come i principi morali superiori, come l’urbanistica. Talché un Sindaco onesto coltiverà un’urbanistica rispettosa dell’interesse collettivo, indipendentemente dal suo pensiero politico.
C’è invece qui scarsa o nulla coscienza civica; ognuno è attaccato al suo, senza cultura urbana, senza sensibilità territoriale, senza responsabilità civile.
E poiché la crisi che il pianeta da molti anni subisce non è un semplice mutamento dei cicli economici, ma una radicale trasformazione del modo di essere e di avere, non possiamo rispondere alle domande del futuro usando gli strumenti del passato, come le vecchie leggi, i vecchi piani, il vecchio modo di fare urbanistica, che peggiorano la situazione, invece di migliorarla.
Dobbiamo rinnovare tutto, non mettere le pezze a un vestito sbrindellato; la nuova legge urbanistica dev’essere rigorosa, sul consumo di suolo e sulla perequazione innanzi tutto, con il nobile e sacrosanto obiettivo del pubblico interesse.
Ma non basta: dobbiamo eliminare le Province, accorpare i Comuni, attivare le città metropolitane.
Se non faremo così, il precipizio dell’etica e della cultura e il conseguente precipizio dell’economia, trasformeranno il popolo di Dante in un’accozzaglia di pecorai, come successe all’Egitto dei Faraoni e alla Grecia di Pericle.

Che fare?
Dismettere il buonismo, il conservatorismo, il gattopardismo.
Parafrasando le parole di Tancredi al principe di Salina, dobbiamo cambiare tutto perché tutto cambi nel versante dell’interesse collettivo.
Il territorio, malato grave, non si cura con l’aspirina.
Bene discutere, bene fare i convegni, ma se alle discussioni e ai convegni non s’accompagnassero urla di dolore e azioni di lotta contro i devastatori del Paese (amministratori, avvocati, progettisti) diventeremo loro complici.
Propongo in commiato un sussulto di ottimismo per i giovani, che sono i primi a pagare, sulla soglia del cinquanta percento di disoccupazione. Il futuro che avete davanti non è più quello di una volta, ha detto ai giovani Salvatore Settis.
E per i giovani abbiamo l’obbligo culturale e morale di guardare avanti, di andare avanti.
L’obbligo culturale c’impegna a promuovere un novello rinascimento della nostra amatissima urbanistica; a riscoprire i suoi valori d’arte, di scienza, d’ordine e di tutela.
L’obbligo morale, che viene da quella benedetta legge che sta dentro di noi, c’impegna a combattere le viltà, i compromessi, il buonismo, l’ottusa burocrazia, nel rispetto della lezione dei maestri, dell’etica, della cultura, del bonum commune e della Costituzione Repubblicana.
Vorrei perciò che questo grido di dolore diventasse un auspicio di speranza, un invito a riscoprire etica e cultura, l’antica pratica del bello e del buono, l’esercizio della virtù e della conoscenza e dei principi morali superiori.