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CORPORATE SOCIAL INNOVATION: Processi di accelerazione dell’innovazione e di ri-generazione

CORPORATE SOCIAL INNOVATION: Processi di accelerazione dell’innovazione e di ri-generazione

L’economista francese Thomas Piketty nel suo Le Capital au XX siècle, descrive quello che lui chiama “capitalismo patrimoniale” fondato più su capitali ereditati piuttosto che accumulati con impresa e lavoro. La sua tesi e che a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, il graduale abbassamento delle tasse e la rapida accumulazione di ricchezze che ne è seguito, ha fatto si che il capitale riprendesse a crescere più rapidamente del reddito. Una società dove i rendimenti del capitale hanno un’importanza sempre maggiore rispetto al reddito da lavoro. Nel 2010, nell’Europa occidentale, il 10% della popolazione più ricca contava per circa il 25% del reddito da lavoro complessivo ma deteneva il 60% della ricchezza.

In un contesto così definito sembra quanto mai opportuno immaginare una nuova cassetta degli attrezzi per rigenerare senso etico, comunità e socialità, economia ed istituzioni, il territorio. Un cambiamento reale, e con una visione prospettica non curvata sull’interesse meramente finanziario, può verosimilmente concretizzarsi “ricombinando valore sociale, economico, istituzionale, motivazioni intrinseche, culture manageriali, capitali e relazioni”.

Un nuovo modello, in prima istanza economico, può beneficiare di non già codificati “enzimi sociali” in un contesto di collaborazione tra impresa ed impresa sociale, tesa quest’ultima alla costruzione di veri e propri asset. Per superare il concetto di filantropia e per proporre iniziative di ibridazione virtuosa. Un modello in grado di aggredire i “deceleratori” del sistema, che per comodità possiamo definire come “riduzionismi” e che possiamo riconoscere, all’interno dell’impresa allorquando alla massimizzazione del profitto non corrisponde una creazione di valore aggiunto.

Un modello di innovazione sociale quindi e un diverso rapporto con il territorio che “non è un bene della comunità ma è comunità, è habitat, e di conseguenza non c’è scissione se non fittizia tra uomo e spazio. Il territorio come habitat, infatti, non è risorsa strumentale, liberamente disponibile, ma elemento dell’identità, parte del tutto.”

Il tema è quindi come ri-definire il rapporto tra comunità, innovazione sociale e ruolo delle aziende in questo processo, e quale ricaduta può avere nell’ambito di un profondo rinnovamento, anche rispetto alla pianificazione dei territori ed alla programmazione da parte dell’amministrazione pubblica. A partire dall’idea che si ha di se stessi.

L’Italia vanta una tradizione straordinaria di responsabilità sociale dell’impresa nei territori, si pensi al Veneto a cavallo tra ‘800 e ‘900 (le famose company town) con i modelli di Valdagno, con la famiglia Marzotto, e Schio con la famiglia Rossi. Si pensi alla rivoluzione culturale promossa da Adriano Olivetti, che non ha modellato solo Ivrea, ma l’idea stessa del rapporto tra impresa e comunità. Un processo che ha conformato coscienze e luoghi. Una tradizione ancora persistente in molte aziende del nostro paese e che, se considerato assieme alla tradizione cooperativistica costituiscono un humus straordinario per politiche di innovazione.

Le aziende sono forse i sensori più efficaci per verificare come una comunità, e per estensione il suo territorio, si collocano nel reticolo delle reti corte e di quelle lunghe della contemporanea competizione. Obbligate a ragionare costantemente su che cosa voglia dire utilizzare la tecnologia, come stare all’interno di reti d’impresa, e ancor più valutare quali modalità sono più efficaci per relazionarsi alle reti sociali (non solo clienti), qual è l’impatto etico delle scelte. Un fenomeno amplificato sempre più dai social network.
I social network sono i nodi di individui, gruppi, organizzazioni e sistemi correlati che si legano in uno o più tipi di interdipendenze: queste possono essere basate su valori condivisi, visioni, idee, contatti sociali, parentela, conflitto, scambi economico-finanziari, commercio, comune appartenenza a organizzazioni, e sulla partecipazione collettiva a eventi e numerosi altri tipi di relazione umana. Il cittadino quindi può dare un “voto” alle imprese che producono beni e servizi, acquistando, in via preferenziale, da quelle che rispettano, ad esempio, la sostenibilità ambientale e sociale.

Imprese che smaltiscono adeguatamente gli scarti, quelle che ripartiscono equamente gli utili tra tutti gli stakeholder, quelle che si adoperano per eliminare ogni condizione di degrado nella vita dei lavoratori, quelle che non eludono il fisco, che non corrompono, che non delocalizzano in Paesi con mano d’opera a basso costo e che non si rifugiano nei paradisi fiscali. Imprese che si preoccupano dell’inserimento lavorativo di persone con disabilità.

L’azione del cittadino consapevole che acquista è incredibilmente potente, perché esso determina le scelte delle imprese spingendole, anche, ad una maggiore responsabilità sociale. Agisce sì sui consumi, ma simultaneamente anche sull’ambiente, sul sociale e quindi sulla felicità degli esseri umani. A parità di prezzo e di caratteristiche del prodotto, il primo criterio per la scelta degli acquisti da parte dei consumatori-cittadini consapevoli è l’impegno dell’azienda in progetti di utilità sociale e ambientale. Tre consumatori su quattro sono pronti a cambiare brand, in favore di un’azienda più socialmente impegnata, e una persona su due non vorrebbe lavorare per un’azienda non impegnata sul fronte responsabilità sociale.

Da un’indagine di Price Waterhouse Cooper su 344 CEO del settore Retail & Consumer risulta che la Corporate Social Responsibility è sempre più decisiva per attirare e mantenere dipendenti, clienti e fornitori e per gli stakeholders di riferimento per l’azienda. L’impresa ha bisogno del territorio, di un rapporto equilibrato con le comunità che su quei territori vivono, con le competenze che possono esprimere, con il sistema delle infrastrutture, soprattutto sociali.

Una strategia “utile” si costruisce unicamente attraverso proposte concrete per la “rigenerazione del vantaggio competitivo” di un sistema definito, come detto, dall’interazione tra territorio e comunità. Per far ciò la capacità di costruire assieme uno scenario, una “prefigurazione collettiva” del nostro futuro prossimo è centrale. Senza questa capacità, questa si davvero “intimamente” istituzionale, risulta impossibile definire una qualsiasi strategia per una nuova competitività dei sistemi sociali ed economici. Si può affermare, in altri termini, che la competitività prenda corpo laddove si manifestino:
• la ricerca di una coerenza complessiva (comunità di intenti), valorizzando le risorse del territorio, attraverso la capacità di agire velocemente in relazione alle necessità ed alle opportunità;
• il coinvolgimento dei diversi attori e la costruzione di capacità istituzionale, anche attraverso l’innovazione sociale, da parte delle comunità;
• una reale governance dei settori di attività in un’ottica di innovazione complessiva (comunità d’azione);
Ricordiamoci che una strategia è un piano d’azione completo, che prevede quale azione scegliere per ogni possibile situazione, mentre un profilo di strategie è un vettore di scelte strategiche che prevede una strategia per ogni attore.
L’idea che orienta l’analisi della competitività di comunità locale si può porre in relazione alla teoria dell’equilibrio di Nash (un doveroso ricordo) in base alla quale esiste un profilo di strategie tale che nessun giocatore può migliorare la propria vincita modificando la propria strategia in modo unilaterale. Ed ecco perché le imprese non possono essere escluse da un diverso modo di intendere il rapporto con la comunità ed il territorio. Semmai il tema verte sulle modalità di interazione.

Imprese che incontrano i mercati sempre più all’interno dei social network e nei media visuali. Non è più sufficiente veicolare informazioni e schede prodotto, ma storie, contestualizzazioni, valori e reputazione che maturano in un divenire narrativo fatto di forma e contenuti, proprio in rapporto alla comunità e spesso al livello di responsabilità sociale dell’impresa. Ciò significa conversare con il mercato, nella forma più umana possibile, anche attraverso il racconto dei propri valori (storytelling).

Simbiosi tra vantaggio tecnologico, crescita complessiva della comunità e dei territori ed innovazione sociale, intesa questa come: “una nuova soluzione a un problema sociale che è più efficace, efficiente e sostenibile rispetto alle soluzioni esistenti e che è di valore più per la società nel suo complesso che per i singoli individui. L’innovazione sociale può essere un prodotto, un processo di produzione, una tecnologia (proprio come l’innovazione in generale), ma può anche essere un principio, un’idea, una norma legislativa, un movimento sociale, un intervento, o una combinazione di tali fattori” (Standford Social Innovation Review, 2008).
Il sistema dell’impresa può dare una risposta a bisogni sociali emergenti in modo innovativo, creando contemporaneamente valore (e non necessariamente solo economico) anche per se stessa, solo se posta in contesti conformati dal vincolo della fiducia “nuove idee (prodotti, servizi e modelli) che soddisfano bisogni sociali (in modo più efficace delle alternative esistenti) e che allo stesso tempo creano nuove relazioni e nuove collaborazioni. In altre parole, innovazioni che sono buone per la società e che accrescono le possibilità di azione “. Si possono creare nuovi modelli di rigenerazione sociale e territoriale.

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