Etica tecnologica. Perché dobbiamo temere chi ci promette tutto
Il Diavolo veste Apple. E ci tenta ancor oggi, come duemila anni fa, convincendoci della nostra onnipotenza, confermata dai mezzi tecnologici: «Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai». Fuor dalle speculazioni teologiche, dobbiamo riconoscere che le promesse tecnologiche odierne sono davvero allettanti e ammalianti, e ci seducono con un fascino tutto speciale, al quale sappiamo raramente resistere.
Lungi, tuttavia, dall’affermare che ogni tecnologia in quanto tecnologia debba essere necessariamente cattiva o dannosa, dobbiamo prestare un po’ di attenzione al ruolo che queste nuove realtà si stanno ritagliando nello spazio del nostro mondo della vita. Che è, di fatto, il ruolo che la tecnica – ossia quella capacità esclusivamente umana di trasformare cose in mezzi – ha per secoli assunto nella vita dell’uomo… Centuplicato.
Elevarlo a Dio, “indiarlo”, per dirla con il Sommo Poeta. La nostra capacità tecnica – che è oggi capacità tecnologica – ci fa sentire un po’ più padroni di noi stessi, superiori ad ogni altra entità esistente, a patto che noi ci “prostriamo ad adorarla”. La tecnologia ci chiede ancora oggi di confermarla per poterci confermare.
Ed è così che l’homo technologicus – questa evoluzione “innaturale” della specie homo sapiens – si atteggia da padrone, pur portando nel proprio grembo il germe di una sottomissione ad un nuovo dio, adornato di chip e di megabyte. È la storia di una nuova Babele, di un delirio che si rende carne ancora una volta nella storia dell’umanità: la vicenda dell’uomo che si inginocchia al fascino del potere, credendo di avere tutte le carte in regola per auto-sostituirsi a Dio. Le illusioni suscitate in noi dal potere della tecnologia sono davvero forti… che sono, a ben vedere, le illusioni del potere della tecnica unite a quelle della -logia, della scienza. Il “sapere è potere” di Bacone rimbomba costantemente nelle orecchie del tecnologo odierno.
Se, parafrasando Oppenheimer, con la tecnica l’uomo ha conosciuto il peccato – e di questa conoscenza non se ne può più liberare – con la tecnologia l’uomo ha attuato il peccato. Ora che abbiamo sottomano i mezzi necessari per poter fare tutto – o quasi tutto – non esiste alcun freno inibitore che debba costringerci a staccare il piede dell’acceleratore. Questo sembra essere il pensiero dominante dell’uomo postmoderno.
Il punto è che la tecnologia contemporanea non ci offre proprio tutto, cercando di essere un po’ obiettivi. Né mai ce lo offrirà, ci possiamo scommettere. Perché la tecnologia non è capace, in ultimo, di rispondere ad un’esigenza propriamente umana, ossia quella di comprendere il senso profondo delle cose, di intendere la loro stoffa. La tecnologia ci offre soluzioni – sofisticate e complesse, ergonomiche, ecologiche e sostenibili – ma mai risposte. Il che è profondamente diverso: la risposta è adeguata ad una domanda, la soluzione, invece, ad un problema.
Bisogna anche ammettere che oggi siamo circondati da problemi, e in aggiunta ce ne siamo creati di nuovi, e abbiamo un’impellente necessità di soluzioni, possibilmente spendibili nel qui ed ora (e, perché no, acquistabili ad un prezzo moderato). Ma forse tutto questo bisogno di soluzioni che ci portiamo addosso sarebbe un po’ mitigato se avessimo la capacità di alcune risposte, che talvolta mancano come il pane. È quel fermarsi un attimo che spacca l’asfissiante quotidianità della logica domanda/offerta, bisogno/soddisfazione, mancanza/pienezza. È quel fermarsi così, a contemplare – che è un’attività squisitamente umana, almeno in Aristotele – il mondo che ci stiamo costruendo e a provare a tirare un po’ le fila. A contemplare quello che stiamo costruendo (materialmente o meno) e vedere se effettivamente incentiva la sottomissione dell’uomo alla tecnologia o se si potrebbe rivelare uno strumento utile per la realizzazione dell’umanità in lui, in un qualche ambito della sua esistenza.
Dalla soluzione alla risposta, questo è il passo che dovremmo compiere. E poi fare un ulteriore passo indietro: dalla risposta alla domanda, tornando così al nucleo originale della questione (anche perché, detto tra noi, non esiste risposta che non sia sempre risposta ad una domanda, anche se implicita). La possibile via di uscita dal tecnologismo di cui siamo – consciamente o meno – imbevuti è quella di prendere la strada maestra del pensiero-che-si-fa-domanda. Non che la tecnologia sia carente di pensiero, per carità: gli scienziati ed i tecnologi si distinguono proprio per le loro spiccate qualità intellettive. Ma si tratta di un tipo di pensiero diverso, il loro. È quello che Martin Heidegger chiamava pensiero calcolante, proprio del tecnico, in opposizione al pensiero meditante, del filosofo: «Il pensiero calcolante non è un pensiero meditante, non è un pensiero che pensa quel senso che domina su tutto ciò che è».
Il pensiero che calcola non domanda, e viceversa.
Non si tratta, tanto, in ultima analisi, di fare i luddisti ad ogni costo, anche perché il luddismo fa troppo radical-chic. Si tratta, piuttosto, di ricordarci che l’essere umano è un essere che desidera comprendere il senso delle cose, il loro tessuto profondo e la loro direzione. Ma questo compito non potrà mai essere portato a compimento dalla tecnologia, nemmeno da quella più raffinata ed evoluta. In questo senso possiamo non temere l’iper-tecnologicizzazione del mondo contemporaneo: perché, al netto dell’impresa, possiamo sempre fare affidamento sul nostro pensiero. Che è, poi, il punto sorgivo della tecnologia.