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Smart working: la banda larga reggerà milioni di italiani connessi?

Lo stato dello smart working in Italia, le opportunità, le sfide e il problema del digital divide ai tempi del coronavirus.

C'è anche lo smart working tra i 13 punti del protocollo sulla sicurezza nei luoghi di lavoro siglato tra i sindacati e le parti sociali, con la mediazione del Governo.

L'intesa stabilisce come tutelare i lavoratori durante l'emergenza coronavirus e prevede che lo smart working sia applicabile a tutte le attività che possono essere svolte da casa.

Che impatto avrà una così brusca accelerazione del lavoro agile sul mondo del lavoro? E la banda larga "reggerà" milioni di italiani connessi?

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Smart working: un aiuto per affrontare l'emergenza

Il pericolo del contagio ha dimostrato il grande potenziale inespresso, sino a oggi, della tecnologia e del digitale: la possibilità di continuare a "produrre" senza necessariamente recarsi sul luogo di lavoro.

Smart working, lavoro agile, telelavoro: in Italia fino a qualche settimana fa, erano termini diffusi ma con scarsa declinazione pratica.

Oggi, invece, sono diventate realtà alle quali stanno ricorrendo molte imprese per tutelare la salute dei propri dipendenti durante l'emergenza sanitaria. 

«Lo Smart working è un modello organizzativo che si basa su un principio semplice - ha spiegato Mariano Corso, responsabile scientifico dell'Osservatorio sullo smart working della School of Management del Politecnico di Milano - il principio è quello di dare alle persone maggiore autonomia nella scelta delle modalità di lavoro, a cominciare da orari e spazi in cui svolgere le mansioni chiedendo loro di responsabilizzarsi e misurarsi sui risultati. L’essenza dello smart working è il lavoro per obiettivi».

Smart working in Italia: pre-coronavirus e oggi

In Italia lo smart working è regolato dal 2017.

«La legge numero 81 lo configura come la possibilità di un accordo individuale, non è collettivo, ma riguarda una singola persona nei confronti dell’azienda», aggiunge il professore Corso. 

Una possibilità che, secondo i dati dell'Osservatorio del Politecnico di Milano, in Italia prima dell'emergenza coronavirus, era scelta da 570mila lavoratori: il 20 per cento in più rispetto all'anno precedente. 

Tradotto in percentule? Appena il due per cento dei dipendenti. Per fare un confronto, il Regno Unito è a quota 20,2%, segue la Francia con il 16,6 % e la Germania con l'8,6.

Oggi, lunedì 16 marzo, la situazione è decisamente diversa: il numero di italiani che lavorano da casa è cresciuto in modo esponenziale, tanto che, come riportato dal Corriere della Sera nell'articolo firmato da Milena Gabanelli e Rita Querzé, le più grandi compagnie telefoniche «segnalano che il traffico dati sulle linee fisse è aumentato in media del 20% con picchi del 50%». 

In molti casi, però, si tratta di "telelavoro", qualcosa di diverso.

«Il telelavoro è una cosa completamente diversa che invece di dare autonomia, sposta gli obblighi di orario d'ufficio: i lavoratori vengono trasferiti dalla sede dell’azienda a una nuova sede che è all’interno delle loro case, rispetto alla quale l’azienda rimane completamente responsabile», precisa Corso.

In ogni caso «è stata un’accelerazione di apprendimento, l’apprendimento che avremmo fatto in cinque dieci anni abbiamo dovuto farlo in una settimana», aggiunge.

Che si parli di smart working o di telelavoro, di fatto, si sta centrando l'obiettivo di rendere gli uffici meno frequentati tutelando la salute dei dipendenti. 

Lo smart working all'estero

«All’estero usano molto il termine flexible working, ossia "lavoro flessibile" - racconta Corso - che ha un connotato che pone molta attenzione al concetto di flessibilità e conciliazione. In Inghilterra e Olanda il lavoro flessibile è normato dalla legge come un diritto, significa che i lavoratori quando hanno una certa anzianità hanno il diritto di richiedere delle misure di flessibilità di orario e luogo di lavoro e il datore, in assenza di giustificati motivi, deve venire incontro a questa esigenze».

In Italia è completamente diverso, non è né un diritto né una concessione ma è un accordo che deve essere fatto se entrambe le parti trovano dei vantaggi. «È quindi un gioco a somma positiva», aggiunge il professore.

I vantaggi dello smart working: il 76% è più "soddisfatto"

Sempre secondo gli studi del Politecnico di Milano, il 76 per cento degli smart worker è soddifatto del lavoro contro il 55% degli altri dipendenti. Uno su tre è pienamente coinvolto nella realtà in cui opera, rispetto al 21% di chi lavora in modalità tradizionale.

I "lavoratori agili" sono anche più orgogliosi dei risultati dell’organizzazione in cui lavorano (71% rispetto al 62%) e desiderano restare più a lungo in azienda (71% rispetto al 56%). 

La categoria che lavora da remoto è più capace di responsabilizzazione rispetto agli obiettivi aziendali e personali, di flessibilità nell’organizzare le attività lavorative e di bilanciare l’uso delle tecnologie digitali con gli strumenti tradizionali di collaborazione, la cosiddetta “attitudine smart”, che varia dal 17% dei lavoratori tradizionali al 35% di quelli smart.

Secondo il professore Corso l'impatto di questa brusca accelerazione del lavoro smart avrà «un effetto duplice e positivo».

«La produttività spesso cresce attorno al 15 per cento perché c’è un vantaggio reciproco, sia per la persona che per l’azienda, in termini sia di produttività che abbassamento di costi» ha evidenziato.

Ma vale la pena considerare anche l'altro lato della medaglia: secondo gli smart worker, la prima difficoltà a emergere è la percezione di isolamento (35%), poi le distrazioni esterne (21%), i problemi di comunicazione e collaborazione virtuale (11%) e la barriera tecnologica (11%). 

Smart working, un cammino poco "agile": i problemi infrastrutturali

In Italia sono ancora molte le imprese e i distretti industriali tagliati fuori dalla rete in fibra ottica.

Sempre secondo il Corriere della Sera «in Italia la banda larga ultraveloce raggiunge il 24% della popolazione, contro la media Ue del 60%».

«Il punto è che adesso vedremo nascere problemi di saturazione della banda - continua Corso - magari c’è, ma non è stata dimensionata per così tante persone che oggi la devono usare».

«Questo è un gigantesco stress test nazionale che ci insegnerà anche quanto siano vitali le grandi infrastrutture - prosegue - sia quelle materiali, l’accesso alla rete, che le infrastrutture immateriali, quindi le competenze e le capacità di usare le tecnologie digitali».

Proprio per questo, pare che il Governo nella bozza di decreto legge, programmi di stimolare interventi di «potenziamento delle infrastrutture» e della «fornitura di servizi di comunicazioni elettroniche in grado di supportare la crescita dei consumi e la gestione dei picchi di traffico generati dalla necessità di svolgere attività (smart working, e-learning)» o anche solo per poter «passare il proprio tempo in casa utilizzando internet o i tradizionali servizi voce e dati». 

Il lavoro del futuro continuerà a essere smart?

«Ritengo che non si tornerà indietro perché si scoprirà il valore della resilienza digitale, cioè che lavorare su piattaforme digitali alla fine è essenziale anche per essere in grado di gestire l’emergenza - commenta il professor Corso - in realtà saremmo potuti arrivare più pronti, perché già il crollo del Ponte di Genova ci aveva insegnato qualcosa. La città va avanti da mesi grazie al fatto che aziende e pubbliche amministrazioni avevano introdotto lo smart working per venire incontro alle esigenze della città».

Ma da una situazione di emergenza potrebbe arrivare un vero scatto in avanti nei modelli organizzativi di tante aziende italiane?

«Credo che la probabilità sia pari a uno, è certo, indietro non si torna, sarebbe folle - conferma il professore - spero che subito dopo questa emergenza ci si rimbocchi le maniche per capire quali siano le condizioni organizzative, tecnologiche e culturali che bisogna mettere in atto, sia per recuperare i grandi danni, anche economici dovuti alla crisi, sia per andare verso un modello più sostenibile e bilanciato». 



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