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Dalla Grande Trasformazione alla Lenta Transizione: le Difficoltà della Digitalizzazione

Perché l'acronimo BIM sta divenendo sempre più fuorviante

La maggiore difficoltà che un settore economico importante come quello delle Costruzioni incontra nel corso della transizione digitale è capire di che cosa esattamente si tratti, nel senso di acquisirne piena consapevolezza.

Da un lato sta, infatti, un assunto fortissimo: digitale equivale a numerico e a computazionale e, di conseguenza, contano solo i dati, le informazioni, le conoscenze e i saperi leggibili dalla macchina.
Dall'altro, la conseguente affermazione recita: non ha senso parlare di modelli informativi senza parlare di modelli di strutturazione dei dati, non esistono categorie geometrico-dimensionali e alfa-numeriche per la macchina, ma tutto è alfa-numerico, anzi, addirittura binario.

A corollario si potrebbe ritenere che la relazione prevalente sia quella Man-To-Machine, in attesa di quella Machine-To-Machine.
Tutto ciò spiega bene perché si inizi a discorrere di «minacce» della digitalizzazione, per quale motivo si accenni a «sfuggire» alla logica digitale.
Il fatto è che, come dimostra l'accentuata attenzione, anche giurisprudenziale, nei confronti degli ambienti di condivisione dei dati, nulla potrebbe, o dovrebbe, sfuggire al mondo trasparente e tracciabile costituito dagli ecosistemi digitali.
A fronte di questa prospettiva, si erge, però, un contesto profondamente analogico, human readable, in cui operatori non sempre consapevoli di queste implicazioni armeggiano con gli strumenti legati alla gestione dei dati, delle informazioni, delle conoscenze, forse sinanco dei saperi (dell'intelligenza artificiale).

Al netto di un più che probabile differimento degli obblighi nazionali di digitalizzazione della Domanda Pubblica, alla luce delle evoluzioni governative, ciò che conta è, soprattutto, cogliere il tempo necessario al mercato per realizzare interamente gli assunti poc'anzi formulati e per dismettere i panni retorici dell'innovazione per assumere quelli più credibili della preoccupazione dovuta alla sostituibilità del lavoro intellettuale e materiale nel comparto con algoritmi e con automi, oltre che alla predominanza di razionalità rigide.
Che, non solo, peraltro, in Italia, le punte avanzate della digitalizzazione siano poche, in termini complessivi, non vi ha alcun dubbio: che esse possano estendersi sul medio periodo si può, invece, dubitare.

Ma non si tratta di immaginare chissà quali forme di resistenza o di opposizione né di arretratezza: la questione, però, è, piuttosto, se una produzione generalizzata di dati non strutturati sia sufficiente a coloro che siano in grado di sfruttare le grandi moli generate.
Di fatto, la percezione che gli operatori del mercato hanno degli strumenti della digitalizzazione (l'acronimo BIM sta divenendo sempre più fuorviante) è, al netto dei soggetti più avanzati, piuttosto differita e, in un certo senso, piena di «stupore», ma, soprattutto, carente di comprensione intima del significato ultimo degli stessi.

Chi, come l'autore, presso l'Università degli Studi di Brescia, ha introdotto e sperimentato tra i primi nel corso di almeno un decennio la gran parte degli strumenti, dal BIM Authoring agli applicativi per Internet of Things, inizia solo ora a capire come la posta in gioco sia unicamente legata al dato e alla sua struttura.
Ciò vuol dire che, in assenza di committenze, pubbliche e private, che siano in grado di «maneggiare» i dati, di averne una familiarità assoluta, ci troveremmo al cospetto di pensieri e di azioni analogici che siano digitalmente mediati.
Si tratta di un passaggio assai pericoloso, che si riflette poi sulla intera catena di fornitura: pericoloso perché immagina di ricondurre alle categorie note metodi e strumenti sostanzialmente ignoti, col risultato, appunto, che questi ultimi, pur «incompresi», a loro volta, con strutturazioni più o meno corrette, trascinino, invece, gli operatori all'interno degli ambienti digitali, consegnandoli, in definitiva, a chi ne detenga le chiavi.

E' palese, infatti, che la proliferazione dell'adozione della gestione informativa creerà, a partire dalle piattaforme digitali, un fabbisogno di luoghi in cui siano ospitate le transazioni, luoghi che, al di là dei vincoli di riservatezza alla condivisione, potranno sfruttare appieno le strutture di dati in esse contenute.
Naturalmente, ciò suona strano se si considera che gli intenti originarî di coloro che hanno inaugurato l'era digitale nel settore erano liberatori dai passaggi ripetitivi: sull'ambiguità tra affrancamento dalla mediocrità e sostituzione del lavoro umano si gioca, peraltro, una parte consistente della narrazione.

Dato per scontato che nel Nostro a Paese sia pressoché impossibile ipotizzare una politica industriale per il settore di medio-lungo termine, come avviene per Digital Built Britain o per Digital Built Australia, per la storia della nazione stessa, né immaginare che possa darsi un «sistema», a causa delle stesse ragioni, utilizzando un percorso a ritroso - da cui dalla Grande Trasformazione alla Lenta Transizione -, la sfida si sposta su una capillare disseminazione di alcuni approcci e di alcuni modus operandi che consentano, in attesa di un drastico ricambio generazionale, di impostare il più correttamente possibile i data set da parte della classe professionale e di quella imprenditoriale che, nonostante le significative trasformazioni strutturali descritte dal CRESME nell'ultimo decennio, restano dimensionalmente polverizzate e identitariamente cristallizzate.

Sotto questo profilo, infatti, se è vero che la crisi recessiva ha selezionato il mercato, è altresì vero che i soggetti sopravvissuti non sono spesso oggetto di emulazione e che stentano a coalizzarsi, a fornire dimostrazioni persuasive.
Tutto questo, tuttavia, non può avvenire senza che la Domanda, essenzialmente le stazioni appaltanti nonché le amministrazioni concedenti pubbliche e gli sviluppatori immobiliari privati, più che la committenza strumentale privata, sia stata posta in grado di agire computazionalmente, vale a dire progettando le strutture di dati, in due distinti momenti:

  • a valle, formulando il brief, che si chiami documento di indirizzo preliminare, o altrimenti, rivolgendosi agli operatori economici;
  • a monte, all'interno dei processi di valutazione delle fattibilità dell'investimento, a iniziare dalla dimensione economico-finanziaria, rivolgendosi alle istituzioni finanziarie.

Si tratta di un impegno considerevole, persino improbabile, specie per quanto riguarda una Domanda Pubblica oggettivamente da riqualificare in profondità, ma che, poi, richiede che l'Offerta Privata possegga, a sua volta, una basilare alfabetizzazione e consuetudine inerente ai sistemi informativi finalizzati ai processi decisionali.

Allo studioso interessa attualmente, soprattutto, analizzare i divari e le differenziazioni tra le tipologie di attori e i segmenti di mercato.
Al decisore conviene forse, in questo Paese, individuare obiettivi minimalisti, in attesa di una evoluzione dalle tempistiche imprevedibili (sarebbe un atto di arroganza stabilirle), ma ragionevolmente diluite, coll'augurio che ciò accada anche altrove e che, specialmente all'interno della Unione Europea, non avvenga una accelerazione lungo l'asse franco-tedesco.
Ancora una volta, occorre agire contemporaneamente su più piani, a più velocità: il rischio, naturalmente, è che la disseminazione elementare scada in banalizzazioni e in semplificazioni, persino in un «sovranismo digitale», ma gli operatori, d'altronde, non paiono particolarmente desiderosi di mutare natura.

La saggezza prudenziale consiglierebbe, peraltro, di limitarsi a tratteggiare scenari per cui la digitalizzazione permei solo superficialmente la dura e inveterata scorza di un settore che è disposto ad accogliere, possibilmente mitigandole, le innovazioni tecnologiche, a condizione di non intaccare né investire la propria natura.
Al contempo, però, insiste una consapevolezza che la digitalizzazione, nella sua essenza delineata in precedenza, arrechi con sé i semi della radicalità.