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Il Codice dei Contratti e la Quarta Rivoluzione Industriale: Luoghi Comuni e Conseguenze Strutturali

Una nota del prof. Angelo Ciribini

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La riforma del Codice dei Contratti Pubblici è, ormai in quanto luogo comune, citata immancabilmente quale rimedio urgente alla paralisi degli investimenti in capitale fisso sociale.

Il Codice, infatti, rallenterebbe e, comunque, ostacolerebbe la capacità di spesa della amministrazione pubblica, anche laddove le risorse fossero effettivamente disponibili e, addirittura, impegnate.

La veridicità di questa convinzione è, peraltro, assai controversa e, in ogni caso, il cattivo funzionamento della amministrazione pubblica potrebbe difficilmente essere ascritto a una sola, determinante e univoca, causa, laddove l'efficienza e l'efficacia della Domanda Pubblica, eccessivamente frazionata, spesso scarsamente qualificata, in preda a un difficile ricambio generazionale in presenza di frequenti carenze di organico, sono poste in dubbio da decenni.
 
La connotazione fortemente ideologica assunta dalla questione, non solo da parte del versante politico, in ogni modo, oscura le riflessioni più meditate sulla qualità tecnica della scrittura del disposto legislativo e sulle sue modalità di adozione e di attuazione: specialmente a fronte di processi di digitalizzazione della amministrazione pubblica che trascendono di molto il settore.

La delicata questione della riforma del Codice dei Contratti

Se, pertanto, le soluzioni alla disputa sulla riscrittura del Codice appaiono, naturalmente, talora diametralmente opposte (sostanzialmente enucleabili nei due poli estremi derivanti rispettivamente dalla attenta manutenzione del testo e dalla sua distruzione, rifacendosi sovente a dettati risalenti a epoche precedenti), a parere di chi scrive uno degli elementi su cui occorrerebbe fare chiarezza è la necessità di accompagnare il prossimo venturo Codice con una politica industriale, che offra alla Domanda Pubblica e alla Offerta Privata una visione, una prospettiva, una narrazione di senso e alcuni obiettivi misurabili.
 
La difficoltà maggiore che è insita in questo intento risiede, però, nel fatto che la transizione che riguarda il settore della costruzione e dell'immobiliare, non solo nella componente legata ai contratti pubblici, si riveli assai lenta, facendo sì che i «pionieri» della trasformazione si esauriscano in una esausta veste di «millenaristi», iterando stancamente promesse e profezie.
 
Bisogna, anzitutto, riconoscere che le categorie attraverso le quali il cambiamento dovrebbe manifestarsi (ad esempio, circolarità, digitalizzazione, sostenibilità) sono non raramente trattate con una certa frettolosa superficialità, in merito, soprattutto, alle conseguenze profonde che esse ingenererebbero nella struttura del mercato: il «4.0» ne è il più clamoroso esempio.
Al contempo, la potenziale portata trasformativa delle evoluzioni che si richiamano a tali categorie appare spesso timidamente esplicitata, provocando, accanto a una adesione in parte retorica, un certo scetticismo implicito da parte degli attori.
 
Tutto ciò si ritrova anche in una certa ambiguità di ciò che è accaduto nell'ultimo decennio, quello della crisi strutturale del comparto: un processo doloroso che è stato effettivamente selettivo, ma che non ha sempre fatto sì che i campioni del cambiamento divenissero paradigmatici e oggetto di emulazione; una politica di supporto agli interventi sul costruito che ha sorretto il mercato, ma ne ha probabilmente lasciato inalterati alcuni aspetti critici inerenti alla sua parcellizzazione; una crescente internazionalizzazione delle organizzazioni più strutturate, non sempre compensata da una loro significativa presenza sul mercato domestico.
 
È palese, perciò, che a fronte del perdurare dello stallo dell'economia nazionale e, in particolare, del settore della costruzione e dell'immobiliare, il rischio è che, tanto ponendosi scenari «progressivi» quanto «regressivi», manchi un racconto che offra significati sul medio e sul lungo periodo, paradossalmente proprio in virtù dell'impellenza del breve termine, in nome della «sopravvivenza».
 
L'urgenza è, dunque, almeno da parte delle rappresentanze, di evidenziare le condizioni fondamentali abilitanti una evoluzione del mercato: le ricette potranno essere, ovviamente, differenti, ma sarebbe cosa buona e giusta convenire sulla identificazione dei nodi strutturali e avviare su di essi un confronto costruttivo, di là degli inevitabili posizionamenti che caratterizzano la scrittura di un testo legislativo.
 
Il punto è, in effetti, che, nonostante i tempi di maturazione dei fenomeni siano assai incerti, due aspetti appaiono chiari:
  1. un intento, emerso a livello globale, di riconfigurare radicalmente la filiera, con la possibile marginalizzazione di alcuni attori (che, talvolta, inconsapevolmente applaudono tale intenzione) che non si ritenga producano sufficiente valore nella catena e una possibile eterodirezione del mercato (digitalizzato);
  2. l'incremento progressivo della componente di servizio che connota i cespiti immobiliari e infrastrutturali, destinata a creare grandi rivolgimenti, oltre che nella natura dei beni, anche nella essenza e nella responsabilità degli operatori.
È comprensibile che nasca un desiderio generalizzato, nelle more di tale incerta progressione degli eventi, di ricercare nel «qui e ora» di un passato recente, sia pure rivisitato almeno nominalmente, la soluzione alle difficoltà presenti, come se esse avessero una origine congiunturale.
Al contempo, tuttavia, cercare di neutralizzare le dinamiche tendenziali in atto può condurre prima o poi a conclusioni fortemente indesiderate sul piano strutturale.