Rigenerazione Urbana
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La Digitalizzazione della Rigenerazione Urbana e i Contratti Esistenziali

Una riflessione di Angelo Ciribini

La rigenerazione urbana, accanto alle infrastrutture, è il tema che, secondo molti osservatori, dovrebbe, in Italia, sancire il rilancio del settore della costruzione e dell’immobiliare.

Di essa ciascuna presenta una propria versione: in ogni caso, così come per la questione infrastrutturale, la rigenerazione, ennesima versione della metafora organicistica tipica dell’intervento sul costruito (da riabilitazione a superfetazione), nonché parola d’ordine ricorrente in modo ossessivo, appare assumere una connotazione di scala estesa, non ristretta ai singoli interventi immobiliari, più da Programme che non da Project.

angelo-ciribimi-bim-digitalizzazione.jpgIl che spiega l’interesse per la praticabilità di soluzioni Off Site, anche se alcuni ritengono che queste siano adottabili anche in contesti più limitati.

La tematica si rafforza evidentemente a causa della necessità di contenere il consumo di suolo e, intersecandosi con la smart city, enfatizza, di converso, gli aspetti umanistici e sociali.

A questo proposito, l’idea che le grandi moli di dati possano permettere di originare e di governare il vissuto quotidiano di un distretto urbano appare, per alcuni versi necessaria, per altri, temibile o, invero, irrealizzabile.

Per certo, in alcune operazioni immobiliari più avanzate, anche nel nostro Paese, si discute di smart district, ma, almeno sinora, molte applicazioni sembrano puntuali, cosicché l’innovazione digitale applicata alla scala urbana risulta molto simile a quella che, per la casa, sarebbe la cosiddetta domotica, benché sempre a metà strada tra il device, o il gadget, e la community o l’occupancy.

Un nuovo mercato immobiliare, meno finalizzato alla proprietà, più ricco di servizi

Naturalmente, anche per il mercato immobiliare, interessato sempre più alle ConTech e alle PropTech, alcune tendenze embrionali si profilano chiaramente, come l’attenuazione della centralità della detenzione della proprietà o la peculiarità delle esigenze di numerose categorie di occupanti: da profilare secondo i criteri adoperati nei social media?

Tutto ciò per dire che, non di rado, tuttavia, le modalità digitali, il «BIM», o talvolta il «GIS», si risolvono, tutto sommato in approcci analogici nella sostanza.

L’assenza, contrariamente ad altre simili esperienze maturate altrove, di programmi di investimento Off Site fa sì che, tutt’al più, le ottimizzazioni si risolvano nell’On Site.

Nell’ottica degli operatori economici, del resto, la rigenerazione suona prevalentemente come edilizia di sostituzione, malgrado un sentimento diffuso piuttosto perplesso, per usare un eufemismo, da parte dell’opinione pubblica, nei confronti della demolizione.

Le narrazioni che concernono la rigenerazione urbana sono solitamente alimentate e contrassegnate da intenti circolari, sociali, sostenibili, tanto sul versante, a livello distrettuale, dell’efficienza energetica quanto, su quello relativo alla creazione di comunità, eventualmente abilitate digitalmente, a partire dal ricorso alle app per l’abitante o allo shuttle per il quartiere.

Che si tratti di insediamenti residenziali, magari caratterizzati da social housing o da co-housing, oppure di luoghi lavorativi, legati al co-working o all’integrated workspace management, la dimensione digitale appare, come si accennava, sempre presente sullo sfondo, come smart, anche applicandola alle reti materiali e immateriali, ma consapevole che una sua primazìa solleverebbe forse questioni prossime all’autoreferenzialità del distretto.

Non vi ha dubbio, in fondo, che nei master plan, sicuramente rivolti a istanze intangibili, i cespiti immobiliari e infrastrutturali rimangano, comunque, in primo piano.

È abbastanza improbabile, d’altronde, che il pur controverso tentativo di Alphabet, tramite Sidewalk Labs, col Quayside di Toronto, possa divenire prototipale per la rigenerazione urbana, così come concepita in Italia, laddove, peraltro, prevale un clima culturale meno «tecnocratico» e si pongono fondamentali interrogativi sulla natura partenariale pubblico privata degli sviluppi immobiliari (qui a consumo limitato di suolo).

Eppure, all’orizzonte, sorgono due temi non trascurabili: l’oggetto di ciò che si promette ai residenti, ai lavoratori e ai visitatori delle aree rigenerate; la natura stessa delle operazioni immobiliari.

L’impressione, infatti, è che nozioni quali helpful home o dynamic street, che rimandano entrambe a Google, evochino aspetti inediti, così come la «cognitività» degli edifici o la «variabilità» delle strade.

Al momento, coloro che propongono tali opzioni tendono a rappresentarle come artifici innovativi specifici tesi a migliorare le condizioni esistenziali in un contesto «tradizionale» di interconnessione.

Occorre, forse, quindi, domandarsi quanto, al fondo, l’elemento esperienziale, comportamentale, esistenziale, possa, e, soprattutto, debba essere «digitalizzato» all’interno delle operazioni di rigenerazione urbana che, per il senso generale, hanno un risvolto, anzitutto, sociale, ma che, per gli operatori del settore della costruzione e dell’immobiliare restano principalmente legate alla «produzione» di «manufatti» tangibili.

Come sempre, bisogna chiedersi che cosa stia al centro di questi interventi di sviluppo immobiliare: una concezione tradizionale del prodotto immobiliare, una visione umanistica della coesione e della innovazione sociale o un paradigma ispirato alla sorveglianza? E, in quale dosaggio, questi tre aspetti possano convivere.

Il punto, perciò, non è solo in che misura questa dimensione di as an Experience Behavioural Contract possa essere commercializzata, strumentata, pattuita, bensì pure in che termini essa sia coerente con una cultura democratica e non riconduca, comunque, a una gated city.

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