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Edifici scolastici: è un tema post Covid? Le riflessioni dell'architetto Alfonso Femia

Una riflessione dell'architetto Alfonso Femia per INGENIO

È emerso in crescendo un certo affanno per stabilire quali potranno essere le nuove forme del vivere, abitare, lavorare, divertirsi nella dimensione collettiva.

Come sempre nelle occasioni di emergenza e di criticità sono anche già affiorate salvifiche tracce di “pensiero prefabbricato” apparentemente adeguate a risolvere ogni situazione: le formule (quasi) magiche per ospedali, uffici, residenze e ovviamente ci si spinge sino alle città e alle alternative possibili.

Si è parlato tanto di uffici per esempio e di smart working: i luoghi del lavoro si progettano già in modo completamente diverso. E se la maggior parte degli spazi è ancorata a layout superati e poco funzionali alle esigenze contemporanee non è per la mancanza di un modello di architettura, ma per la ridotta capacità o volontà di investimento di pubblici e privati, nel cogliere l’occasione di aggiornare gli edifici tra aspetti energetici e di layout distributivo. È anche importante sottolineare che è comunque grazie agli investimenti erogati dai grandi gruppi immobiliari che il modello si è aggiornato ed è trasferibile a tutto il parco patrimoniale degli uffici.

Poco o nulla si è detto per quando riguarda i luoghi dell’educazione, forse proprio perché l’erogatore principale dell’investimento è la Pubblica Amministrazione, nonostante la presenza di scuole e università private in Italia e nel mondo non sia trascurabile.

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Volutamente non uso il termine scuola, non per un autocompiacente indugio sulla perifrasi, ma per renderne più chiaro il significato: i luoghi dove si apprendono principi intellettuali e morali coerenti all’individuo nella società.

La coerenza con l’individuo e la società contiene in sé le premesse di un’evoluzione continua che deve essere sincronizzata con gli spazi preposti all’educazione.

Ecco, dunque, che il tema della scuola non è un “affare post Covid”, non solo.

Facciamo un passo indietro: negli anni scorsi, eventi drammatici e luttuosi hanno spinto a riconsiderare il tema della sicurezza degli edifici scolastici.

Già il fatto che l’attenzione sull’edilizia scolastica sia stata sollevata da crolli e tragedie la dice lunga su quanta poca cura l’Amministrazione Pubblica dedichi alla sua “cosa pubblica” più importante, semplicemente perché è la generatrice del futuro del Paese e del mondo.

Che poi le vie di rinnovamento degli spazi scolastici si siano incontrate all’incrocio tra sicurezza strutturale e riqualificazione energetica, senza anteporre come altrettanto urgenti altre considerazioni, di nuovo conferma quelle che, con generosità, possiamo definire visioni miopi.

Ma veniamo a oggi: tra i titoli che ho letto “Rientro in aula, la scuola non è un’azienda, nessuna fretta, priorità alla sicurezza” o ancora “Ritorno in classe, la scuola non è un parcheggio: per l’on. Ciampi serve massima sicurezza” si commentano da soli.

La sicurezza è un pre-requisito in termini assoluti, non c’è merito per l’aspirazione a qualcosa che dovrebbe essere incorporato nell’organizzazione degli spazi, a monte della programmazione.

Così in questo momento “l’acutissima” visione post-Covid, in ordine alla sicurezza e in previsione di una riapertura - comunque a settembre! - è quella di ingressi scaglionati e doppi turni. Ovvero una non-visione.

Chi sono gli utenti?

I ragazzi che frequentano la scuola sono afflitti da una serie di etichette: la più diffusa è quella che include bambini, adolescenti e giovani adulti nella Generazione Z, mercificabile attribuzione di desideri, pensieri, futuro, quasi sempre rapportata a modelli indietro, come minimo, di vent’anni.

E soprattutto, come tutte le etichette, mette un perimetro e dei vincoli al pensiero

Come vorrebbero che fossero i luoghi dell’educazione gli appartenenti alla GenZ?

Prima di tutto aperti e permeabili, generosi.

In termini progettuali, l’idea è quella di immaginare luoghi senza perimetro, di portare il paesaggio dentro l’edificio ma anche di disegnare volumi che consentano il processo inverso e dunque che la scuola sia paesaggio. Uno dei luoghi fondativi della città, dei territori, delle comunità.

Al posto della parola integrazione nel luogo, applicando il principio dell’ambivalenza: la scuola contiene una piazza ambientale ed è scenario interattivo dell’ambiente urbano.

In questo, e per assurdo, c’è persino una positività nell’effetto Covid: la scuola tradizionale reca con sé l’idea di limite fisico e psicologico, mentre, sia pure in modo un po’ forzoso, la Covid induce a pensare all’idea di uno “spazio intorno”.

Quello “spazio intorno” che è il luogo del conoscere, dello sperimentare, dell’applicare e che un’architettura attenta può riprodurre alla micro-scala dell’ambiente interno chiuso e alla macro scala dello spazio esterno in relazione con la città e con il “fuori”.

La progettualità innovativa deve porre grande attenzione agli spazi collettivi, quelli di pausa e attesa, che diventino generosi per dimensione e funzioni (musica, social ..), quelli della percezione e dell’incontro nei diversi momenti della giornata, sempre più influenzata da come ci rapporteremo con il nostro tempo.

Quante sono le scuole in Italia: le dimensioni di un problema

Negli edifici di nuova progettazione questi criteri progettuali vengono già applicati, se il progettista e il committente sono sensibili, altrimenti le regole o la loro traduzione asettica impongono spesso il contrario.

Ma, come sempre, il problema è rappresentato dal patrimonio di edilizia scolastica esistente, edifici dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta ed edilizia storica vincolata.

Diamo una dimensione numerica: secondo il Miur sono più di 40mila le sedi scolastiche statali alle quali si aggiungono circa 12mila paritarie censiti al 2019.

La distribuzione geografica conta quasi 14mila edifici scolastici nel nord ovest e più di 9mila nel nord est, più di 16mila al sud, più di 10mila nell’Italia centrale e quasi 8mila nelle isole.

La popolazione scolastica è di quasi 8 milioni di studenti di cui 919mila nella scuola dell’infanzia (gli “asili”), quasi 2 milioni e 500mila nella primaria, 1 milione 620mila nella secondaria (le “medie”) e 2 milioni 600mila nei licei, negli istituti tecnici e professionali.

Sono 91 le università in Italia, distribuite in 170 città (l’università Cattolica per esempio è diffusa in 11 città), quindi sono molti gli edifici dedicati all’insegnamento accademico per un totale di circa un milione 720mila studenti.

La maggior parte delle scuole si trova nei centri urbani ad alta densità di utenza ed è legata a schemi progettuali che erano la risposta a modelli didattici ed educativi di parecchi decenni fa.

Sulle 40mila scuole statali, il 4 per cento è stata costruita tra il 1700 e il 1800, il 4 per cento tra il 1900 e il 1920, l’8 per cento tra il 1921 e il 1945, dunque il 16 per cento di edifici risale a prima della seconda guerra; il 12 per cento tra il 1940 e il 1960 e il 27 per cento dal 1960 al 1975 (diciamo che poco meno del 40 per cento degli edifici scolastici è stato pensato prima del rivoluzione studentesca), solo il 32 per cento delle scuole è stato costruito dal 1976 in avanti.

Se pensiamo a come sono cambiati gli studenti dagli anni Ottanta a oggi, a come sono cambiati l’insegnamento e il modo di studiare, è immediato comprendere che l’impianto di scuola chiuso con aule e corridoi a scansire i percorsi è inadeguato ai progetti educativi.

A questo si aggiunga, nel breve, la necessità di un distanziamento fisico, che seppure difficile da raggiungere con i bambini e gli adolescenti, diventa impossibile in spazi così organizzati. 

Gli edifici non sono mai stati ripensati, al massimo adeguati sotto il profilo della sicurezza (solo l’8 per cento degli edifici è progettato secondo la normativa antisismica e il 54 per cento si trova in zone a rischio sismico).

Il settore dell’ufficio, come dicevamo, è riuscito ad assorbire il nuovo modo di vivere e di integrarsi nella società, accogliendo l’evoluzione del digitale.

La scuola non l’ha fatto, sembra già meritevole la distribuzione dei tablet, confondendo il vero contenuto d’innovazione con lo strumento.

Il patrimonio esistente, quando ne valga la pena, può essere valorizzato (considerando che solo dal 2015 il calo demografico ha ridotto la popolazione studentesca di 188mila alunni), non secondo logiche di “schoolwashing”, ma con proposte serie di trasformazione.

La necessità di una nuova scuola

Concretamente il progetto della scuola post coronavirus (ma proprio se vogliamo dargli un’etichetta, ma sarebbe meglio non farlo), dovrebbe svilupparsi su tre punti essenziali:

  • un edificio cellulare (non un edificio unico) con aree organizzate per diverse funzioni.
  • l’intorno dovrà essere colonizzato (piste ciclabili, spazi dedicati se ci sono parchi pubblici di prossimità)
  • filtri verdi, con diverse funzioni di rapporto con la città, e i diversi momenti della giornata e della ampia e articolata comunità che si muove intorno alla scuola, la vive, l’attraversa, la supporta, la gestisce, la sogna.

In sintesi, l’obiettivo è che la nuova scuola sia un ecosistema composto da spazi di relazione, grandi corti e luoghi aperti per la didattica e non solo per lo svago (l’intervallo!).

Ripensare gli spazi o pensare scuole nuove non significa fare edifici con grandi giardini, ma creare relazione tra la scuola e il quartiere, attraverso posizioni e percorsi protetti che consentano un’interazione tra gli studenti e i luoghi limitrofi.

Quando si affronta il progetto di un edificio questo è il primo passo progettuale che dia concretezza all’espressione “scuola osmotica”.

Nelle aree verdi si possono disegnare padiglioni semi-coperti o con protezioni rimovibili a seconda delle stagioni e dell’attività, piccoli spazi attrezzati per laboratori, ma anche per lavori di gruppo, e come spazi riservati per gli insegnanti, dunque multifunzione.

Dove non ci siano vincoli e condizioni ostative, la dismissione, la demolizione e la ricostruzione consentono di ripensare, anche in termini di opportunità economica, l’edificio.

Nota a margine, molte scuole del periodo 50-80 sono state bonificate, nel decennio precedente, dall’amianto in copertura, senza intervenire su alcun altro aspetto: occasioni e denaro persi.

Cosa significa scuola aperta?

L’effetto “rinascimentale”, augurandoci che ci sia, del post-Covid contiene in sé la potenzialità di ribaltare le logiche dell’architettura scolastica, abbandonando la “costruzione” dell’edificio e lasciando posto a isole aperte, passanti, in grado di accogliere l’evoluzione della didattica, di favorire le relazioni tra ci insegna e chi impara. Cito Peter Sloterijk nel libro Spheres III “La costruzione di isole è l’inverso dell’habitat non si tratta più di collocare un edificio dentro l’ambiente, ma di installare, creare, realizzare un ambiente nell’edificio”.

Ha scritto il giornalista Alessandro D’Avenia in un articolo “Scuole chiuse” pubblicato sul Corriere della Sera lo scorso 23 marzo, in piena pandemia: “La scuola del passato era una comunità di ricerca guidata da maestri in carne e ossa: «Ci andavano i ragazzi del vicinato, ridevano e vociavano nel cortile, sedevano insieme in classe, tornavano a casa insieme. Imparavano le stesse cose, così potevano aiutarsi per i compiti e parlare di ciò che avevano da studiare. E i maestri erano persone».

(…) la materia (che si insegna n.d.r.) è la «materia» con cui si i - e co-struisce l’edificio relazionale: a scuola non ci si va, ma ci si è, a patto che essa sia fondata su relazioni generative. Se ciascuno dà all’altro ciò di cui l’altro ha bisogno, la relazione rigenera le persone coinvolte e genera i cosiddetti beni relazionali, frutti specifici di una relazione (in quella educativa: cultura, autonomia, vocazione).

L’articolo si conclude con una domanda che è una dura provocazione “Le scuole adesso sono chiuse: ma prima erano aperte?

La necessità di una scuola “post Covid”

La riflessione che abbiamo sviluppato finora è che la scuola non sia un argomento da affrontare a causa della Covid, ma che sia, tout court, una necessità progettuale.

Tuttavia le ricerche più recenti sulle dinamiche di contagio rendono urgente il ripensamento degli spazi, anche in chiave sanitaria.

Lo scrive il New York Times (New Studies Add to Evidence that Children May Transmit the Coronavirus), riferendo di uno studio tedesco dell’Università di Berlino: nonostante i bambini, gli adolescenti e le fasce d’età più giovani della popolazione registrino tassi bassissimi di contagio e mortalità in tutto il mondo, i bambini sono contagiosi quanto gli adulti.

Un altro studio internazionale pubblicato sulla rivista Science (Changes in contact patterns shape the dynamics of the COVID-19 outbreak in China) relativo all’andamento della pandemia in Cina, a Wuhan e a Shanghai, mette in evidenza che l’indice di diffusione del contagio varia di un valore significativo, lo 0,3 per cento, quando le scuole sono chiuse.

È immediato comprendere come raccomandare di tenere la distanza sociale tra educatori e bambini, negli spazi scolastici che abbiamo a disposizione, sia di impossibile applicazione e nulla utilità.

L’architettura scolastica deve cambiare. Ci auguriamo che post – Covid significhi finalmente annullare i vuoti progettuali del passato, ma anche del contemporaneo, legati allo storico e inerziale scollamento tra architettura e realtà.


Atelier(s) Alfonso Femia e la scuola

La pratica progettuale di Alfonso Femia si lega a una riflessione teorica dinamica, dunque non ad assunti inderogabili, ma a pensieri coerenti con l’evoluzione del contesto e della società. Un’attitudine trascurata, addirittura invisa negli ultimi trent’anni in cui ha dominato la tecnologia come elemento essenziale dell’architettura.

Privare l’architettura della relazione con gli elementi fondativi della sensibilità progettuale, subordinarla all’influenza delle tendenze, senza spirito critico, ha generato edifici distratti dagli aspetti di comfort e benessere psicologico dell’utenza.

Se questo è vero per molte delle destinazioni d’uso dell’architettura, lo è ancora di più per quella scolastica, considerando che la scuola mette insieme interlocutori di generazioni differenti in una relazione professionale di somministrazione di contenuti e di accompagnamento alla crescita. Ricomporre la relazione tra i modi dell’apprendere e dell’educare e la definizione formale del contesto è, dunque, un tema di grande responsabilità professionale e di approfondimento sulle logiche di relazione, scambio e crescita, calate nell’evoluzione più ampia del contesto sociale.

Nei progetti di Alfonso Femia si legge chiaramente la volontà di individuare il maggior numero di nessi e relazioni che si possano mettere in campo in un’architettura scolastica.

Edifici scolastici: i progetti di Atelier(s) Alfonso Femia in Italia

1998/2007, Savona, campus universitario e centro di formazione

superficie: 8850 metri quadrati

Nonostante tutti i limiti e i vincoli dell’edificio di partenza, la vecchia caserma Bligny diventata campus universitario, si è trasformata in un insieme di edifici aperti e collegati, creando continuità tra spazi interni ed esterni.

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L’azione fondativa del progetto nata in dialogo con l’esperienza francese di Philippe Chaix, amico e architetto dello studio Chaix-Morel, si concentra su due temi: aprire il sistema edilizio creando un sistema poroso con il suo contesto e creare un grande spazio pubblico identificato da un sistema di pergole giganti che diventa identità del luogo e narrazione di uno spazio mediterraneo, mettendo in valore la natura presente, rompendo gli assi delle marce militare, per creare una sequenza di spazi pubblici, un paesaggio nel paesaggio.

Un azzardo sulla qualità del paesaggio dato dalla posizione in combinazione con una sua nuova funzione, gli edifici diventano luoghi affollati di interazione e di scambio con l’esterno generoso perdendo pertanto la condizione di densità potendo far parte del nuovo paesaggio.

Credit photo © Ernesta Caviola

2013, Zugliano, nuovo complesso scolastico – realizzato

superficie: 2500 metri quadrati

Costruire una scuola è un evento pubblico. Il nuovo complesso scolastico di Zugliano è un edificio rappresentativo e funzionale insieme, riconoscibile e semplice, dotato di una capacità di dialogare con il territorio e il paesaggio, ma protetto e protettivo.

Il progetto nasce da due elementi territoriali: la linea orizzontale del lotto e il profilo delle montagne e delle colline, usati per costruire un impianto capace di dichiarare la sua appartenenza al contesto, rafforzandone le caratteristiche proprie.

L’edificio si costruisce attorno alla volontà di creare una grande e generosa corte, intima e allo stesso tempo capace di disegnare il cielo della scuola, un luogo di appartenenza attraverso la materia del legno e le ali della copertura che vi si proiettano, richiamando un immaginario con cui dialogare tra colore, parti progettate e orizzonti multipli.

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Credit photo © Ernesta Caviola

La generosità della corte è un tema non soltanto dimensionale, ma sentimentale, con la possibilità di trasformarla secondo i diversi usi possibili, da piazza, a cortile di gioco, a momento per eventi con la comunità, a luogo di affaccio di tutte le attività della scuola. La scuola e la sua piazza, la corte e la sua comunità.

alfonso-femia_iulm--luc-boegly.jpg2015, Milano, Università IULM6

superficie: 9950 metri quadrati

L’edificio si rivela e si nasconde nel paesaggio in cui si inserisce di meta periferia, definendo attraverso i pieni e i vuoti la relazione con il contesto.

Un edificio aperto perché composizione di volumi semplici che si dichiarano per forma e materia con le funzioni, ma che creano un rapporto continuo tra dimensione intima e collettiva, come un luogo di formazione dovrebbe avere, in quanto chi lo vive , lo attraversa, lo custodisce è sempre sul crinale dal duplice sguardo, interiore ed esteriore.

All’intorno l’uso dalla materia (la ceramica, il vetrocemento, il mattone, il cemento) fa da filo conduttore a spazi che inducono allo scambio con il contesto e anche con le corti interne.

Credit photo © Luc Boegly

2019, concorso internazionale a inviti - vincitore, Legnago, complesso scolastico

superficie: 12 000 metri quadrati

"La scuola è il primo luogo in cui una comunità si forma e costruisce il proprio futuro e quelle del paese a cui appartiene. Il progetto per una scuola deve coniugare responsabilità e visione, rapporto con il tempo e senso di appartenenza, dimensione reale e immaginaria legata alle nuove generazioni che la vivranno e che in quei luoghi, di formazione e incontro costruiranno una parte importante della loro vita.
Questo l’assunto fondamentale di un progetto consapevole del proprio potenziale rigenerativo per l’identità ed il futuro del territorio in cui si innesta." ha affermato Alfonso Femia

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©Atelier(s) Alfonso Femia *AF517 & Diorama

Edifici scolastici: i progetti di Atelier(s) Alfonso Femia in Francia

2018-in corso, Avignone, ristrutturazione del sito Pasteur con creazione della “Villa Créative”

superficie totale: 7 540 metri quadrati

Il luogo è determinante, è il vettore di una storia. Possiede la sua propria identità, il suo carattere, e suscita emozione per la sua presenza. Si integra pienamente nel tessuto del centro Intramuros di Avignone. Il sistema di spazi pubblici fatto di passaggi, di strade e stradine strette, di piazze pubbliche si associa ai giardini privati e agli edifici pubblici per costituire una trama continua che garantisce il quadro della vita piacevole e dell’armonia della città di Avignone.

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©Atelier(s) Alfonso Femia *AF517 avec Detry-Levy & Associés

Il progetto pertanto prende le mosse dal carattere dei luoghi e dai “laboratori del pensiero”, nati al Festival di Avignone, il progetto di “Villa Créative”. Culla di soggetti come il risveglio della coscienza, la concezione del mondo di domani attraverso il prisma dell’arte, questi momenti di condivisione coltivano un senso critico rivolto verso il dialogo, l’incontro, l’emergere di un’identità creativa propria della città di Avignone.

La “Villa Creative” ha creato ponti, collegamenti, interazioni tra discipline sia artistiche sia scientifiche. Luogo centrale di pensiero, di dibattito e di scambio intellettuale e scientifico del Festival di Avingnone, la “Villa Créative” esce dalla sua “dimensione estiva” per coltivare questa unicità durante tutto l’anno e offrire alla città di Avignone un posto dove trascrivere gli assi identitari della cultura.

Il progetto di restauro e recupero funzionale crea un luogo trasversale e permeabile e mette in scena gli spazi aperti e la natura storica dell’impianto creando molteplici condizioni di rapporto permeabile e percettivo tra i diversi luoghi della formazione.

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©Atelier(s) Alfonso Femia *AF517 avec Detry-Levy & Associés

2020 – concorso internazionale a inviti – vincitore, Annecy, MAPI - Centro di Formazione e Ricerca

superficie: 3000 metri quadrati

“L'architetto ha messo l'utente dell'edificio al centro delle sue preoccupazioni, che si tratti dello studente, dello staff o del visitatore. Troveranno un ambiente di insegnamento adattato all'era digitale con spazi di coworking, spazi con mobili informali che facilitano il lavoro mobile in un'atmosfera amichevole. Tutto in un edificio emblematico rappresentantivo dell'USMB e rispettoso dell'ambiente.

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© Atelier(s) Alfonso Femia & Diorama

Il MAPI di Annecy avrà un ruolo importante non solo per la sua funzione ma per aver immaginato, alle diverse scale, un sistema poroso e permeabile con il contesto, che porterà alla realizzazione di un edificio universitario, formativo in ogni suo spazio, per la sua capacità di essere parte integrante del luogo rendendo tutte le parti del contesto che lo circondano parte fisica e percettiva dei diversi spazi didattici e conviviali.

Abbiamo voluto essere coraggiosi e proporre un edificio generoso nel suo piano terra aperto, attivo e attraversabile, nel rapporto con la strada, nella sua corte interna, nella piazza antistante che si collega al sistema degli spazi di accesso e pertinenza degli altri edifici. La responsabilità di portare l’ambiente dentro l’edificio, la generosità di eliminare perimetri e recinti dai luoghi del futuro, oggi quanto mai necessario.” ha dichiarato Alfonso Femia.