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Abusi edilizi, sanatoria, doppia conformità: come deve essere l'accertamento perfetto

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Abbiamo parlato svariate volte dell'art. 36 del dpr 380/2001, che prevede il cd. accertamento di conformità, grazie al quale possono ottenere il permesso in sanatoria gli interventi conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della realizzazione dello stesso e al momento della presentazione della domanda (la cd. doppia conformità).

In una recentissima sentenza, la n.1403 del 15 febbraio 2021, il Consiglio di Stato affronta proprio un caso del genere, esaminando la decisione precedente del Tar che aveva revocato una concessione edilizia in sanatoria in quanto "dolosamente infedele" e priva di doppia conformità per dei lavori edilizi inerenti delle scale e un box in muratura.

L'ultimazione dell'opera e l'onere della prova

Il Collegio ricorda come la nozione di opera ultimata ai fini della fruibilità del condono presupponga, per costante giurisprudenza dai cui principi non è ragione di discostarsi, lo stato di “rustico” della stessa, termine con il quale si intende che essa è completa di tutte le strutture essenziali, necessariamente comprensiva della copertura e delle tamponature esterne, che realizzano in concreto i volumi, rendendoli individuabili e esattamente calcolabili (si tratta del c.d. criterio “strutturale”, applicabile nei casi di nuova costruzione, in contrapposizione a quello “funzionale”, che opera, invece, nei casi di opere interne di edifici già esistenti oppure di manufatti con destinazione diversa da quella residenziale), ancorché mancante delle finiture (infissi, pavimentazione, tramezzature interne).

Palazzo Spada evidenzia in merito che, quand’anche la parte si fosse “accontentata” del titolo implicito evocato dal giudice penale ai fini della declaratoria di estinzione del reato (non assecondando le ulteriori richieste istruttorie da parte del Comune, sfociate nella sanatoria esplicita del 2002), la successiva emersione di obiettivi profili di non veridicità della declaratoria resa ai fini di far rientrare la realizzazione dell’opera nella tempistica di legge, ne avrebbe comportato comunque l’annullamento.

Ma attenzione: l'onere di provare l’avvenuta ultimazione dei lavori in tempo utile, grava esclusivamente sul richiedente. Ciò in quanto solo l’interessato può fornire inconfutabili documenti che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione dell’abuso.

La giurisprudenza ha peraltro anche affermato che tale prova deve essere rigorosa, non risultando a tal fine sufficienti dichiarazioni sostitutive di atto notorio, ma «richiedendosi invece una documentazione certa ed univoca, sull’evidente presupposto che nessuno meglio di chi richiede la sanatoria e ha realizzato l’opera può fornire elementi oggettivi sulla data di realizzazione dell’abuso» (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 1 ottobre 2019, n. 6578). In difetto della stessa, l’Amministrazione ha il dovere di negare la sanatoria ovvero, come accaduto nel caso di specie, di revocarla -recte, annullarla- ove emergano dati obiettivi inerenti un’epoca di costruzione incompatibile con il suo rilascio.

La mancata doppia conformità

Il Consiglio di Stato evidenzia che, seppure astrattamente, non essendo ancora spirati i termini del procedimento sanzionatorio, mai portato ad esecuzione, la parte ben poteva aspirare ad una “sanatoria ordinaria”, è evidente la mancanza dei presupposti normativi per potere accedere alla stessa.

L’accertamento di conformità, infatti, a differenza del condono, dal quale si diversifica per presupposti e procedura, richiede il requisito della c.d. “doppia conformità”, ovvero la rispondenza dell’opera alle regole urbanistiche vigenti sia al momento di realizzazione dell’intervento che a quello di presentazione della relativa istanza. Essa costituisce condicio sine qua non della sanatoria, ed investe entrambi i ricordati segmenti temporali.

La “doppia conformità”, peraltro, si riferisce, per quanto sopra chiarito, all’epoca di realizzazione dell’abuso e a quella di inoltro della domanda, nel caso di specie risalente all’aprile del 1986, non a quella di rilascio del titolo: del tutto irrilevante, pertanto, si paleserebbe l’eventuale conformità dell’intervento al nuovo P.S.C., quand’anche fosse entrato in vigore e ammesso e non concesso che esso contempli davvero le possibilità edificatorie rivendicate dalla parte.

La sopravvenienza di un regime giuridico più favorevole (laddove, pure, prospettabile nel caso in esame) non consente certo di farne retroagire gli effetti ad illeciti preesistenti: diversamente opinando essa si risolverebbe a sua volta in una sorta di atipico condono normativo, del tutto estraneo alla cornice e alla finalità dell’istituto.

E’ evidente pertanto che l’avvenuto inoltro del preavviso di diniego, quand’anche avesse determinato l’allungamento dei tempi fino all’entrata in vigore del nuovo Piano urbanistico, non avrebbe comunque comportato il superamento delle ragioni giuridiche ostative al rilascio della sanatoria, quale che ne fosse il modello invocato. La natura necessitata dello stesso rendeva effettivamente inutile qualsivoglia contributo partecipativo del privato, non potendo comportarne in alcun modo un mutamento contenutistico.

LA SENTENZA INTEGRALE E' SCARICABILE IN FORMATO PDF PREVIA REGISTRAZIONE AL PORTALE

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