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Il Pensiero Digitale nell'Architettura

Il Pensiero Digitale nell'Architettura

Alcune recenti Deep Review di lavori dottorali in corso di svolgimento all'interno del Programma di Terzo Livello del Dipartimento ABC del Politecnico di Milano, a cui ho di recente partecipato, facendo parte del Collegio dei Docenti, hanno, a mio parere, messo in risalto una tensione, una dialettica, propositiva, ma certamente problematica, tra l'istanza di considerare tutte le molteplici variabili in gioco nella progettazione, e oltre, e quella di selezionarne aprioristicamente alcune.
Si tratterebbe, di fatto, di compenetrare la creatività colla scientificità, nel senso che la metodologia di progettazione diffusa in altri ambiti dell'Ingegneria possa, in qualche modo, essere applicata nell'Architettura.
Più probabilmente, il tentativo è quello di introdurre metodiche e protocolli che permettano di influenzare gli esiti dei progetti attraverso i processi ideativi, introducendovi una componente quantitativa, numerica, modellistica.
Il che, però, inerisce al quesito ultimo che riguarda «come i progettisti pensano».
I temi oggetto delle dissertazioni dottorali vertevano sulla digitalizzazione della progettazione in funzione di diversi aspetti del ciclo di vita (ambientali, comportamentali, fruitivi, manutentivi, strutturali).
In buona sostanza, la digitalizzazione cerca di profittare della formalizzazione di determinati fenomeni, rendendola computazionale, algoritmica, al fine della ottimizzazione delle scelte in termini di multi-purpose design optioneering, vale a dire, di progettazione probabilistica.
Non è un caso, peraltro, che, accanto a una versione classica della digitalizzazione che esalta la funzione di supporto del computazionale alla configurazione, umana, soggettiva, di forme singolari e irripetibili, ve ne è un'altra, eterodossa, legata all'artificial intelligence, al machine learning, che, sempre più esplicitamente ipotizza di semi-automatizzare le routine progettuali maggiormente ripetibili: per alleviare le attività noiose, ma anche per ridurre l'intensità del lavoro intellettuale.
Di conseguenza, appare evidente come la locuzione che si riassume nel middleware potrebbe bene esemplificare una esigenza di mediazione tra l'obiettivo di essere «generativi» attraverso il controllo e il dominio di tutte le variabili in gioco - una pretesa essenzialmente accademica - e quello di far prevalere una unica intuizione ex ante, formalizzabile, legittimabile o validabile ex post colla esplicitazione delle relazioni intercorrenti tra alcune variabili: una pretesa principalmente professionale.
In altri termini, se, da un lato, le più avanzate soluzioni algoritmiche e combinatorie di per se stesse non garantiscono la creazione di valore architettonico, da un altro, il loro uso eventuale postumo non è capace di risolvere carenze tecnologiche e fruitive originarie.
Ancora una volta, scientificità e creatività sembrano collidere nell'ambito delle discipline del progetto: col risultato che la prima è chiamata a venire in soccorso della seconda monodirezionalmente, perché, come ricordava Francesco Dal Co, non è inusuale che l'architetto non abbia, né che si preoccupi di avere, una idea precisa di come ingegnerizzare gli spazi e le forme che ha «composto».
In più, oggi la costruibilità è affiancata dalla operabilità, ampliando le responsabilità al ciclo di utenza, ancor più che di vita utile di servizio.
Ciò spiega, in definitiva, le ragioni per le quali ormai l'uso degli applicativi di BIM Authoring sia sempre più spesso associato ai software di Visual Programming o di Gamification, ma anche perché, computazionalmente, il «generativo» sia affiancato dal «cognitivo».
In un articolo apparso su Dezeen Elizabeth Evitts Dickinson affermava, qualche tempo fa, in merito, che «a common complaint with architecture today is that the experimental, exciting design presented at the beginning rarely finds itself expressed in the final building. That which was compellingly rendered does not become a reality, because somewhere between competition drawings and construction documents, the design morphs into a tepid version of the original concept, often owing to value engineering or a disconnect between vision and available materials».
All'Università degli Studi di Brescia è in atto, in effetti, un attento lavoro di investigazione sulle modalità digitali necessarie a evitare una soluzione di continuità tra le intenzioni progettuali della morfogenesi del progetto di architettura e i suoi sviluppi sino all'opera realizzata.
Tali tentativi vertono, principalmente, sulla possibilità di introdurre nella dialettica tra committenza e progettisti una duplice forma di interazione che passa attraverso la simulazione digitale dei flussi di utenti (del loro modo di muoversi nello spazio confinato e aperto traducibile in specifiche delle attività e dei servizi che i cespiti ospitano: motional pattern?) e la immersione mista di occupanti prospettici in una ottica di multi-sensorialità.
Recentemente, peraltro, Vittorio Gregotti affermava, sulle colonne de La Repubblica che i giovani architetti «vengono spinti a coltivare una pura professionalità, a saper corrispondere alle esigenze del committente, oppure ad avere una formazione figurativa stravagante e capace di essere attraente. E' pericoloso l'abbandono del disegno a mano. Con il computer si è precisi è vero, ma non si arriva all'essenza delle cose».
In queste frasi sono condensate le questioni principali che si possono riassumere grossolanamente colla dizione BIM e Architettura e che si rifanno a quanto osservato in precedenza.
In primo luogo vi è, infatti, il rapporto col committente che, per certi versi, è di complicità, ma che, in molti casi, è di contrapposizione, nel senso di dover far fronte a richieste dettagliate e cogenti, oltre a quelle formulate per via normativa e legislativa.
Occorre, dunque, chiedersi in che misura il dialogo computazionale, digitale, anziché analogico, tra il committente, l'architetto, i suoi consulenti tecnici, gli enti di controllo, influenzi l'esito finale sia in termini di conformità sia in termini di deroga.
A questo proposito, gli approcci multi-obiettivo attuali alla progettazione generativa e parametrica sembrano spesso ottimisticamente condensare nella locuzione ottimizzazione, sia pure entro logiche probabilistiche, non poche tematiche che probabilmente si nutrono negli scarti e nelle differenze piuttosto che non in una omologazione dei modi di pensare e degli apparati disciplinari.
D'altra parte, si stenta a comprendere come il ricorso alla modellazione informativa attenga specialmente alla natura della simulazione, anziché della rappresentazione, al controllo degli esiti immaginati di cui discorreva la Evitts, sulla scorta anche di un riferimento insistito alla intelligenza artificiale.
Nella recente call di ACADIA si rinvengono, in effetti, alcuni tratti salienti:
«rapidly evolving technologies are increasingly shaping our societies as well as our understanding of the discipline of architecture. Computational developments in fields such as machine learning and data mining enable the creation of learning networks that involve architects alongside algorithms in developing new understanding. Such networks are increasingly able to observe current social conditions, plan, decide, act on changing scenarios, learn from the consequences of their actions, and recognize patterns out of complex activity networks».
Altrimenti detto, la dimensione computazionale nell'architettura, sempre più pervasiva e sempre meno legata esclusivamente alla geometria, comporta una più immediata, non mediata, comprensione, da parte dei soggetti non strettamente disciplinari, delle conseguenze delle scelte progettuali.
I cosiddetti LOD, livelli di definizione o di sviluppo, evidenziano, ad esempio, magistralmente un equivoco fondamentale, perché sono intesi quali gradi di dettaglio incrementale della configurazione progettuale sulla scala del discreto, allorché in termini computazionali, la evoluzione dovrebbe assumere altra veste.
Qui sorgono distinte questioni che attengono a procedimenti mentali specifici:
1) gli oggetti, in realtà, valgono per le loro relazioni, per come si relazionano tra di essi: di conseguenza, a prescindere dalla formalizzazione, una volta che si generano (o si richiamano) tali entità, esse implicano che vi sia un sistema di scomposizione dell'opera, spaziale, oltre che oggettuale, che si sta concependo;
2) le caratteristiche geometrico-dimensionali oppure alfa-numeriche degli oggetti che sono contenuti nei modelli informativi molto spesso derivano da ambienti di calcolo specialistici, interoperabili coll'ambiente di modellazione informativamente: sino a che punto è possibile tenere distinti gli ambiti?
3) la valutazione della progressione della configurazione del modello informativo andrebbe effettuata su una scala del continuo, quale misurazione di densità informativa.
Ritornando al proposito iniziale, appare chiaro che vi sia il rischio di formulare approcci estensivi alla fenomenologia del ciclo di vita che conducano a tassonomie esaustive ma autoreferenziali da cui non si abbiano ulteriori evoluzioni, anche perché essi, a seguito dello sforzo classificatorio, intimamente immane, inducono ipotesi di sviluppo progettuale meccaniciste.
Al contempo, però, molte tendenze di ricerca nel campo architettonico sembrano eccessivamente narrative, poco attente a giustificare tecnologicamente gli obiettivi di partenza, se non col semplice ricorso a script.
Jean-Louis Cohen ha tenuto recentemente un importante corso su Frank Gehry al Collège de France, in cui ovviamente lo storico francese, già autore di un rilevante saggio sul tema della digitalizzazione in architettura, trattava anche gli aspetti digitali della cultura compositiva dell'architetto statunitense, nato a Toronto, in una collocazione complessa.
Solo da una analisi articolata possiamo sperare di trarre valore dai conflitti e dalle opposizioni che ci vedono oggi in grado di elaborare teorie e soluzioni molto avanzate, ma forse secondo modalità scarsamente «provocatorie», poco eclatanti, cosicché analoghe ipotesi, magari meno qualificate, espresse accademicamente altrove, catturano maggiori attenzioni e investimenti.
Le review e i talk che, tra gli altri, questo Programma Dottorale propone mi paiono un ottimo espediente per sollecitare quel confronto, quel dibattito, che generi interesse, che faciliti una crescita comune, e che possa, infine, attrarre adeguate risorse.