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Etica del lavoro e spazio della festa

Per gli antichi l’attività propria del saggio era la scholé, che i latini hanno tradotto otium, termine che indicava riposo, tempo dedicato all’attività intellettuale, studio, lentezza, quiete. Noi moderni l’abbiamo trasformato nel cosiddetto “tempo libero”, una sorta di scatola vuota da riempire come meglio aggrada, senza sottostare a orari rigidi o a programmi decisi da altri, tempo libero "da" qualcosa, ma non libero "per" qualcosa. In realtà, l’idea del tempo libero nasconde due malintesi. Il primo è la convinzione che il tempo del lavoro non sia libero, in quanto occupato da un’attività già preordinata e sottoposta a un ritmo fisso. Il secondo è che nella pausa dal lavoro sia davvero possibile fare tutto ciò che piace, in totale autonomia. Non è completamente vera né l’una né l’altra cosa. Da un lato, anche un lavoro dipendente e con orari non flessibili può essere svolto in modo libero, ossia con una quota di progettualità autonoma e un coinvolgimento personale profondo. Dall’altro, il tempo di non lavoro o di ferie non è detto che possa sempre essere riempito da attività scelte per il puro piacere individuale, visto che si è immersi in una rete di relazioni, amicali e familiari che influiscono sui programmi e sulle decisioni. Insomma, così come il tempo libero alla fin fine non è libero come si vorrebbe, neppure il tempo del lavoro è poi così schiavizzante come si potrebbe credere.
Riscoprire il senso autentico dell’otium andrà dunque anche a beneficio del nostro modo di impostare il lavoro. In altri termini, solo chi sa riposare e godere davvero della festa sa anche lavorare e viceversa. Tra lo stakanovismo di chi si impone ritmi di lavoro alienanti e l’inerzia di chi è incapace di rispettare orari e programmi, c’è un punto di equilibrio: quello del professionista in grado di gestire con serietà, ma anche con misura i tempi di lavoro, in modo da conciliarli con il tempo della cura delle relazioni e del riposo.
Oggi il mondo del lavoro rischia di assumere un carattere totalitario, riducendo al minimo lo spazio dedicato alla festa. In Giappone, dove un funzionario su 10 lascia l’ufficio dopo le 23 e l’84% dei professionisti supera l’orario di lavoro, esiste un termine, karoshi, che significa “morte per eccesso di lavoro”. In inglese il termine utilizzato è workaholism, letteralmente "ubriacatura da lavoro", una vera e propria dipendenza, che ha un effetto anestetizzante sulla sfera emotiva, erodendo poco la capacità di dedicarsi in modo reale e attento ad amici e familiari. La stessa possibilità di lavorare ovunque –il placeless work- reso possibile dalle nuove tecnologie che consentono di essere sempre superconnessi, accanto al lato positivo della flessibilità, presenta quello più oscuro dell’incapacità di “staccare” realmente dal lavoro e di distinguere l’ambito professionale da quello familiare.
Lo psichiatra viennese Viktor Flankl ha parlato della “nevrosi del manager”, che il fine settimana prova un acuto senso di vuoto esistenziale, perché ha giocato tutta la sua giornata sui cosiddetti valori “attivi” -agire, fare, realizzare, risolvere- mentre è incapace di gustare i valori “contemplativi”: ammirare, amare, incontrare, comunicare. Ma esiste anche la “nevrosi della moglie del manager” che, lasciata sola per gran parte della settimana e privata di relazioni significative, si dedica ad attività come bere (cocktail-parties), chiacchierare (social-parties), giocare (bridge-parties), dove lo stare assieme è solo funzionale allo scopo. La festa, allora, si riduce a “passatempo”, che distrae e riempie artificialmente il tempo lasciato vuoto dall'assenza di compiti, ma che non arricchisce né consente un’autentica ricarica delle energie spirituali.
Il filosofo tedesco Josef Pieper ci ha lasciato pagine intense sull’otium, inteso come atteggiamento festivo e capacità di intrecciare relazioni significative con gli altri. Fare spazio alla festa significa dedicarsi a ritrovare quell’armonia con se stessi, che spesso si smarrisce nel ritmo intenso di lavoro. La festa non è la baldoria o la “dolce vita” e neppure il divertimento di massa, dove l’anonimato impedisce la partecipazione personale. Come c’è lo pseudolavoro, c’è anche la pseudofesta, la sua caricatura. Pieper invece la definisce così: “celebrare per un motivo speciale e in modo inusuale l’approvazione del mondo data già da sempre” (Sintonia con il mondo. Una teoria sulla festa, 1963). In altri termini, la festa è un tempo speciale, che viene a interrompere il ritmo abituale della giornata o della settimana, reso possibile da un atteggiamento di fondamentale ottimismo, inteso come accettazione del reale nel suo carattere di positività. Non può far festa il disfattista, lo scettico o chi ha perso la fiducia negli altri, finché non recupera un animo più aperto a cogliere gli aspetti belli della vita e degli altri. Neppure può far festa chi è frettoloso o chi instaura col mondo rapporti esclusivamente utilitari e commerciali. La festa è fatta di temporalità distesa e di intimità condivisa, dove l’homo faber sospende la quotidiana ricerca dell’utile e, attraverso la sosta più serena, riscopre il gusto del dono gratuito della proprio attenzione agli altri e la possibilità di riconciliarsi col mondo. Mentre, infatti, il lavoro ha sempre carattere agonico, come slancio volto a trasformare il mondo, vincendo anche le resistenze della materia, la festa nasce dalla quiete di chi si sente in armonia con la realtà, anche perché vi sa cogliere il senso della trascendenza. Ma per ottenere questo, occorre coltivare una sensibilità oggi resa sempre meno acuta da uno stile di vita eccessivamente orientato alla ricerca dei valori materiali –il successo, il denaro, l’efficienza. Per questo gli antichi associavano alla festa la quiete e la contemplazione dell’ambiente naturale o del bello d’arte: niente di più lontano dall’ansia consumistica del turista impaziente di visitare il maggior numero possibile di monumenti. L’arte della gratuità è il segreto della festa: uno stile di vita che fa guardare agli altri, alla natura e alle cose non come oggetti da usare a proprio vantaggio, ma da riconoscere nella loro alterità, per rispettarli e servirli.