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Il rischio chimico da acido solfidrico: quali sono i sistemi di rimozione?

Principali caratteristiche e pericolosità dell'acido solfidrico in relazione al rischio chimico, proponendo altresì un approfondimento specifico sui principali sistemi di abbattimento di tale gas.

Il presente lavoro intende esaminare le principali caratteristiche e la pericolosità dell'acido solfidrico in relazione al rischio chimico, proponendo altresì un approfondimento specifico sui principali sistemi di abbattimento di tale gas.

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L'acido solfidrico (o idrogeno solforato o solfuro di idrogeno) è un gas infiammabile e particolarmente pericoloso, a cui sono ascrivibili numerosi casi di decessi per esposizione a tale sostanza. Talvolta si è trattato di esposizione accidentale, ma molti episodi si sono verificati in spazi confinati [1].

Come noto, gli spazi confinati coincidono con ambienti di lavoro che non prevedono la presenza stabile dei lavoratori e che si caratterizzano per una scarsa ventilazione e per ingressi e uscite piuttosto disagevoli (es. serbatoi, silos, reattori, fognature, cisterne, vasche, ecc.). È bene poi evidenziare come molti ambienti possano divenire sostanzialmente degli spazi confinati durante l'attività produttiva o durante fasi che interessano la loro realizzazione o modifica [2].

Da cosa si può originare l'acido solfidrico

L'acido solfidrico viene prodotto dalla degradazione anaerobica della sostanza organica contenente zolfo; può rinvenirsi in pozzi, fogne, gallerie e può essere emesso da petrolio grezzo, acque stagnanti e miniere di carbone dove l'ossigeno è presente in quantità ridotte. Può poi riscontrarsi in impianti di trattamento dei rifiuti, di depurazione delle acque reflue, di produzione biogas nonché in aziende zootecniche. Un contributo alla produzione di idrogeno solforato deriva anche da fenomeni naturali, come, ad esempio, le attività vulcaniche. Esposizioni al gas possono altresì riscontrarsi nelle lavorazioni industriali dove tale composto viene correntemente impiegato (es. agricoltura, cartiere, concerie, raffinerie, metallurgia, settore alimentare, impianti di gas naturale, ecc.) [1, 2, 3, 4].

Occorre inoltre sottolineare, ad ogni buon fine, che l'idrogeno solforato può essere prodotto nei processi di combustione, e pertanto è concreto il rischio di esposizione a tale sostanza durante gli incendi, in particolare di materiali contenenti zolfo, quali, a titolo esemplificativo, lane, pelli, gomma. 

La estrema pericolosità dell'acido solfidrico ed il rischio connesso alla esposizione a tale sostanza costituiscono gli aspetti principali che il presente lavoro intende approfondire, con una sintesi in merito alle principali tecnologie di rimozione del gas.

Acido solfidrico: caratteristiche e pericolosità

L'acido solfidrico (H2S) è un gas incolore, a basse concentrazioni è caratterizzato dal classico odore di uova marce e ad alte concentrazioni è tossico ed asfissiante [2, 3].

È più pesante dell'aria (d= 1,19) ed è altamente infiammabile con formazione di miscele esplosive (LIE = 4% e LSE = 46%) [4]. È solubile in acqua (ad una temperatura di 20°C presenta una solubilità di 3.925 mg/l, a 0°C di 7.100 mg/l, a 60°c di 1.810 mg/l) [6]. Presenta una temperatura di fusione di -82°C e una temperatura di ebollizione di -60,25°C; inoltre, si caratterizza per una temperatura critica di 100,25°C ed una pressione critica di 89,7 bar [7].

L'odore dell'idrogeno solforato viene rilevato dall'individuo a concentrazioni di circa 8 ppb, anche se in letteratura si rinvengono riferimenti di soglie di rilevamento pari a 0,21 ppb. A concentrazioni superiori a 10 ppm (a partire solitamente da 20 ppm), può causare irritazione agli occhi e/o alle vie respiratorie. A concentrazioni superiori a 100 ppm diviene inodore a causa della paralisi dell'olfatto; in sostanza, l'idrogeno solforato a concentrazioni significative diventa molto insidioso in quanto, provocando la paralisi olfattoria, rende impossibile il riconoscimento sensoriale, per cui un individuo può trovarsi pericolosamente esposto senza però averne percezione. A concentrazioni pari o maggiori di 500 ppm provoca danni al sistema nervoso; oltre i 700 ppm determina una morte immediata in tempi rapidi [2, 3, 5, 6].

In termini di esposizione, i valori limite per l'ACGIH (American Conference of Governmental Industrial Hygienists) coincidono con un TLV-TWA pari a 14 mg/m3 e un TLV-STEL 20 mg/m3 [2]. È opportuno tuttavia evidenziare che l'Allegato XXXVIII (modificato dal decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 06 agosto 2012) del D.Lgs. 81/08 riporta, come valori limite di esposizione professionale all'acido solfidrico, un TLV-TWA pari a 7 mg/m3 (5 ppm) e un TLV-STEL pari a 14 mg/m3 (10 ppm).

In Italia sono riscontrabili numerosi casi di incidenti in ambienti confinati legati alla esposizione all'acido solfidrico, con riferimento in particolare ad operazioni di bonifica, depurazione e pulizia di vasche, cisterne, fosse, silos, ecc. [2, 4]. 

Un caso che appare meritevole di considerazione, dal punto di vista tecnico e scientifico, è quello delle discariche e degli abbancamenti di rifiuti da costruzione e demolizione con presenza di cartongesso. In condizioni anaerobiche e di particolare umidità, i fenomeni degradativi che interessano il cartongesso determinano la produzione di idrogeno solforato. Solitamente la concentrazione di acido solfidrico derivante dal cartongesso si attesta su valori tra 7 ppm e 100 ppm.; in alcuni casi, sono state rilevate concentrazioni molto pericolose (5.000 ppm – 12.000 ppm) [3]. È evidente quindi come il problema sussista, in particolare, in caso di contatto con gli operatori in spazi confinati (ad es. durante operazioni di scavo).

Sistemi di rimozione dell'acido solfidrico per ridurre i rischi

Al fine di prevenire i rischi connessi all'esposizione ad acido solfidrico, occorre anche individuare, progettare, realizzare e gestire correttamente idonei sistemi di captazione ed abbattimento del gas.

Solitamente i sistemi di rimozione dell'idrogeno solforato si suddividono in sistemi

  • biochimici (es. biofiltri, bioscrubbers, fanghi attivi),
  • chimici (es. scrubber chimici, ossidazione termica, ossidazione catalitica),
  • fisici (condensazione, adsorbimento con carboni attivi, absorbimento con acqua) [3].

Di seguito si approfondiscono i sistemi più comuni.

Nei biofiltri la degradazione dell'acido solfidrico avviene per via biologica attraverso l'azione di microorganismi, che colonizzano un supporto organico, i quali trasformano l'acido solfidrico in zolfo elementare e acido solforico, da cui poi deriva la genesi dei solfati. I biofiltri presentano problemi in caso di livelli di idrogeno solforato superiori a 5 ppm: in tal caso, si registra un incremento dell'attività dei microrganismi con una significativa produzione di acido nonché una perdita di carico nel letto a causa dell'accumulo di zolfo [8].

Alternativi ai biofiltri sono i bioscrubbers e i biotrickling filters, che utilizzano un mezzo di natura inorganica. 

I bioscrubber sono costituiti da due reattori a colonna: nel primo, a letto impaccato, avviene l'assorbimento del gas nel liquido immesso controcorrente; nel secondo, dove arriva lo scarico liquido del primo reattore, si sviluppano i processi degradativi ad opera dei microrganismi sospesi in soluzione acquosa. 

I biotrickling filters, invece, sono caratterizzati da un solo reattore a colonna in materiale impaccato, su cui aderiscono in biofilm i microrganismi, che trasformano l'acido solfidrico in zolfo e solfato; poiché i nutrienti non sono disponibili sul materiale inerte di supporto, gli stessi vengono forniti ai microrganismi mediante ricircolo continuo della fase liquida, in controcorrente al flusso di gas [8, 10].

L'assorbimento chimico, invece, si sviluppa all'interno di torri di lavaggio o scrubbers, solitamente a letto impaccato, dove avviene il contatto tra gas da trattare e soluzione liquida assorbente in controcorrente, con il passaggio quindi del gas nella fase liquida. Per la rimozione dell'idrogeno solforato, si possono utilizzare diverse tipologie di soluzioni (ad es. con idrossido di sodio, perossido di idrogeno, ecc.). Nel caso dell'assorbimento in scrubber, l'efficienza in termini di rimozione è abbastanza elevata [3].

Infine, l'adsorbimento rappresenta il fenomeno chimico-fisico per cui il gas viene trattenuto sulla superficie di materiali solidi, quali, ad esempio, i carboni attivi. I materiali adsorbenti necessitano di essere rigenerati o smaltiti, una volta neutralizzato l'inquinante. Dal punto di vista tecnologico, si ricorre solitamente ai sistemi a letti multipli, così da avere sempre disponibilità impiantistica in caso di rigenerazione dei materiali adsorbenti di altri reattori. In generale, l'adsorbimento con carboni attivi viene impiegato per concentrazioni non elevate di contaminante. In tal senso, i carboni standard dovrebbero essere impiegati per trattare livelli bassi di acido solfidrico (1-2 ppm); in caso di livelli più alti (20 ppm - 30 ppm), occorrerebbe impiegare i carboni impregnati o i carboni catalitici [8].

Appare utile rappresentare che i sistemi predetti sono impiegati molto spesso in combinazione tra loro, in considerazione della qualità e delle caratteristiche del gas da trattare (ad esempio flusso di gas con acido solfidrico e mercaptani) e del livello di idrogeno solforato presente, onde aumentare le efficienze di rimozione [8].

Si riporta di seguito una tabella (Tabella 1) che sintetizza in maniera qualitativa, in una scala da 1 (bassa) a 3 (alta), la efficienza dei sistemi descritti in termini di rimozione dell'acido solfidrico [10]. 

Tabella 1 – Analisi qualitativa delle tecnologie di rimozione dell'acido solfidrico (adattato da [10])

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Di seguito invece si riporta, a titolo puramente esemplificativo, una analisi sui costi relativi alle predette tecnologie, derivata da EPA [11]. Tale analisi fa riferimento ad un flusso di aria da trattare di 17.000 m3/h ed una concentrazione di idrogeno solforato in ingresso di 20 ppm ed in uscita minore di 1 ppm. A valle di alcune ragionevoli ipotesi di lavoro (anche dal punto di vista economico), è stata prodotta una sintesi che esplicita il costo di investimento, il costo di gestione annuale ed il costo complessivo annualizzato, con riferimento ad una vita di impianto pari a 10 anni e con i costi espressi in US $ 1988. Se l'adsorbimento a carboni attivi si configura come la soluzione con il costo di investimento più alto ($ 139.940) e di gran lunga superiore agli altri casi, il minor costo di gestione annuale è invece riferito al biofiltro ($ 7.870). Il costo maggiore di gestione annuale è ancora una volta relativo all'adsorbimento a carboni attivi. In termini di costo complessivo annualizzato, il biofiltro è il sistema con il costo minore ($ 25.750); subito dopo si attesta lo scrubber ($ 45.850) [11].

In sintesi, considerando le informazioni sopra riportate, si può dedurre che lo scrubbing e l'ossidazione termica rappresentano i sistemi più flessibili ed efficienti in termini di rimozione di acido solfidrico a diverse concentrazioni [3]; in termini di costi, considerando l'ultimo studio sopra citato [11], il costo complessivo annualizzato per lo scrubber è inferiore a quello stimato per il combustore termico ($ 69.720) e per il combustore catalitico ($ 51.900).

La bibliografia è all'interno dell'allegato

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Area di Ingenio dedicata tema della sicurezza al fuoco: normativa vigente, sistemi e tecnologie avanzate per la prevenzione e il controllo degli incendi

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