Intelligenza o intelligenze?
L’intelligenza artificiale è solo una delle molteplici forme di intelligenza umana e, pur offrendo strumenti potenti in molti ambiti, non potrà mai sostituire la ricchezza delle intelligenze umane, soprattutto quelle empatiche e spirituali. Il rapido sviluppo tecnologico impone riflessioni etiche, sociali ed educative fondamentali, affinché l’innovazione non comprometta i valori umani, ma li valorizzi.
Le tante forme di intelligenza sono indipendenti tra loro, ma si completano a vicenda
L’intelligenza artificiale è espressione dell’approccio logico-formale, dunque è solo una delle tante forme di intelligenza umana.
Nel 1983, lo psicologo Howard Gardner nel suo libro Frames of the Mind (H. Gardner, Formae Mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, Feltrinelli, 2013) suggerì l’esistenza di diversi tipi d’intelligenza umana. Egli ha postulato l’esistenza di intelligenze multiple che si sviluppano in culture diverse o nei singoli individui, superando il pensiero che restringe l’intelligenza agli ambiti linguistico e logico-matematico, a cui il mondo occidentale ha dato da sempre maggiore rilievo. Esistono invece altre dimensioni altrettanto importanti per gli esseri umani. Gardner, negli anni, ha individuato altri 9 domini dell’intelligenza:
- intelligenza spaziale (riconoscere e utilizzare lo spazio per orientarsi e risolvere problemi);
- intelligenza corporeo-cinestetica (coordinamento dei movimenti del corpo);
- intelligenza musicale (riconoscere e riprodurre melodie, toni e ritmi);
- intelligenza interpersonale (comprendere desideri e intenzioni degli altri);
- intelligenza intrapersonale (o introspettiva, è la capacità di riconoscere le proprie emozioni e utilizzarle per orientarsi nelle decisioni e nelle relazioni);
- intelligenza naturalistica (riconoscimento e classificazione degli oggetti naturali);
- intelligenza esistenziale (capacità di utilizzare il ragionamento astratto per riflettere su concetti universali);
- intelligenza spirituale (individuare obiettivi trascendenti nella vita);
- intelligenza morale (capacità di utilizzare i concetti di bene/male e i valori ad essi associati per orientarsi nella presa di decisioni e risoluzione dei problemi).
Questi diversi domini sono indipendenti tra loro, ma si completano a vicenda.
L’intelligenza non è dunque un insieme unitario, ma una rete di capacità che funzionano in modo più o meno sincronizzato.
Modestamente mi permetto di condensare in tre blocchi questi ambiti di «intelligenze»:
- il Sapere empirico (linguistico, logico-matematico, spaziale, corporeo-cinestesico, naturalistico);
- il Sapere empatico (intelligenze interpersonale e intrapersonale, cui aggiungerei la conoscenza emotiva);
- Sapere spirituale (esistenziale, spirituale, morale cui aggiungerei un sapere creativo).
Se si condivide questo punto di partenza si comprende come l’Intelligenza Artificiale non potrà mai soppiantare le intelligenze umane, ma emularne alcune, in particolare quella logico-matematica. Si tratta di una premessa che ritengo centrale per riaffermare la centralità dell’umano di fronte alle sfide della contemporaneità. Senza infatti le altre forme di conoscenza non si perderà la sfida della competitività, ma quella della conservazione della specie umana.
Il mutato scenario tecnologico
Un’ulteriore doverosa premessa: l’Intelligenza Artificiale non è una novità, se consideriamo gli algoritmi utilizzati. Essi sono stati sviluppati da decenni e si basano essenzialmente su modelli di reti neurali, da tempo conosciuti e utilizzati in diversi campi del sapere.
Nel 1956, l’informatico statunitense John McCarthy organizzò un convegno per affrontare il problema dell’«Intelligenza Artificiale», definito come «quello di rendere una macchina in grado di esibire comportamenti che sarebbero chiamati intelligenti se fosse un essere umano a produrli». La ricerca in questo settore è progredita rapidamente, portando allo sviluppo di sistemi complessi in grado di eseguire compiti molto sofisticati. Questi sistemi della cosiddetta “IA ristretta” (narrow AI) sono in genere progettati per svolgere mansioni limitate e specifiche, come tradurre da una lingua a un’altra, prevedere l’evoluzione di una tempesta, classificare immagini, offrire risposte a delle domande, oppure generare immagini su richiesta dell’utente.
Sebbene nel campo di studi dell’IA si riscontri ancora una varietà di definizioni di “intelligenza”, la maggior parte dei sistemi contemporanei, in particolare quelli che usano l’apprendimento automatico, si basa su inferenze statistiche piuttosto che su deduzioni logiche (Dicasteri vaticani per la Dottrina della Fede e per la Cultura e l’Educazione, Antiqua et nova. Nota sul rapporto tra intelligenza artificiale e intelligenza umana, 2025).
Ciò che è rapidissimamente cambiato negli ultimi pochi anni è lo scenario tecnologico, dato che - come spesso accade - la scienza precede l’applicazione delle proprie scoperte su larga scala. Similmente è avvenuto per l’IA. Analizzando grandi insiemi di dati con lo scopo di identificarvi degli schemi, l’IA può “predirne” gli effetti e proporre nuovi percorsi di indagine, imitando così alcuni processi cognitivi tipici della capacità umana di risoluzione dei problemi. Un tale risultato è stato possibile grazie ai progressi nella tecnologia informatica (come le reti neurali, l’apprendimento automatico non supervisionato e gli algoritmi evolutivi) unitamente alle innovazioni nelle apparecchiature che consentono anche di offrire soluzioni inedite non previste dai programmatori originali (Antiqua et nova. Op.cit.).
Sono quattro sostanzialmente le condizioni che sono radicalmente cambiate:
- la diffusione di sistemi di acquisizione dati, tramite la sensoristica diffusa;
- la conseguente enorme quantità di dati (160.000 miliardi di miliardi di byte nel 2025);
- le capacità di calcolo che hanno raggiunto dimensioni inimmaginabili fino a pochi anni fa (il supercalcolatore Leonardo a Bologna esegue fino a 200 milioni di miliardi di operazioni in virgola mobile al secondo);
- le capacità di trasmissione di dati (15.000 miliardi di bit al secondo sulla dorsale della ricerca italiana).
Tutto ciò consente di operare con i modelli in tempi molto più rapidi, di ottenere un elevatissimo numero di simulazioni numeriche complesse, di addestrare macchine ad apprendere dall’esperienza, ecc..
Una mole di informazioni senza precedenti, che le comunità scientifiche devono selezionare, archiviare, condividere, elaborare e interpretare.
Nel contempo non si deve scambiare la rapidità del calcolo con la presunta intelligenza dei sistemi: modelli basati su algoritmi deterministici hanno pure acquisito una potenzialità inedita e possono svolgere in tempi rapidissimi calcoli complessi.
I campi di applicazione
A fronte dunque di conoscenze scientifiche non recenti, di un avanzamento tecnologico imponente, di una diffusione di sistemi user friendly che fanno apparire la complessità tecnologica come una commodity gratuita, quali sono le domande che sorgono intorno ai sistemi di intelligenza artificiale?
Il tema è, come sempre, come pensiamo di gestire le sfide poste dall’IA, che si diffonde a prescindere dai tentativi di controllo e regolamentazione e che, soprattutto in alcuni campi, può dare un contributo enorme nell’affrontare grandi sfide globali?
Nel campo della sanità, i sistemi IA consentono un miglioramento dell’accuratezza diagnostica e una medicina sempre più presonalizzata.
Nel campo dell’economia l’IA determinerà importanti trasformazioni, che potrebbero liberare gli esseri umani da ulteriori attività ripetitive e a scarso contenuto creativo, ponendo nel contempo sfide molto significative ai profili di occupazione. Tra le più diffuse, le ripercussioni sulla trasformazione di molte professioni. Il già citato documento pontificio Antiqua et Nova evidenzia bene l’ambiguità: da una parte, l’IA ha le potenzialità per accrescere le competenze e la produttività, offrendo la possibilità di creare posti di lavoro, consentendo ai lavoratori di concentrarsi su compiti più innovativi e aprendo nuovi orizzonti alla creatività e all’inventiva.
Dall’altro, i lavoratori sono spesso costretti ad adattarsi alla velocità e alle richieste delle macchine… potendo paradossalmente dequalificarsi. Le IA potrebbero garantire un accesso equo, libero da logiche competitive di mercato ed una naturale propensione alla condivisione, ma generano incolmabili digital divide e pericolose concentrazioni di potere.
Una conseguenza diretta è la necessità di reskilling dei lavoratori, di formazione permanente e di revisione anche dei modelli di apprendimento.
Dal punto di vista ambientale, se le politiche di mitigazione e adattamento al cambiamento climatico possono avvalersi delle enormi capacità di simulazione di scenario, accrescendo la conoscenza del funzionamento degli ecosistemi, dall’altro l’impatto ambientale dei data center è altamente significativo. Si pensi che circa il 2% in media delle nostre emissioni di CO2 è già oggi legato al solo utilizzo della posta elettronica (si tratta di circa 150 kg all’anno a testa)
Dal punto di vista dei processi decisionali, se da un lato si intravedono le immense opportunità di sistemi di supporto alle decisioni e di velocizzazione di operazioni guidate da algoritmi assimilati al funzionamento del cervello umano, le questioni etiche e le preoccupazioni che suscitano sono molteplici.
Nel campo dell’informazione che è forse quello di maggior impatto su ampie fasce della popolazione, la creazione di informazioni rende già assai difficile non solo riconoscere le cosiddette fake news, ma – per converso – riconoscere anche le notizie vere, magari credute false. Le conseguenze sulla formazione del consenso nelle società democratiche è potenzialmente enorme!
La sfida della privacy: l’acquisizione di dati personali attraverso i sistemi digitali e le funzionalità degli smart phone soprattutto sfida decisamente la possibilità di conservare livelli elementari di privacy, al di là di tutte le possibili normazioni della tematica.
Da ultimo, ma non per importanza, abbiamo di recente dovuto ancora una volta constatare con sgomento il dual use delle tecnologie, che esprimono prioritariamente il loro livello di sviluppo nell’arte della guerra.
L'evoluzione del rapporto con la tecnologia
Nel 1865, nel Regno Unito, fu approvato il Red Flag Act. Le prime automobili avevano fatto la loro comparsa sulla scena urbana e venivano percepite come un pericoloso intruso. La norma imponeva di far precedere i primi veicoli da un pedone con un segnale di pericolo in mano (una bandiera rossa di giorno, una lanterna di notte).
Più o meno negli stessi anni iniziarono a diffondersi gli ascensori negli edifici, ma anche in questo caso le “macchine” venivano azionate da addetti. Misure che fanno sorridere, posti di lavoro (non certo qualificati) persi con l’evoluzione tecnologica. Ma la storia si ripete e, nella sperimentazione del veicolo a guida automatica, siamo ancora al livello dove l’auto può circolare solo con un operatore a bordo, che agisce solo in caso di emergenza.
Non vi è dubbio quindi che l’innovazione tecnologica travalichi gli aspetti puramente specialistici e mobiliti una riflessione molto più ampia, con conseguenze rilevanti a livello sociale, economico e geopolitico. In questo dibattito è molto importante il ruolo dell’Europa che, seppur indietro negli investimenti in ICT rispetto a Stati Uniti e Cina (come ben evidenziato dal recente Rapporto Draghi) e apparentemente frenata da un’eccessiva attenzione agli aspetti normativi, rappresenta tuttavia un modello cui fare riferimento affinché la crescita tecnologica non lasci indietro nessuno e garantisca quei pilastri irrinunciabili di democrazia, inclusione e crescita umana integrale.
Qualsiasi investimento in tecnologie avanzate o ricerca di frontiera richiede poi un livello di competenze adeguato, che deve essere costantemente sviluppato e valorizzato. Purtroppo l’Italia sconta un ritardo, posizionandosi al quint’ultimo posto tra gli Stati europei, con solo il 45,8% della popolazione in possesso delle competenze digitali di base (Report on the state of the Digital Decade 2024). Non brilliamo neanche per la percentuale di specialisti impiegati nel settore ICT: con il 4,1% ci collochiamo al quart’ultimo posto. Non abbiamo altra strada che cercare di colmare questo gap.
“Il futuro è imprevedibile, quindi non retroagisce come motivazione”. Da Benasayag a Galimberti, psicologici e filosofi ci ricordano che dobbiamo tornare a dare ai giovani le ragioni per una speranza. Se le tante crisi/transizioni che stiamo vivendo ci lasciano in una situazione di profondo smarrimento rispetto alle prospettive sul futuro a breve e medio termine, percepito come una minaccia che genera preoccupazione e angoscia, e non più desideri e speranze, l’IA sembra promettere una prospettiva opposta. In molti campi del sapere è estremamente promettente. Sapere prima e meglio può salvare vite umane, generare ricchezza e benessere.
Se il futuro sarà prevedibile, potremmo un giorno anche avere informazioni sul nostro destino personale, forse anche sulla durata della nostra vita. Basterà tutto ciò a ridarci quella fiducia che pare smarrita? Potremo recuperare la necessaria motivazione per agire? Avremo la capacità di utilizzare intelligentemente queste enormi potenzialità? Le avremo tutti allo stesso modo sul pianeta? Domande che mi pare ritornino frequentemente.
Domande e posizioni di retroguardia o, finalmente, una valutazione ex ante degli effetti del tecnopolio, troppo spesso attore incontrollato, ben più potente della politica? Abbiamo spesso pensato che “volere è potere”. Oggi pare siamo indotti a “volere ciò che possiamo”!

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