“Se non lascia traccia, non è architettura” – Dialogo a tre voci sul potere dello spazio
Cosa resta di un edificio se non cambia il nostro sguardo, i nostri percorsi, le nostre relazioni? Partendo da una provocazione di Byung-Chul Han, questo articolo mette a confronto un architetto, un sociologo e un filosofo in un dialogo vibrante: un invito a riflettere sul potere silenzioso dello spazio che abitiamo, ogni giorno, oggi più che mai, nelle nostre città.
Premessa
«Un potere che non esercita influenza non è potere».
Byung-Chul Han
Questa frase mi ha colpito come un promemoria gentile ma fermo: se qualcosa non riesce a toccarci, a spingerci a cambiare rotta anche di un solo centimetro, rimane sullo sfondo della nostra vita come un rumore a cui ci abituiamo. E allora mi sono chiesto: e se al posto di “potere” mettessimo “architettura”?
«Un’architettura che non è in grado di esercitare alcuna influenza non è architettura».
Ho scelto di prendere questa intuizione e affidarla a un’intelligenza artificiale perché fosse lei a immaginare un piccolo palco di confronto: un architetto, un sociologo e un filosofo che discutono fra taccuini, caffè e qualche bonaria interruzione. L’AI ha intrecciato le loro voci, io ho tenuto il filo delle intenzioni.
Perché? Perché credo che ogni edificio — dalla casa di campagna alla metropolitana — sia una lettera aperta indirizzata a chi la attraversa. Se non suscita domande, stupore o persino disaccordo, quella lettera resta non letta. Il dialogo che segue è un tentativo di farla leggere insieme, con curiosità e, soprattutto, con una dose di empatia: verso i luoghi, verso le persone che li abitano e verso chi li progetta.
Con questa variazione ho voluto testare che cosa potrebbe nascere affidando l’idea a un’intelligenza artificiale: un’arena di confronto in cui un architetto, un sociologo e un filosofo discutono, si interrompono e rilanciano spunti.
Il testo che segue è il risultato di questo piccolo esperimento – generato da AI, ma modellato sulle mie intenzioni di autore ... e infine un mio invito al lettore.
La discussione
(Una piccola sala, tre sedie a semicerchio. Sul tavolo schizzi di progetti, libri evidenziati e una caffettiera ancora tiepida. Le voci si accavallano, si interrompono, si rilanciano.)
Architetto (A) — sfogliando un taccuino di bozzetti
«Parto da un paradosso: se costruisco una casa perfettamente isolata – zero emissioni, materiali riciclabili, efficiente e… irrilevante per chi la abita o la guarda – ho fallito. Non basta la performance, serve la presa sul reale. L’influenza non è un optional ecologico: è la sostanza stessa dell’architettura.»
Sociologo (S) — si sporge, appunta qualcosa
«Attento, però: presa su chi? Sull’individuo, sulla collettività, sul territorio? Il potere di cui parla Han è sempre relazionale. Un edificio incide quando riorganizza la rete di relazioni: pensa alla High Line di New York. Era ferrovia dismessa, diventa passeggiata verde e, insieme, leva di gentrificazione. Influenza doppia, salutare per alcuni, tossica per altri.»
Filosofo (F) — annuisce, tocca un volume di Foucault
«Ed ecco la domanda etica: che potere vogliamo esercitare? Han ricorda che il potere invisibile – quello che orienta il desiderio senza coercizione – è più subdolo. Un’architettura che ammaestra senza apparire autoritaria può riprodurre disuguaglianze sotto la patina della sostenibilità.»
A — «Se l’architettura rinuncia a influire, abdica alla sua ragion d’essere! Non voglio fare scenografie neutre, voglio orchestrare esperienze: luce, flussi, odori. Guarda il cimitero di Asplund a Stoccolma: più che guidare, accompagna il lutto. Influenza carica di tatto, non di imposizione.»

S — «Tatto, sì, ma la città è un corpo collettivo. Mettere un ingresso su un vicolo o su una piazza cambia la traiettoria di mille vite al giorno. L’influenza è un moltiplicatore sociale; negli slum di Nairobi una soglia ben disegnata può valere quanto un micro-credito. È responsabilità politica.»
F — sorride
«Ci avviciniamo a Merleau-Ponty: lo spazio è un’estensione del corpo. Se allunghi un marciapiede, allarghi le possibilità percettive. E il corpo, percependo diversamente, ristruttura la coscienza. L’architettura è una fenomenologia in pietra.»
A — «Fenomenologia sì, ma anche gioco di forze economiche. Il ponte di Calatrava a Venezia: esile, fotogenico, eppure scivoloso, costoso, problematico per i disabili. Qui l’influenza c’è – tutti lo attraversano – ma la relazione è ambigua. È un potere che afferma l’ego dell’autore prima del bene comune.»
S — «E torniamo al potere invisibile: l’aura dell’archistar. La gente crede di desiderare quel ponte perché l’ha visto su Instagram; in realtà è il marketing a desiderare attraverso loro. Han direbbe: “La neolibertà coincide con la massima efficienza del potere”.»
F — «Serve una contro-retorica dell’influenza: un’architettura che inviti a pensare, non solo a consumare. Pensa alle biblioteche di Álvaro Siza nei villaggi portoghesi: edifici umili, catalizzatori di conoscenza. Potere trasformativo, senza clamore.»
A — chiude il taccuino
«Quindi: influire sì, ma con consapevolezza del contesto, del tempo lungo, dei corpi che attraversano. Non cerco neutralità; cerco un potere che emancipi.»
S — «Che renda visibili le alternative. Uno spazio che mostra che potevi camminare in un altro modo, incontrare persone diverse. Influenza come apertura.»
F — alza la tazzina, quasi in brindisi
«E ricordiamoci che, per Han, il potere autentico non grida. Così, l’architettura che lascia un segno duraturo potrebbe farlo senza clamore. Un sussurro di mattoni ben messi può cambiare più di un megafono di vetro.»
(Silenzio. Gorgoglia la caffettiera vuota. Poi si accende di nuovo la conversazione – disegni, mappe, planimetrie, e le infinite, sottili influenze che nasceranno dal prossimo tratto di matita.)
Conclusione & invito al lettore
La frase di Han, piegata al nostro mestiere, interroga ognuno di noi: fin dove deve spingersi l’influenza di un progetto, di un’opera, per meritare il nome di “architettura”?
Mi interessa conoscere la tua posizione.
- Se condividi, contesti o rilanci la provocazione, scrivi la tua riflessione e inviala a redazione@ingenio.one.
- Le opinioni più stimolanti saranno aggiunte in coda a questo articolo o, se più articolate, pubblicate come contributi autonomi su INGENIO.
Aspettiamo la tua voce, perché l’architettura – come il potere – esiste solo nella relazione con gli altri.
Se la “influenza” è un grado di “affezione” (come ci ricordava Kevin Lynch) sicuramente l’architettura è capace di generare oppositivamente queste “interazioni”. Diversamente, come scriveva Hegel nella “Estetica”, essendo l’architettura una forma artistica che ha anche il compito di confrontarsi sulla funzionalità, a volte si confondono questi “estremi” potenziali. Negli anni ho perso il bisogno di una definizione o di un postulato architettonico. Forse l’analogia e la metafora poetica mi aiutano a comprendere meglio cosa sia (o soprattutto non sia) ciò che piace definirsi come architettura.
Architettura
L'architettura moderna combina design innovativo e sostenibilità, mirando a edifici ecocompatibili e spazi funzionali. Con l'adozione di tecnologie avanzate e materiali sostenibili, gli architetti moderni creano soluzioni che affrontano l'urbanizzazione e il cambiamento climatico. L'enfasi è su edifici intelligenti e resilienza urbana, garantendo che ogni struttura contribuisca positivamente all'ambiente e alla società, riflettendo la cultura e migliorando la qualità della vita urbana.
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