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I giovani che in Italia non invecchiano mai

I giovani ingegneri neolaureati preferiscono emigrare dall'Italia verso paesi che valorizzano maggiormente le capacità tecniche e offrono stipendi più alti

I nostri giovani ingegneri se ne vanno, e noi li lasciamo andare; i tedeschi se li prendono e ringraziano. Un esodo crescente soprattutto nel Nord Italia dove la crisi morde di più, un’emigrazione mortificante perché è una generazione destinata a non tornare e ad impoverire il tessuto del paese.

Si parla da molto tempo di giovani: i motori per ripartire dopo la crisi, il futuro... e mentre molti agiscono, in Italia rimangono solo parole. Persino Spagna e Portogallo - che non brillano certo per solidità economica - hanno capito dove investire per ripartire, prevedendo programmi di sussistenza per i giovani. L’Italia invece segue il modello Greco dove un laureato tecnico su due fa le valige ed emigra. Troppa gola fa lo stipendio nel resto d'Europa, dove i neolaureati percepiscono fino al 50% in più e vedono quasi raddoppiare il loro reddito nel giro di cinque anni (fonte dati: Centro Studi).

E per il neolaureato che resta? Semplicemente non c'è sicurezza economica. Dalle multinazionali agli studi la musica è sempre la stessa: “Dobbiamo formarti, quindi non possiamo pagarti”. Una situazione talmente diffusa e radicata da non essere nemmeno più oggetto di discussione.

È In questo contesto che si inserisce la nuova riforma in discussione al CNI, che non può che trovarci critici perché invece di incentivare l'inserimento professionale e la crescita dei giovani, introduce nuovi obblighi: tirocinio, formazione continua, assicurazione professionale.

Sia chiaro, questi sono argomenti importantissimi. Un ingegnere deve essere formato oltre gli studi universitari, deve sempre tenersi aggiornato sulle ultime tecnologie e si auspica che sia anche assicurato per eventuali danni che può causare. Quello che non si condivide è rendere il tutto obbligatorio: il tirocinio è già stata un'esperienza fallimentare per medici, commercialisti e avvocati; la formazione con un numero minimo di crediti formativi riempie solo le tasche delle aziende che fanno i corsi, e se un ingegnere non firma progetti perché dovrebbe assicurarsi?

Immaginate un neolaureato che voglia svolgere la professione: dopo cinque anni di studio deve sobbarcarsi un periodo di tirocinio formativo, e poi come se non bastasse dei corsi per la formazione continua. A questo punto il super-formato, aggiunte le spese per l’assicurazione obbligatoria, andrebbe a lavorare a partita IVA (più finta che vera visto le 12 fatture annuali) in uno studio a compilare Scia e permessi a costruire scoprendo che il suo titolare non è in grado di usare un computer o di fare una telefonata in inglese, ma non è soggetto a formazione continua perché “troppo avanti con l’età”. Se invece il nostro giovane volesse mettersi in proprio troverebbe la concorrenza spietata dei colleghi non laureati che non avendo così tanti costi potrebbero spuntare prezzi quasi dimezzati.

Se vogliamo evitare una situazione del genere in futuro noi giovani dovremmo darci da fare. Siamo oltre il 40% degli iscritti, dovremo votarci e far eleggere dei presidenti nostri rappresentanti, anche andando contro le posizioni dei troppi senior nei posti di comando dell'ordine. Finora ci siamo fatti sentire con due interventi ai congressi di Torino e Bari, abbiamo ricevuto tantissime pacche sulle spalle per la nostra grinta e la nostra operosità, ma sostegni veri da chi conta molto pochi. Al congresso di Rimini, che è alle porte, saremo un centinaio e avremo un ruolo importante. Se il nuovo CNI prenderà delle posizioni chiare anche sulle problematiche giovanili sapremo di essere partiti con il piede giusto.

L’ingegnere non ha più lo smalto di un tempo e i primi che ne risentono siamo noi giovani, a cui vengono preferiti tecnici non laureati perché costano meno. Per arginare questo fenomeno si continuano a chiedere nuove norme al CNI, che non servono perché sono facilmente aggirabili. È la mentalità dei nostri committenti che deve cambiare, e questo richiede un enorme impegno comunicativo: il nostro operato è garanzia di professionalità, e non si limita alla compilazione di documentazione burocratica che può fare chiunque al ribasso. Farlo capire però richiede uno sforzo comune tra tutte le associazioni di categoria. È ora di puntare sul rinnovamento e di promuovere programmi che incentivino le società che nel loro statuto offrono concrete possibilità ai giovani di seguire un percorso che li veda stagisti, collaboratori, capi progetto ed infine partners (come succede in molti paesi all’estero).

Un buona riforma delle professioni deve essere formulata pensando al futuro, deve tenere conto di come è cambiata la professione in questi ultimi anni e come potrà cambiare nei prossimi. I singoli ordini, Inarcassa compresa, dovrebbero tutelare maggiormente i loro nuovi iscritti, che saranno i contribuenti di domani. L’ingegnere rappresenta l’innovazione e la capacità di usare la conoscenza, il motore per ripartire dopo la crisi; non preservare queste risorse significa non far progredire una situazione già arretrata, e promuovere l’emigrazione dei talenti. All’estero non esistono ordini professionali ma esistono associazioni private, la cui concorrenza è agguerrita e dettata dalle leggi di mercato, e di solito chi entra in questo tipo di sistema in Italia non ritorna più. E se fosse il modello giusto da seguire?