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Sagoma e prospetto: una contraddizione insanabile nel dpr 380/01. Analisi delle sentenze e commenti

Approfondimento di Ermete Dalprato

Sagoma e prospetto: le definizioni tecniche

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Che cosa è la "sagoma" di un edificio

Il concetto di “sagoma” di un edificio (manufatto in genere) è stato per lungo tempo affidato alla definizione delle norme locali (di piano regolatore o regolamento edilizio) o alla consuetudine tecnica.

In effetti non ha mai portato a definizioni molto discordanti fino a quando è diventato determinante per differenziare le opere soggette a permesso da quelle eseguibili con s.c.i.a. (una volta d.i.a.).

Oggi la sua definizione tecnica è contenuta nell’Atto di Intesa 2016 (in G.U. 16.11.2016) e tutti dobbiamo concordare sul fatto che la sagoma è la conformazione planivolumetrica della costruzione fuori terra nel suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali, nonché gli aggetti e gli sporti superiori a 1,50 m”.

Quel che sta sotto terra non rileva ai fini della sagoma: sagoma è solo quello che si vede. Piaccia o no questo è oggi norma nazionale e a quella utilmente ci adeguiamo.

Che cosa è il "prospetto" di un edificio

Sulla definizione di “prospetto” il Legislatore non si è ancora esposto formalmente lasciando la sua interpretazione alla tecnica.

Va da sé che il prospetto non influenza la sagoma; la sagoma invece influenza il prospetto.

E proprio da questa reciprocità sono nate alcune difficoltà interpretative di quel che comporta la loro modifica nella identificazione degli interventi edilizi e, purtroppo anche, sugli atti abilitativi dovuti per eseguirli.

La responsabilità però non sta nella loro definizione tecnica, ma nella disattenzione del Legislatore che non ne ha colto le reciproche relazioni. Cosa che continua a dare incertezze e dispiaceri agli operatori.

L’incidenza sul permesso di costruire e le precisazioni della giurisprudenza

Come si è detto non la definizione di sagoma, ma quel che comporta la sua modifica è invece oggetto di controversie applicative.

Tanto che, di recente una sentenza del Consiglio di Stato ha fatto sorgere discussione e ri-sorgere dubbi interpretativi.

Parlo della sentenza n.3370/2018 (confermativa della n. 4267/2016) che ha affermato che la semplice modifica del prospetto non comporta di per sé la necessità del permesso di costruire perché occorre che si sia in ambito della “ristrutturazione” e che quindi sia il frutto di “un insieme sistematico di opere ” come recita testualmente l’articolo 3, lett. d) del DPR 380/01..

Qualcuno si è sorpreso della sentenza perché in un’applicazione letterale (e, a mio avviso, un po’ acritica della norma) riteneva che quando si altera il prospetto si sia sempre nel campo del permesso.

Che peraltro, pare essere la posizione dei giudici penali della Cassazione (Sez. III 20.05.2014 - n.30575, Sez. III, 04.08.2017 - n.38853). Come spesso succede l’interpretazione del Giudice penale e di quello amministrativo differisce (la ristrutturazione è da sempre un tipico campo di battaglia). 

A me invece la conclusione di Giudici amministrativi pare coerente con una lettura sistematica della norma che sia fatta non fermandosi ai soli articoli 10 e 3 lett. d) nell’attuale stesura, ma risalendo alla genesi del testo.

L’evoluzione del DPR 380/01 in merito alla ristrutturazione

La citazione della “sagoma” era presente, nell’originaria stesura del DPR 380/01, all’articolo 3 lett. d, terzo capoverso, quando prescriveva che la demolizione e ricostruzione” degli edifici in genere poteva considerarsi “ristrutturazione edilizia” se, e solo se, oltre al volume conservava anche la sagoma preesistente. Diceva testualmente che gli interventi di ristrutturazione erano quelli “consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente”

Quando il Legislatore ha scritto l’articolo 10 in cui prevedeva le opere soggette a permesso ha elencato:

  • le nuove costruzioni
  • la ristrutturazione urbanistica
  • ed anche la ristrutturazione edilizia …..che però, comporti “… aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, …“

E ha combinato un primo pasticcetto.

Perché la ristrutturazione di cui parla il primo comma dell’articolo 10 non è quella dell’articolo 3 lett. d). La ristrutturazione dell’articolo 3, lett. d) era tale solo se conservava volume e sagoma; quella dell’articolo 10 poteva invece modificare sia sagoma che volume.

Per risolvere l’evidente discrasia (o errore del Legislatore?) la stampa prima, la dottrina poi (ed anche i testi di legge oggi – vedasi la Tabella A allegata al d.lgs.222/2016) si inventarono un nuovo termine affermando che quella dell’articolo 10 era sì ristrutturazione, ma “pesante”. Con ciò costituendo anche una nuova e diversa categoria di intervento non contemplata nell’articolo 3 e quindi inficiandone di fatto l’onnicomprensività che lo stesso Legislatore aveva inteso attribuirgli.

Le due norme non erano perfettamente simmetriche, perché la ristrutturazione (che anche noi ora definiremo) “pesante” era tale se comportava anche la modifica delle unità immobiliari o dei prospetti o delle superfici, elementi, questi, che non figuravano nella descrizione dell’articolo 3. Per di più il collegamento disgiuntivo “o” faceva ritenere che anche la sola presenza di uno di tali elementi comportasse la “pesantezza” della ristrutturazione.

Ciononostante però le due norme (dell’articolo 3 e dell’articolo 10) dicevano più o meno la stessa cosa, ovvero, in sintesi si trattava di:

  • Ristrutturazione (per così dire) “normale” (se c’era conservazione di volume e sagoma) = d.i.a. (oggi s.c.i.a.)
  • Ristrutturazione (detta) “pesante” (se c’era modifica di volume e sagoma – o anche solo delle unità immobiliari, dei prospetti o delle superfici -) = permesso.

Nel 2013 intervenne una modifica del DPR 380/01 che ridescrisse la ristrutturazione dell’articolo 3, lett. d) statuendo che poteva essere tale anche se conservava solo il volume preesistente e non anche la sagoma.
Testualmente nella ristrutturazione erano “…ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria [e sagoma] di quello preesistente,….” (la “sagoma era cancellata).

Così è ancora nel testo vigente in cui il riferimento all’obbligo di conservazione della sagoma è riportata solo all’ultimo capoverso dell’articolo 3 lett. d) quando si afferma che per i soli immobili sottoposti a vincolo la demolizione con ricostruzione o il ripristino di edifici crollati o demoliti possono essere considerati di “ristrutturazione edilizia” se sia rispettata anche la “sagoma preesistente”.

Il fatto che il Legislatore abbia modificato la norma già scritta eliminando l’obbligo della conservazione della sagoma nella ristrutturazione degli immobili non vincolati è assolutamente significativa della Sua volontà.

Pertanto per la “ristrutturazione “normale” la conservazione della sagoma (dal 2013) non è più un obbligo, basta conservare solo il volume.

Affermazione questa, se ben ricordo, mal digerita da molti.

Ma la norma statale prevale. Ed è indiscutibile.

L’origine dell'equivoco

Contestualmente il Legislatore sempre nel 2013 ha modificato anche il primo comma dell’articolo 10 per armonizzarlo con l’articolo 3 e anche qui ha cancellato la sagoma, scrivendo che la ristrutturazione era “pesante” se comportava: “… aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, [della sagoma,] dei prospetti o delle superfici, …”. Ha eliminato la sagoma, ma ha lasciato il prospetto e le superfici!

Nel 2014 ha nuovamente modificato il testo limitando la ristrutturazione “pesante” agli interventi che “… comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti,….”.

E ha fatto un secondo (più grave) pasticcio.

È sparita la sagoma, il volume è diventato quello complessivo, ma sono rimasti i prospetti.

Per di più rimane l’ “o” disgiuntivo.

Cosa ne consegue?

Ne consegue che se leggiamo l’articolo 3, lett. d) ne deduciamo che la conservazione del volume, pur con la modifica della sagoma, ci fa rimanere nel campo della ristrutturazione “normale”.

Se leggiamo l’articolo 10, 1° comma, ne dovremmo dedurre che la conservazione del volume con la modifica della sagoma è ancora “ristrutturazione normale”, ma se c’è modifica dei prospetti diventa “pesante”.

Ma siccome pare difficile modificare la sagoma senza modificare almeno un prospetto (direi che è impossibile) la modifica della sagoma comporterebbe (purtroppo comporta) automaticamente che si tratti di ristrutturazione “pesante”. In contrasto con l’articolo 3, lett. d).

In buona sostanza la sagoma, eliminata formalmente dalla porta (del testo scritto), è rientrata dalla finestra (dei prospetti).

Anzi, per via di quella “o” disgiuntiva, qualcuno interpretava che era ristrutturazione “pesante” anche solo la variazione dei prospetti in costanza di volume.

Il che appare illogico.

La sentenza or ora richiamata ci conforta nel fatto che il cambio del prospetto non comporta di per sé ristrutturazione e, quindi, non comporta permesso.

Perché ha affermato che innanzitutto si deve essere nel campo della ristrutturazione e quindi ci deve essere quell’”insieme sistematico di opere che la caratterizza”. Se questo manca non è ristrutturazione (neppure “normale”). Né tanto meno si esige il permesso.

 Il che è già un passo avanti rispetto a interpretazioni integraliste (evidentemente) errate.

Ma l'equivoco (il contrasto insanabile) permane

Ma il conflitto rimane perché il Legislatore ha detto (e continua a dire) due cose diverse in due articoli diversi e permarrà finché non metterà mano al coordinamento delle due definizioni.

E chi continuerà a farne le spese sono (in teoria) la chiarezza normativa e (in pratica) i professionisti, esposti alle interpretazioni del momento.

La proposta

Noi un’idea ce l’avremmo.

Come si è detto dianzi l’aver descritto all’articolo 10 una ristrutturazione diversa da quella dell’articolo 3, lett. d) è stato più un errore del Legislatore che una sua precisa volontà. Non foss’altro per il fatto che viola l’onnicomprensività delle definizioni per cui aveva già scritto l’articolo 3.

E che questo articolo volesse essere onnicomprensivo lo dimostra inequivocabilmente il principio di residualità con cui ha definito la “nuova costruzione”: “nuova costruzione” - lettera e) - è tutto ciò che non rientra nelle definizioni delle lettere precedenti.

Se dessimo prevalenza all’interpretazione giuridica dell’articolo 3 come articolo di principio (qual esso è) e interpretassimo con il principio di residualità in esso affermato anche l’articolo 10, ne conseguirebbe semplicemente che la cosiddetta “ristrutturazione pesante” altro non è che una nuova costruzione. Per il semplice fatto che non rientra nella descrizione delle lettere a), b), c), d) .

D’altra parte che cosa è un intervento che prevede volume nuovo rispetto al preesistente se non un pezzo di “nuova costruzione” (giustamente da assoggettarsi a permesso) ?

E ci semplificheremmo la vita così riformulando l’articolo 10:

“Va sottoposto a permesso:

  • la nuova costruzione
  • la ristrutturazione urbanistica.”

E basta. 


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Ermete Dalprato

Professore a c. di “Laboratorio di Pianificazione territoriale e urbanistica” all’Università degli Studi della Repubblica di San Marino

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