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Provvedimenti sui beni culturali: apodittici o integrati?

Il lettore mi consenta di presentarmi. Prima di immatricolarmi a ingegneria, molti anni fa, coltivavo la passione per l’arte e l’archeologia. Cinque anni di studio non sono bastati e rieducarmi come mio padre avrebbe voluto, e infine ho avuto la fortuna di lavorare in università nel settore del Restauro. Mi sono così divertito su temi di grande erudizione, ma anche a fare ricerca su aspetti molto pragmatici, nella convinzione che nelle torri d’avorio si dorme tranquilli ma non si vive bene.

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Europa, la New Bauhaus ?

Uscire dalla torre d’avorio ha comportato ricercare metodi per rendere gli edifici storici sicuri, accessibili, energeticamente efficienti, senza perderne lo specifico valore, e anche cercare strategie non banali per includere il patrimonio culturale nei modelli di sviluppo locale. Sostenendo da molti anni che il patrimonio culturale genera (può generare) valore, non mi ha sorpreso che la parola d’ordine dell’Europa sia divenuta la New Bauhaus, per cui non c’è sostenibilità senza cultura e senza memoria. Il patrimonio culturale è un formidabile laboratorio per la transizione energetica e digitale, come ha argomentato il gruppo di esperti da me coordinato nell’ambito “Patrimonio culturale” del Programma Nazionale della Ricerca 2021-27.

Questa esplorazione ai confini della disciplina mi ha portato spesso a confrontarmi con esperti degli altri campi, generalmente poco inclini a riconoscere al patrimonio culturale un regime d’eccezione, che peraltro trova fondamento nell’articolo 9 della Costituzione. Tale regime d’eccezione si basa su norme e pratiche di origine per lo più otto-novecentesca, che hanno tentato di procedimentalizzare un settore sicuramente difficile a definirsi. Sul piano giuridico si è raggiunta una solida maturità con il “diritto del patrimonio culturale”, cui tanto ha contribuito l’opera di Marco Cammelli, ma il dialogo quotidiano tra amministrazioni e tecnici, e tra i tecnici dei diversi settori, sembra ancora segnato da ignoranza, o almeno diffidenza.

Il Codice dei contratti ha una serie di articoli dedicati ai beni culturali, il decreto 154/2017 fissa gli aspetti regolamentari dei lavori concernenti i beni culturali, ma spesso questa parte del quadro normativo non è familiare, e manca proprio condivisione sul fatto che il patrimonio debba essere rispettato e valorizzato. E spesso manca pure un’idea articolata e informata di cosa si intenda per autenticità.

 

Soprintendenza, un arbitro dall’imperscrutabile pensiero ?

Quindi le norme di tutela sono poco note e la Soprintendenza è talvolta vissuta come un arbitro dall’imperscrutabile pensiero.

Indubbiamente la definizione stessa di bene culturale è stata, ed è, soggetta ad evoluzione. Si è passati nel corso del Novecento dalla tutela degli episodi eccezionali alla tutela delle testimonianze capaci di rappresentare il senso e le relazioni di un territorio, e quindi dal riconoscimento operato dagli esperti a processi più partecipati, che non escludono l’attenzione alla sensibilità delle comunità.

Questo ha reso la materia ancor più complessa e contesa: gli imbonitori televisivi continuano a parlare di opere eccellenti, di bellezza, ecc., in realtà la partita sui beni culturali si gioca ormai nei processi collettivi, anche attraverso le piattaforme digitali, che richiedono ancor più competenza e capacità da parte degli specialisti per essere attori di più ampie logiche di creazione di contenuti, che ora possono anche essere legati, ad esempio, a memorie locali o a inediti processi di inclusione.

Il riferimento legislativo peraltro esiste, e non è affatto oscuro: certo la legge mette in capo al ministero l’onere di decidere se un bene merita da parte dello Stato la protezione (comunemente detta “vincolo”), che comporta costi e opportunità per tutte la parti. Che tale decisione sia opinabile, sta nelle cose: si parla infatti di discrezionalità tecnica degli organi del ministero. Non è certo l’unico campo in cui i tecnici siano chiamati alla responsabilità di assumere decisioni in materie soggette a diversità di opinione: il punto è che quando si tratta di una valutazione discrezionale è necessario, al fine di giustificare la legittima adozione di un simile giudizio, che siano anche almeno sinteticamente indicati i relativi presupposti, dato che in caso contrario la decisione risulterebbe essere del tutto apodittica e non consentirebbe di valutarne l’intrinseca logicità. Per la giurisprudenza, infatti, le decisioni che la legge rinvia alla discrezionalità dei tecnici sono sindacabili, da parte di un giudice, non nel merito, ma nella coerenza tra il giudizio e i presupposti. Così, ad esempio, in una gara, una offerta può essere preferita ad un’altra sulla base anche di valutazioni qualitative, ma la commissione deve coerentemente motivare le proprie scelte, verbalizzando la ragioni della preferenza.

Nel caso di una dichiarazione di interesse culturale, o di una verifica dell’interesse culturale di un bene, quindi, il tecnico istruttore predispone una relazione argomentata a seguito di ricerche e accertamenti, che nel tempo sono divenuti sempre più accurati e circostanziati.

 

Le scelte del restauro sono affette da una componente di sensibilità

A sua volta la approvazione di un progetto è l’esito di una valutazione non automatica, anche perché le scelte del restauro sono comunque affette da una componente di sensibilità, e da orientamenti di metodo che differiscono da scuola a scuola, da contesto culturale a contesto culturale: tanto che il Codice dei beni culturali prevede (art. 29 comma 5) che il Ministero emani linee guida, redatte con il concorso delle Università ed egli Enti di ricerca, al fine di ridurre ogni margine di arbitrarietà e offrire riferimenti tecnici condivisi.

Ma anche quando queste specifiche linee guida saranno predisposte ed emanate, e si attendono ormai da diciassette anni, rimarrà il tema del fondamento e della coerenza del giudizio, perché una materia tanto sensibile quanto la tutela, affidata dalla Costituzione non allo Stato ma alla Repubblica, cioè a tutti noi, non rimanga affidata a giudizi apodittici, insindacabili, e perciò percepiti come distanti e aleatori. Nel mandato di un ministero dei beni culturali, il rapporto con i cittadini è centrale, dall’istante in cui un bene viene tutelato fino agli atti con cui la tutela, includendo conservazione e valorizzazione, viene amministrata. Sarebbe un bel problema se vincoli e progetti fossero decretati e approvati con atti cervellotici e immotivati. Appunto atti apodittici invece che integrati, e Umberto Eco mi perdonerà la parodia del titolo del suo famoso saggio.

 

Il punto è che il formulario di approvazione di un progetto non comprende le motivazioni.

Le ragioni del diniego sono espresse, non quelle della approvazione. Se quindi dei cittadini volessero sindacare il via libera ad un progetto non condiviso, irrispettoso della loro sensibilità, e può capitare, le ragioni del “nulla osta” non si trovano espresse nell’atto di approvazione: esse sono da leggere semmai tra le righe delle prescrizioni allegate, e nel progetto stesso. In effetti, la decisione di approvare si basa su quanto dichiarato nel progetto, sul quadro di conoscenze che consente di valutare la legittimità e la opportunità dell’intervento: quindi, per un bene architettonico, la invasività delle soluzioni tecniche, la loro sostenibilità, la loro rispondenza ai requisiti prestazionali, la compatibilità della funzione d’uso prevista, ma anche e soprattutto la comprensione dei valori culturali in gioco e l’attenzione ad essi riservati. Sarà la esaustività e coerenza dei documenti progettuali a dimostrare la logica dell’approvazione, lasciando al margine di discrezionalità le irriducibili componenti di sensibilità e di gusto.

Il processo di conoscenza e documentazione è dunque centrale, a partire dalla accuratezza e completezza del rilievo e dalla esaustività dell’indagine storica.

Mi è capitato di vedere progetti in cui la relazione storica era volutamente incompleta, e la definizione del bene fuorviante, come se l’obiettivo del progettista fosse quello di far fare al soprintendente la figura dell’imbecille, inducendolo ad autorizzare una riqualificazione inammissibile per legge, in quanto snaturante, per quella tipologia di bene culturale. Ovviamente, quanto sta nel progetto è asseverato dal progettista, con tutte le conseguenze sul piano civile e penale, e nessuno è perfetto, ma è bene riflettere su quanto pesi, in questa partita, una competenza tecnica che è sempre più specialistica: basti pensare alle tecniche d’indagine diagnostica e alle metodologie digitali oggi a disposizione per documentare lo stato dei luoghi. In altre parole, la trasparenza della approvazione dipende molto dalla adeguatezza e dalla qualità del progetto: i contenziosi si aprono tanto più facilmente quanto più i progetti sono redatti senza le specifiche competenze tecniche settoriali, che sono ben definite, ma che a molti conviene non riconoscere.

Dal punto di vista del soprintendente, esercitare il giudizio è anche una assunzione di responsabilità, fondata sulla completezza e veridicità degli elaborati progettuali.

Proprio per questa centralità della conoscenza nel garantire al soprintendente un esercizio coerente e logico della discrezionalità che gli compete, egli ha facoltà di chiedere integrazioni qualora ravvisi che il progetto è carente e quindi potenzialmente rischioso. Anzi l’art. 22 del D.Lgs 42/2004 prevede la sospensione dei termini per l’approvazione quando la soprintendenza richieda “chiarimenti o elementi integrativi di giudizio”, e contempla anche l’eventualità che “sorga l'esigenza di procedere ad accertamenti di natura tecnica” e quindi si proceda ad “accertamenti d’ufficio”, prolungando i termini per l’esame del progetto fino a trenta giorni. 

In realtà, la ricchezza del dato conoscitivo è anche una opportunità per l’esercizio della valorizzazione, che Pietro Petraroia ha acutamente definito “la componente relazionale della tutela”.

Conoscere e far conoscere i valori tutelati è il primo passo per non vivere i valori culturali come ostacoli alla vita, ma come opportunità per un ambiente migliore, quella New European Bauhaus che informerà il Next Generation EU: e non posso non pensare alla recente, incedibile vicenda del cosiddetto “emendamento stadi”, per cui i nostri onorevoli rappresentanti hanno votato fingendo di credere che per tutelare la memoria tangibile di Pier Luigi Nervi e di quella grande pagina di storia che fu l’ingegneria italiana del Novecento sia sufficiente un modellino in scala, e che un progetto di qualità non possa adattare uno stadio alle mutevoli esigenze funzionali, valorizzandone e sfruttandone i riconosciuti valori di capolavoro di architettura e ingegneria.