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L’identità dell’Architetto nell’era della Digitalizzazione

Una riflessione di Angelo Ciribini

L'influenza e l'effetto della digitalizzazione sulle professioni tecniche, tra cui quella dell'architetto, sono state oggetto di numerose indagini, tra cui, ad esempio, quelle condotte da Jennifer Whyte nel Regno Unito e da altri altrove, come testimonia il saggio di Sabine Ammon e di Remei Capdevilla-Werning dal titolo The Active Image. Architecture and Engineering in the Age of Modeling.

Alexandre Cojannot e Alexandre Gady, nel catalogo da essi curato della mostra parigina intitolata Dessiner pour bâtir - Le métier d'architecte au XVIIe siècle, ricordano, invece, come Claude Perrault lamentasse l'assenza di una tradizione biografica, improntata alle individualità, per l'architettura francese pari a quella riconducibile al Vasari per gli artisti nell'Italia, già a partire dal Quattrocento.

E' qui in ballo, evidentemente il grande tema statutario dell'identità dell'architetto come autore del progetto e dell'opera, per il quale una vasta letteratura nordamericana ha speso recentemente molte pagine, intravedendo, nel Digital Master Builder contemporaneo il prototipo della figura post-albertiana o neo-medievale.

Antoine Picon, protagonista non solo in ambito francese, ma anche nel contesto harvardiano, che sull'influenza della digitalizzazione nell'architettura contemporanea ha meditato profondamente a partire dai volumi celebri Digital Culture in Architecture e Ornament: The Politics of Architecture and Subjectivity, prima di scrivere il più recente La matérialité de l'architecture, ha dedicato un importante contributo focalizzato sulla transizione da Authorship a Ownership.

Sulla scorta di molti studi rivolti alle engineering consultancy come Arup e Atkins, promossi, in primo luogo, da David Gann all'Imperial College per lo scenario britannico, a proposito della gestione della conoscenza, il profilo del lavoro collegiale e integrato da molto tempo coglie l'immaginario degli studenti delle Scuole di Architettura e di Ingegneria, a sottolineare come, pur essendo al servizio delle personalità autoriali più importanti della cultura architettonica contemporanea, una certa dose di collettivismo permeasse, appunto, il primato solipsistico della firma dell'ideatore.

D'altra parte, Jean-Louis Cohen, oltre al lavoro filologico sui progetti di Frank Gehry, sullo stesso autore ha focalizzato una serie di lezioni al Collège de France, in cui la digitalizzazione riveste naturalmente un ruolo non secondario.

Mario Carpo ha, inoltre, sottolineato, nel suo The Second Digital Turn: Design Beyond Intelligence la funzione non secondaria che proprio la cultura architettonica ha esercitato nello sviluppo della computazionalità (della digitalizzazione), a prescindere dai riferimenti obbligati all'Aerospace e all'Automotive.

Scendendo a un livello inferiore, nel senso di maggiore prosaicità, il filone, prevalente statunitense, sia nelle accademie della costa orientale che in quelle della costa occidentale, precedentemente menzionato, ha accostato i termini collaborazione, integrazione, prestazionalità per giungere, nelle riflessioni di Phil Bernstein a Yale University, alla nozione di imprenditività dell'architetto, già altrove definito come Archi-preneur, come responsabilizzato sulla Performativity.

Se, poi, volessimo ritornare a una dimensione da design firm, occorrerebbe ricordare che una delle figure più rilevanti del paesaggio del Building Information Modeling, Patrick MacLeamy, ha rivestito a lungo un ruolo dirigenziale apicale in HOK, che certamente ha assunto un ruolo di riferimento sul tema assieme, ad esempio, a SOM, a Thornton Tomasetti e ad altri.

Tutto ciò per dire che le tappe di avvicinamento dello statuto dell'architetto contemporaneo (con tutte le eccezioni e le distinzioni che questa professione può avere nei diversi contesti culturali e giuridici nazionali) alla contemporaneità sono state impegnative e prolungate, tra Ottocento e Novecento, ma la sensazione è che la digitalizzazione ne solleciti, a ridotta distanza temporale dalla sua definitiva (?) stabilizzazione, una ulteriore ridefinizione identitaria.

Proviamo, perciò, gradualmente a ricomporre i pezzi del mosaico disperso, aggredendolo da due versanti opposti, anche sul panorama domestico: da un lato, si ritrovano i maggiori organismi di progettazione architettonica operanti anche sui mercati internazionali (in particolare, le società di architettura, con una personalità concettuale e giuridica più o meno diluita), che paiono avere con tempestività ed efficacia avere adottato logiche, protocolli e procedure digitali, sotto il duplice aspetto del Computational Design e dell'Information Modeling, tanto che nelle presentazioni ufficiali agli eventi specifici ormai il plot narrativo è indistinto e consolidato, a testimoniare un livello significativo di maturità del mercato professionale, spesso a prescindere dalle richieste dei committenti.

Si tratta di una precisazione importante, poiché se si ragionasse per exempla dimostrativi, il Nostro Paese potrebbe vantare una maturità non inferiore a quella di altri.

D'altra parte, entro un ambito totalmente differente, l'architetto, per così dire, territoriale o condotto, talora anche molto attrezzato strumentalmente, stenta a esplicitare la metodologia, poiché, sistemicamente si trova spesso isolato all'interno di reti di interlocutori analogici.

E', altresì, vero che nei primi embrionali casi di consulenza digitale prestata alle medio-piccole organizzazioni di progettazione, almeno per la fase di implementazione, si formano spontaneamente aggregazioni provvisorie di studi, che magari già operavano reticolarmente, sia pure in forma ufficiosa o informale.

E' chiaro che qui le rappresentanze possono giocare una partita non indifferente e non è che non lo facciano, come dimostra il Working Group attivato presso il Consiglio degli Architetti d'Europa, così come le iniziative promosse, ad esempio, in Germania dalla Bundesarchitektenkammer: epperò, chiaramente il punto di partenza, vale a dire, una politica di stimolo ai processi aggregativi, di crescita dimensionale, degli organismi, passa per il tramite di altri fattori, come per la riforma del diritto societario.

In definitiva, si accostano probabilmente, per la professione dell'architetto, due ipotesi esclusive: 

i) ritenere che si tratti di assimilare alcuni strumenti, un metodo, alcune procedure e un gergo, utili a rendere maggiormente produttiva (attributo, peraltro, blasfemo ai suoi occhi) l'azione dell'architetto e della sua compagine;

ii) profittare dei caratteri eversivi, di innovazione radicale, non solo incrementale, della transizione digitale per riconfigurare, appunto, lo statuto e l'identità dell'architetto.

Chiaramente, di là della polverizzazione esasperata del tessuto professionale (i famosi 170.000, ma in Germania sono 130.000: a fronte, comunque di altre centinaia di migliaia tra ingegneri, geometri e periti), è difficile propendere per la seconda ipotesi, non solo in virtù della parcellizzazione del mercato, ma, soprattutto, perché, a partire dalla cultura consolidata dei professionisti e dalla necessità di rivendicarne una rinnovata centralità (si pensi alla cosiddetta legge sull'architettura), impostare autonomamente una riconfigurazione identitaria apparirebbe ai più azzardato, se non incomprensibile.

E' palese, comunque, che possano darsi anche soluzioni intermedie, poiché, citando le curve di MacLeamy, all'architetto digitalizzato è richiesto di incrementare le proprie prestazioni professionali nelle fasi precoci della progettazione, oltre a tutto tenendo in conto i punti di vista altrui; di conseguenza, per quanto possa ancora valere nelle modalità attuali, urge una redistribuzione degli onorari e, come non ancora accaduto nel tariffario tedesco, che pur introduceva il BIM, citare la modellazione informativa ridefinendo le missioni professionali.

Come che sia, uno dei punti più sensibili in cui la digitalizzazione interviene nel processo di progettazione architettonica è sicuramente quello della morfogenesi, nel senso che, per gli architetti computazionali, la forma è algoritmicamente generativa, cosicché, per certi versi, potremmo immaginare che per essi non vi sia soluzione di continuità tra le fasi di evoluzione della progettazione.

Diversa è la questione che coinvolge coloro che adottano modalità più vicine al modello analogico e, in particolar modo, allo schizzo manuale, la cui riconduzione ai termini digitali è oggi praticabile col digital sketching, ma è condizionata da logiche di machine readability non facilmente coerenti con il modo di pensare degli architetti.

D'altra parte, come sostenevano i BIM Manager di Herzog & De Meuron alcuni anni or sono, lo sviluppo della progettazione non può essere strettamente lineare, ma deve passare per modalità iterative.

Che gli architetti siano direttamente script maker o che, all'opposto, traccino dirty signs on paper, come scriveva Ivan Sutherland al MIT per indicare il ricorso a dati non strutturati né leggibili dalla macchina, resta, in realtà, il tema principale: la committenza digitale, che è primariamente, o almeno dovrebbe esserlo, computazionale, in termini numerici avrebbe il compito di esprimere, non solo col capitolato informativo, ma specialmente nel briefing, la propria progettualità (indiretta).

Il che, ovviamente, rappresenta, agli occhi dell'architetto, una forzatura, un vincolo, dato che gli strumenti digitali dell'istruttoria (ad esempio, quelli di Space Programming) e quelli della verifica (di Code  Model Checking) permettono al committente di controllare puntualmente l'operato dei progettisti nella produzione dei modelli informativi (BIM Authoring).

Certamente la progettualità del committente tradizionale non può travalicare i confini del briefing, ma essa dispone oggi di applicativi computazionali molto analitici e, al contempo, potrebbe avvalersi di simulazioni di utenti e di dispositivi mobili basate sulla fluidodinamica e sui game engine.

Servono, dunque, committenti e progettisti, segnatamente architetti, che non considerino creatività o valore architettonico rispettivamente come la conformità a o come il rifiuto di requisiti informativi e contenutistici, che siano capaci di sostenere un contraddittorio in termini computazionali.

Sotto questo profilo, potremmo affermare che la creazione di valore architettonico in termini digitali nasca da una dialogo, anche aspro, da una dialettica tra la Domanda e l'Offerta.

L'attitudine collaborativa che è insita nella modellazione informativa dovrebbe, in teoria, imporre, inoltre, una maggiore integrazione, un maggiore dialogo, tra gli architetti e i loro consulenti tecnici, per non dire nei confronti dei costruttori (e dei gestori), dato che il ciclo di vita dei cespiti e il ciclo delle vite degli utenti si pongono come centrali.

Nei confronti della questione, il dialogo, spesso difficile, tra architetti e ingegneri sfocia in una dialettica, in questa sede digitale, che, tuttavia, a prescindere che si risolva antagonisticamente (da cui il conflitti tra oggetti: ma anche quello tra competenze) o collaborativamente, probabilmente muta il sistema di co-responsabilità in caso di non conformità o, addirittura, di errore.

La modellazione informativa appare, in ogni caso, solidale, anche quando ciò avvenga malgrado le intenzioni degli interlocutori, e, allo stesso modo, si pone l'esigenza di tutelare le proprietà intellettuali.

Oltre l'avversione dichiarata delle rappresentanze e dei professionisti per il cosiddetto appalto integrato, è evidente che per l'architetto e i suoi consulenti ingegneristici sia più agevole trarre elaborati coerenti dal modello informativo aggregato o federato, ma qualora si vada oltre i documenti, per impostare il modello tramite strutture di dati direttamente nel modello, sembra difficile che la razionalità di produzione dello stesso possa accomunare architetti (professionisti, in genere) e costruttori o gestori.

Se la presente riflessione era iniziata con il tema del primato autoriale, questo, per un canto, come è riconosciuto da molti decenni, è insidiato dalla complessità accresciuta delle opere e delle discipline, da un altro lato, la condivisione dei dati, e dell'autorialità, è, comunque, ostacolata da punti di vista non così facilmente sovrapponibili.

In realtà, non sono solo i processi a fare problema, o meglio a insidiare identità affermate, ma contano anche i prodotti: da questo punto di vista, nel momento in cui la digitalizzazione pone al centro l'utente o l'occupante, lo User Centrism, come detto, attraverso la possibilità di simulare i flussi (Crowd Simulation) e le interazioni (Gamification), l'umanesimo, che fa parte del bagaglio (retorico?) dell'architetto, è direttamente chiamato in causa.

Non si dimentichi che, in ambito strettamente analogico, Luca Molinari o Simone Sfriso, a proposito della residenza, avevano messo in luce una nozione di temporaneità dell'abitare che. più che richiamare a mobilità degli edifici o a loro temporaneità, evoca l'adattività e la evoluzionalità degli stessi, digitalmente, aggiungeremmo, abilitata.

Quando, poi, gli ambienti immersivi, colla realtà aumentata e la realtà virtuale, consentissero a clienti e a utenti prospettici di validare le soluzioni progettuali in tempo reale, questa attenzione spaziale e fisico-ambientale per il benessere dell'occupazione sarebbe veramente interrogata a fondo.

Non dimentichiamo che le più avanzate esperienze di Immersive & Interactive Design (già sperimentate, ad esempio, da Woods Bagot o da Sweco) si avvalgono di neuroscienziati e di psicologi cognitivi.

Il punto, ancora, è che il bene immobiliare a cui l'architetto è chiamato a sovrintendere si propone come interconnesso e cognitivo in virtù di Building Management System che fanno comparire al tavolo del preteso team-working ulteriori soggetti e nuove discipline: al servizio dell'architettura?

Si sostiene che la figura dell'architetto sia rinascimentale per eccellenza, che, grazie alla prospettiva, esso (egli o ella) abbia preso congedo dagli esecutori, in qualità di concepteur, ma che, nei secoli, la sempre maggiore complessità delle opere da ideare abbia reso necessario un apporto crescente di consulenti tecnici e una elevata formalizzazione dei codici di comunicazione, che ha permesso di giungere a modalità prescrittive veicolate da documenti supportate digitalmente attraverso il Computer Aided Design (CAD).

Di conseguenza, è un luogo comune affermare che sia in atto una transizione dal CAD al BIM, ma, in un evento tenutosi presso l'American Institute of Architects (AIA) Randy Deutsch già giustamente accomunava alle prime due ondate digitali la terza, quella legata all'AI (Artificial Intelligence).

Anzitutto, occorre rammentare che, grazie al concorso di Computational Design e di Information Modeling, di Visual Programming e di Data Modeling, si discorre già abitualmente di generatività, della possibilità, cioè, di adottare un approccio probabilistico alla individuazione di opzioni progettuali ottimizzate.

Oltre a ciò, alcuni evidenti segnali spingono nella direzione poc'anzi delineata, a cominciare dalla linea di servizi denominata i3 che AECOM sta offrendo sul mercato, fondata sulla Data Science.

Altri segni eloquenti sono rintracciabili grazie agli studi operati dalla Analytics and Insight Unit di ZHA, in merito alla individualizzazione e alla personalizzazione dei luoghi di lavoro, per mezzo delle Predictive Data Analytics, così come, ancor più intensamente, stanno facendo in WeWork gli architetti assieme ai Data Scientist.

Parimenti, in KPF, grazie al Machine Learning, si associano caratterizzazioni dei profili di utenza alle soluzioni funzionali spaziali, distributive, per le destinazioni residenziali.

Alain Waha, infine, in Buro Happold, sta capitalizzando e organizzando una molteplicità di commesse gestite digitalmente al fine di creare la base di conoscenza utile a semi-automatizzare alcuni processi progettuali.

Una analoga preoccupazione permea gli sforzi di Bryden Wood, specialmente legati al Design for Manufacturing and Assembly, nell'ambito di un ritorno di popolarità nel Regno Unito da parte dell'Off Site, ben testimoniato dalle audizioni parlamentari su Off-site manufacture for construction.

L’icona dello Automated Professional, oggetto di indagini presso University College London, si staglierebbe, in questo orizzonte, come Automated Architect: una suggestione naturalmente irricevibile, ma che, tuttavia, disvela l’ambizione, antica, di rendere meno tediose per la «creatività» le azioni routinarie, a scarso valore aggiunto.

Rimettendo, dunque, in ordine la sequenza logica dei ragionamenti, alla autorialità individuale, in qualche modo autoreferenziale, dell’architetto (adoperando una immagine non priva di forzature, forse persino caricaturale) si sostituirebbe una propensione, collettivistica, anonima (?), al travail collaboratif, già richiamata da Carlo Ratti, sino a giungere a una parziale sostituzione del lavoro intellettuale più codificato e ripetitivo cogli algoritmi.

Si tratta, perciò, di raccogliere, in maniera strutturata, grandi moli di dati per costituire, appunto, la base di conoscenza necessaria per sviluppare, ad esempio, modalità di Machine Learning.

Questa è la ragione per cui stanno subendo una accelerazione sia le piattaforme digitali disponibili ad accogliere e a supportare l’operatività corrente dei micro e dei piccoli professionisti sia le tecnologie che permettono di trarre da file CAD o da nuvole di punti, in maniera semi-automatica, oggetti riconducibili al BIM.

La sfida si situa nell'area delle identità delle professioni, tra cui quella di architetto, per cui, in una ottica comparativa, già i Susskind si erano spesi nel loro The Future of the Professions.

La morale che si propone solitamente, oggi per l'Ai come negli Anni Cinquanta per la nascita del CAD, è legata alla liberazione dei creativi dalla mediocrità: come si legge in una rubrica di Autodesk, Redshift, titolata How Machine Learning in Architecture Is Liberating the Role of the Designer, si legge: creativity will remain the realm of the human mind. And thanks to AI, humans are increasingly being afforded the ability to create and design the world they want to live in and leave the dirty work to the machines.

Ovviamente, il tempo liberato rischia sempre di degenerare in tempo libero, nel tempo della sostituzione. E' una incognita non evitabile, serve dirimerla.

Nel frattempo, alla rappresentanza degli architetti, centralmente e territorialmente, tocca gestire la transizione digitale della pancia profonda del mercato professionale, tra azioni di orientamento sul significato della trasformazione e richieste di alfabetizzazione strumentale.