Il collasso del Viadotto Polcevera a Genova ha suscitato molte discussioni sull’adeguatezza delle tipologie e dei materiali utilizzati negli ultimi decenni nella costruzione dei ponti, specialmente per quelli di grande luce.
Al fine di fornire argomenti di riflessione e prendendo spunto da una precedente pubblicazione a carattere divulgativo (Clemente & Pacilio, 1998), nel presente articolo si ripercorre la storia dei ponti con la loro evoluzione, legata all’evoluzione delle strade e delle ferrovie e dei mezzi di trasporto ma anche alle crescenti esigenze della navigazione, e si fornisce una breve panoramica dei materiali e delle tipologie utilizzate.
L’aspirazione a costruire un ponte risale al periodo neolitico. La costruzione dei ponti ha, quindi, origini che affondano le radici nella storia; anzi la storia stessa dell’uomo potrebbe essere studiata e raccontata attraverso l’evoluzione dei ponti nel tempo. Sin dall’età neolitica la necessità di costruire un ponte ha sempre avuto la stessa motivazione: superare un ostacolo offerto dalla particolare configurazione del terreno o da una realtà idrografica, al fine di facilitare gli spostamenti, i contatti con i popoli vicini, gli scambi, i commerci.
“Building a bridge is a war against the forces of nature” ha detto Joseph Strauss, progettista del Golden Gate Bridge di San Francisco. Infatti, altra componente che accomuna il passato al presente è la paura di fronte alla difficoltà dell’opera. Basti pensare che i popoli antichi all’inizio dei lavori usavano fare sacrifici umani per ingraziarsi il favore degli dei. Ancora Strauss: “Every span is something that can’t be done until the men in steel helmets have driven in their last rivet”, a dimostrazione che nella costruzione di un ponte la sfida è intrinseca.
Naturalmente il ponte non ha riscosso la medesima importanza per tutti i popoli dell’antichità. I romani, grandi costruttori di ponti, si distinsero perché per il mantenimento e il controllo dell’impero avevano bisogno di collegamenti veloci e sicuri. Dal IV secolo fino al IX secolo d.C., invece, l’interesse per i ponti diminuì notevolmente, dato che le unità politiche erano di superficie assai ridotta e di conseguenza non potevano affrontare le spese per la costruzione e la manutenzione di opere così impegnative.
Nuove scoperte e nuove tecnologie e anche l’uso di nuovi materiali hanno rivoluzionato i metodi di costruzione. Uno dei principi innovatori nella storia delle costruzioni è stato senza dubbio l’impiego dell’arco, che consente di trasferire le azioni verticali lateralmente. Successivamente, la disponibilità di materiali, come il ferro e il cemento armato, ha aperto nuove prospettive rispetto a quelle pensabili con materiali come legno e muratura.
I ponti primitivi furono costruiti in fibra naturale ed erano simili ai moderni ponti sospesi. La testimonianza più antica è fornita da una fune sul fiume Indus, vicino Swat, del 400 a.C., ma probabilmente il ponte sospeso era in uso già molto prima nel Sud Est Asiatico, nel Sud America e nell’Africa Equatoriale. In India, tra gli alberi usati come piloni, venivano disposti uno o due cavi principali in bambù, a cui era sospesa una strada pedonale a canne trasversali, provvista di cavi corrimano. Ponti simili, a volte costruiti con funi di vimini e viti ritorte, esistono ancora in Himalaya e altrove nel Sud Est Asiatico. Gli Incas, in Sud America, costruivano ponti sospesi con cavi in aloe (genere di piante delle liliacee) o intrecciati con vimini e con piloni di roccia naturale. Gli ancoraggi erano realizzati attaccando i cavi a pesanti travi di legno incrociate, tenute ferme da rocce. La manutenzione era affidata ai villaggi vicini, che dovevano provvedere ogni pochi anni alla riparazione e alla sostituzione dei cavi. Nell’Africa Equatoriale venivano utilizzate piante rampicanti di vario tipo per costruire i ponti.
Successivamente fu adoperato il legno. E’ probabile che il ponte a travata sia stato suggerito in natura dalla caduta degli alberi tra le due sponde dei ruscelli. Successivamente il ponte in legno assunse forme più complesse e robuste per superare luci maggiori, sopravvivendo alla diffusione dei materiali lapidei nel campo dei ponti, soprattutto per la difficoltà di trovare e trasportare tali materiali. Il legno si prestava bene alla costruzione delle travate, grazie alla sua capacità di resistere bene sia a sforzi di trazione che di compressione nella direzione parallela alle fibre; la sua leggerezza lo rendeva, inoltre, particolarmente adatto al superamento delle “grandi luci”; era, però, molto vulnerabile all’umidità e al fuoco. Altre caratteristiche negative sono la deformabilità e la difficoltà nella realizzazione delle giunzioni, che costituiscono dei veri punti deboli delle strutture in legno. Gli antichi ponti in legno non hanno retto al passare dei secoli e per questo non ne abbiamo testimonianze dirette.
In legno era il Ponte Sublicio, il più antico ponte di Roma, reso famoso dalla leggenda di Orazio Coclite. In legno erano, in genere, i ponti costruiti in guerra: nel De Bello Gallico (Cap. 17, Libro IV) è riportata la descrizione dettagliata della costruzione di un Ponte sul Reno; un bassorilievo della Colonna Traiana riproduce il famoso Ponte sul Danubio, costruito da Apollodoro presso Kladora in Serbia, all’epoca della spedizione di Traiano contro i Daci, composto da 20 piloni in muratura, sui quali poggiavano arcate in legno di 55 m di luce.
Dopo il periodo di distruzione dei ponti, che caratterizzò la caduta dell’impero romano, il ponte in legno fu adottato raramente per strutture permanenti, ma esempi notevoli non mancarono. Tra questi il Ponte sul Canal Grande a Venezia, dove ora si ammira quello di Rialto, il Ponte sul Brenta presso Bassano e il Ponte sul Cismone, nel Trentino, ad arco con luce di 36 m, questi ultimi disegnati da Andrea Palladio (XVI secolo).
Le migliori realizzazioni, veri capolavori nel campo dei ponti in legno, si ebbero in Svizzera nel XVIII secolo:
Notevole è stato l’utilizzo del legno per i ponti in America sia nell’800 che nel ‘900, mentre in Europa oggi si costruiscono ponti in legno soprattutto nei paesi nordici ma anche altrove, per passerelle pedonali e nelle zone montuose. Un interessante esempio è il Traversina Footbridge (1996) sulle Alpi svizzere, che supera una luce di 47 m, ed i cui elementi sono stati trasportati in sito con un elicottero.
Particolare cura è stata posta nella protezione degli elementi strutturali e nello studio delle oscillazioni indotte dal vento.
Uno sviluppo notevole nella costruzione dei ponti si ebbe con quella che è stata definita la più alta invenzione dell’arte classica in campo tensionale, ossia l’arco, che consentì l’impiego di materiali non resistenti a trazione, come la muratura. L’arco in muratura ha costituito fino alla metà del XX secolo la tipologia di gran lunga più impiegata nel campo dei ponti.
Insigni esempi sono stati lasciati soprattutto dai romani, ma anche da altre civiltà: l’arco era già conosciuto nelle antiche civiltà dell’Egitto, della Babilonia, della Persia, e nella Magna Grecia. Grande merito dei romani è stato quello di avere impiegato largamente l’arco, ma anche di aver utilizzato come legante il cemento naturale basato sulla pozzolana. La costruzione dei ponti sul Tevere era presieduta dal Collegio dei Pontefici, cioè dei costruttori di ponti, con a capo il Pontefice Massimo. Il titolo di Pontifex, che poi passò agli imperatori romani ed è ancora in uso per designare il Papa, è stato interpretato etimologicamente con riferimento a questa grande opera di ingegneria civile.
E’ senz’altro curioso il fatto che l’arco sia stato utilizzato per molti secoli senza che se ne comprendesse il funzionamento statico. Leonardo da Vinci propose delle regole pratiche per la progettazione di un arco e alcuni suoi schizzi dimostrano come egli si sia posto il problema di determinare la spinta, ossia l’azione orizzontale trasmessa dall’arco alle fondazioni in corrispondenza delle imposte. Nel primo trattato sui ponti, dovuto al francese Henri Gautier (1714), si fornivano delle regole auree, si suggerivano rapporti tra le dimensioni delle varie parti, si raccomandava di fare attenzione alla spinta, ma non venivano fornite indicazioni su come valutarla.
Le prime teorie sulla determinazione della linea delle pressioni, e quindi sulla spinta, furono di Claude Antoine Couplet (1730); successivamente l’argomento interessò molti insigni studiosi, tra i quali Charles Coulomb (1773), Gabriel Lamé e Émile Clapeyron (1823) e finalmente si scoprì il mistero della spinta e come proporzionare la spalla. Carlo Alberto Castigliano (1879) eseguì studi approfonditi sul regime statico degli archi; notevole è la sua analisi sul comportamento del Ponte Mosca di Torino.
La costruzione di un arco avviene per conci, posti in opera a secco o intervallati da malta, e necessita di una centina fino alla posa in opera dell’ultimo concio in chiave, che rappresenta l’operazione di “chiusura dell’arco”. L’altezza della sezione in chiave rispetto alle imposte è la freccia dell’arco. Il segreto dell’arco in muratura risiede non tanto nelle buone qualità dei materiali adoperati, quanto nella sua forma che deve essere tale da garantire che almeno una possibile curva funicolare dei carichi agenti si trovi ovunque all’interno della sagoma dell’arco. Gli archi romani erano di forma circolare a tutto sesto, il che determinava una forte limitazione della massima luce superabile: l’arco molto rialzato, ossia con rapporto freccia/luce elevato (nell’arco a tutto sesto è 0.5), non si presta bene al superamento delle grandi luci.
L’arco ribassato apparve in Europa soltanto intorno al ‘300, probabilmente a seguito dell’influenza cinese, dove invece era già utilizzato. Marco Polo (1254-1324) nel Milione parla dei ponti cinesi e descrive la Cina come un paese di fiumi e di ponti. Insigni esempi di archi ribassati costruiti in Europa sono:
Tra gli archi non ribassati merita un ricordo il bellissimo Stari Mostar sul fiume Neretva a Mostar, costruito nel 1566 dall’architetto turco Mimar Hajrudin su incarico del sultano Solimano il Magnifico, purtroppo distrutto nel 1993 durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina.
Nel mondo occidentale, oggi l’arco in muratura è considerato superato; tuttavia non lo è per altre civiltà, come testimoniano gli straordinari ponti cinesi, di realizzazione relativamente recente, caratterizzati da un rapporto freccia/luce molto basso:
Tali luci non avrebbero certo stupito Leonardo da Vinci che, per attraversare il Corno d’Oro ad Istanbul, propose al sultano Bayazid II un ponte ad arco di luce netta pari a 240 m, freccia di 57 m e spessore variabile da 42 m alle imposte a 9 m in chiave. L’opera non fu realizzata per le allora insormontabili difficoltà esecutive, ma la sua staticità è stata dimostrata da Stüssi.
Non mancano esempi di rudimentali ponti a travata di pietra. Un esempio è sull’East Dart River a Postbridge on Dartmoor nel Devon, che si pensa risalga al XII secolo ed è costituito da enormi lastre di granito poggianti su pile anch’esse in granito. Il più antico, costruito nell’850 a.C., è un ponte sul fiume Meles a Smyrna, l’odierna Izmir, in Turchia. Molto suggestivo è l’Anping Bridge a Chuanchow, importante porto marittimo cinese durante la dinastia Sung; completato nel 1152, è costituito da 331 pile di pietra, sulle quali poggiano travate formate da più blocchi di pietra affiancati, per un percorso complessivo di oltre 2000 m.
Il primo materiale moderno da costruzione, il ferro, diffusosi nel XIX secolo, è stato prontamente impiegato per la costruzione dei ponti. Prima ancora era stata utilizzata, verso la fine del ‘700, la ghisa. Il primo ponte in ghisa è quello costruito da Abraham Darby III sul fiume Severn a Coalbrookdale in Inghilterra nel 1779 e oggi considerato World Heritage Site dall’Unesco. Nel 1795 il Ponte di Darby sopravvisse a uno straripamento del Severn che aveva distrutto molti ponti, dimostrando la migliore tenuta dei ponti metallici e incoraggiandone il successivo sviluppo.
Invero, a parte il materiale adoperato, la tecnica risentiva ancora fortemente delle costruzioni in legno, tanto da impiegare per le giunzioni esclusivamente incastri a coda di rondine e a tenone e mortasa. La ghisa non ha avuto lunga vita, essendo stata soppiantata dal ferro e successivamente dall’acciaio, che non presentavano la fragilità e la scarsa resistenza a trazione della ghisa.
Le luci superabili sono diventate così sempre più grandi, grazie anche all’evoluzione dei sistemi strutturali, dalla trave semplicemente appoggiata alla trave continua, dalla trave ad anima piena alla travatura reticolare, ai sistemi spingenti a piedritti inclinati o ad arco, fino al ponte sospeso. Due ingegneri è doveroso ricordare:
Della stessa epoca sono il Ponte Luiz I sul fiume Douro a Oporto, ad arco di luce 172.5 m, a due vie, superiore e inferiore, completato nel 1885, e il Ponte di Paderno sull’Adda, ad arco parabolico di luce 150 m, sovrastato da una travatura reticolare con doppia carreggiata, stradale quella superiore, ferroviaria quella inferiore, completato nel 1889.
Al ferro si affiancò, verso la fine dell’800, questo nuovo materiale, i cui inizi sono dovuti a un giardiniere francese, Joseph Monier, che nel 1867 ottenne un brevetto riguardante la costruzione di vasi e recipienti in cemento con armatura di ferro. Nel cemento armato c’è una perfetta collaborazione tra il conglomerato cementizio, cui sono affidati gli sforzi di compressione e il compito di conferire rigidità agli elementi strutturali, e l’acciaio, cui sono affidati gli sforzi di trazione. Il nuovo materiale modificò radicalmente il mondo delle costruzioni: consentiva di realizzare qualsiasi forma e risultava molto competitivo dal punto di vista economico.
Nella costruzione dei ponti il cemento armato è stato inizialmente adattato alle vecchie forme dei ponti, tipiche della muratura, non sfruttando pienamente le sue potenzialità; successivamente è stato utilizzato liberandosi dai vincoli tradizionali, consentendo nuove forme e anatomie di strutture. Per quanto riguarda le luci superabili, il cemento armato non ha le potenzialità dell’acciaio, anche se rispetto ad esso presenta i pregi di una maggiore durevolezza e plasmabilità.
Il primo grande progettista di ponti in cemento armato fu François Hennebique, che utilizzò questo nuovo materiale con grande intuizione, anche se non con grande approfondimento teorico. A lui è dovuto il Ponte Risorgimento sul Tevere a Roma (1911), ad arco molto ribassato con luce di 100 m e freccia di 10 m, un’opera audace per geometria e modalità esecutive. Infatti, per ottenere un aumento della freccia effettiva rispetto a quella geometrica, e di conseguenza una spinta inferiore, si procedette al disarmo (rimozione della centina) anticipato, procurando delle parzializzazioni alle imposte, con conseguente abbassamento del baricentro delle sezioni resistenti.
Un nuovo modo di pensare l’architettura del cemento armato fu introdotto da Robert Maillart, il quale intuì le grandi potenzialità del nuovo materiale, realizzando ponti di grande eleganza e dinamicità, opportunamente alleggeriti rispetto ai tradizionali ponti in muratura. Tra le opere che hanno segnato la professione di Maillart ricordiamo il Ponte di Tavanasa sul Reno (1905), di 51 m di luce, nel quale arco e impalcato sono collegati in una zona centrale e si separano verso le imposte, e il Ponte di Salgina, a Schiers (1930), di 90 m, dove arco e impalcato erano collegati anche da alcuni setti.
Eugène Freyssinet molto spesso metteva in forza l’arco mediante dei martinetti al fine di distanziare le parti, prima della successiva colata che le solidarizzava. Questo mettere in compressione il calcestruzzo in modo artificiale gli fece intuire le possibilità di introdurre uno stato di coazione in una trave in cemento armato, al fine di mantenere ovunque il materiale in compressione all’applicazione dei carichi. Nel cemento armato, infatti, il conglomerato cementizio non viene utilizzato al meglio, in quanto la sua scarsa resistenza a trazione determina, da un lato, la presenza di materiale che non collabora staticamente e che rappresenta solo un peso morto, dall’altro, la formazione di fessure con conseguente esposizione dell’armatura e ossidazione della stessa. Lo stato di coazione viene realizzato mediante il mutuo contrasto tra cavi d’acciaio tesi tra le estremità della trave e la trave stessa. Il contrasto può avvenire alle due testate della trave, realizzando una precompressione a cavi scorrevoli, o per aderenza tra acciaio e calcestruzzo, e si parla in tal caso di precompressione a fili aderenti. A causa dei fenomeni lenti del calcestruzzo, noti rispettivamente come ritiro (riduzione spontanea di volume) e viscosità (deformazione differita nel tempo in presenza di carico costante), e del rilassamento dell’acciaio (riduzione di tensione a deformazione costante), lo sforzo inizialmente applicato tende a ridursi nel tempo. Pertanto, la realizzazione pratica della tecnica della precompressione è stata possibile solo quando si sono prodotti acciai armonici ad elevata resistenza, che consentono di applicare notevoli sforzi iniziali di precompressione; di questi, però, un’elevata percentuale (30-40%) va persa nel tempo.
La precompressione, quindi, ha consentito di realizzare strutture più snelle e di luce maggiore. Nel campo dei ponti in cemento armato precompresso spicca il nome di Riccardo Morandi, progettista sperimentatore più che calcolatore, che operò affidandosi prevalentemente al suo geniale intuito anziché a teorie astratte. Al suo nome sono legati 7 brevetti sui sistemi di precompressione. Tra le opere di maggior interesse: il Ponte San Nicola (1955) a Benevento, il Viadotto Bisantis sulla Fiumarella a Catanzaro (1962), che comprende un arco di 235 m di luce, e alcuni ponti strallati di grande rilevanza, di cui si dirà in seguito.
Molto utilizzati negli ultimi decenni sono stati i ponti costituiti da travi in acciaio e soletta in cemento armato, nei quali i pregi dei due materiali vengono esaltati. Alle travi in acciaio, infatti, sono affidati prevalentemente gli sforzi di trazione, alla soletta in calcestruzzo quelli di compressione nonché i compiti di conferire al complesso una sufficiente rigidezza e di creare una superficie adatta ad ospitare il piano stradale. L’acciaio-calcestruzzo è nato in modo piuttosto occasionale, notando come solai costituiti da travi in ferro e soletta cementizia, calcolati considerando portanti le sole travi in ferro, come se la soletta fosse semplicemente un carico morto senza alcuna funzione statica, si comportassero in realtà meglio di quanto previsto. Si capì che questo risultato era dovuto al contributo della soletta, possibile grazie all’attrito che si creava tra acciaio e calcestruzzo e come, migliorando questo attrito, si potessero avere dei grandi vantaggi. Inizialmente l’attrito tra travi e soletta era favorito dalla presenza, all’estradosso delle travi, delle teste dei chiodi che si opponevano allo scorrimento. Oggi le travi metalliche vengono composte mediante saldatura e, per contrastare lo scorrimento tra la piattabanda superiore e la soletta in calcestruzzo, si dispongono sulle travi metalliche dei pioli elettrosaldati.
Molto diffuse sono anche le strutture miste costituite da travi in cemento armato precompresso e soletta in cemento armato, nelle quali la precompressione è applicata solo ad una parte limitata della struttura, in particolare quella che risulterebbe altrimenti tesa, con ovvii vantaggi dal punto di vista economico.
La tipologia attualmente più diffusa è quella di travi appoggiate su pile verticali. Generalmente si tratta di strutture isostatiche, in cui la trave di ciascuna campata è indipendente da quelle delle campate adiacenti ed è semplicemente appoggiata sulle pile. Già per piccole luci il cemento armato non è vantaggioso dal punto di vista economico: attualmente nel campo dei ponti a travata i materiali più usati sono il cemento armato precompresso e il sistema misto acciaio-calcestruzzo, che offrono anche notevoli vantaggi dal punto di vista esecutivo. La prefabbricazione e il successivo montaggio consentono di costruire il ponte varando le travi, senza costruire una centina. Tale procedimento è particolarmente vantaggioso quando la struttura deve superare un corso d’acqua o, nel caso di cavalcavia, qualora non sia possibile interrompere il traffico sulla strada o ferrovia sottostante. Il varo può avvenire anche per spinta longitudinale, che consente di posizionare la travata anche su pile di notevole altezza e di superare grandi luci in aree impraticabili.
La travata può essere a sezione aperta o monoconnessa, formata da un insieme di nervature longitudinali, collegate tramite nervature trasversali e una soletta superiore, che ospita la piattaforma stradale, o a sezione chiusa o pluriconnessa, con soletta superiore eventualmente sporgente, per alloggiare il piano viario. La differenza tra i comportamenti statici dei due schemi consiste essenzialmente nel modo di fronteggiare i carichi torcenti, che causano una rotazione della travata intorno al suo asse longitudinale. Nella sezione aperta l’effetto dei carichi torcenti si traduce in un aggravio di flessione nelle nervature di bordo (torsione secondaria), mentre nella sezione chiusa viene fronteggiato dalla trave con la sua rigidezza torsionale primaria. La seconda soluzione consente di superare luci maggiori. Nello schema di trave semplicemente appoggiata la sezione maggiormente sollecitata è quella di mezzeria, dove si verifica il massimo momento flettente che, invece, risulta nullo in corrispondenza degli appoggi.
La trave continua, ossia la trave su più di due appoggi, consente di realizzare campate di luce maggiore rispetto alla trave su due appoggi, in quanto ciascuna campata esercita un’azione di “contrappeso” su quelle adiacenti. Avvicinandosi agli appoggi interni il momento flettente cambia di segno; i valori massimi assoluti del momento flettente si verificano in corrispondenza dei supporti interni e sono inferiori (per almeno quattro appoggi) rispetto a quello di mezzeria di una trave semplicemente appoggiata di uguale luce. Spesso si ricorre, per ovvii motivi di economia, ad una trave a sezione (altezza) variabile. Le pile possono raggiungere altezze notevoli: l’Europa Brücke, una trave continua a sei campate sull’autostrada tra il Brennero e Innsbruck, completato nel 1963, ha una luce massima di 198 m e la pila più alta di 146.5 m; il Viadotto sul Lao lungo l’autostrada Salerno - Reggio Calabria, è costituito da una trave continua a 3 campate, con luce massima di 175 m e pila maggiore alta 150 m.
Negli schemi di trave, sollecitati prevalentemente a flessione, il materiale è sempre scarsamente utilizzato. Infatti, nella generica sezione trasversale, solo ai due estremi, superiore (estradosso) e inferiore (intradosso), vengono attinte le massime tensioni, di compressione o di trazione. Tale inconveniente viene superato dalle travature reticolari, nelle quali la trave a parete piena è sostituita da un insieme di aste disposte secondo le direzioni preferenziali degli sforzi e pertanto soggette a sollecitazioni assiali, di trazione o di compressione. Si sfrutta così al meglio il materiale, riducendone al minimo la quantità e, quindi, il peso proprio delle strutture, obiettivo indispensabile quando si prendono in considerazione le grandi luci. Per ponti di luce maggiore bisogna ricorrere ad altri schemi statici, nell’ordine: l’arco, il ponte strallato, il ponte sospeso.
Grazie alla sua forma l’arco sopporta i carichi esterni prevalentemente mediante sollecitazione di compressione, con tensioni pressoché uniformi nella generica sezione e, pertanto, consente un migliore utilizzo del materiale. La limitazione teorica della massima luce di un arco è dettata da problemi di instabilità dell’equilibrio, tipici della strutture soggette a compressione. L’argomento, affrontato come pura curiosità scientifica da Leonhard Euler verso la fine del ‘700, ha trovato enormi applicazioni con la diffusione delle strutture snelle nel XX secolo.
Nel campo dei ponti, l’arco necessita sempre di una travata, collegata ad esso mediante elementi verticali (pilastri o stilate), che ospita il piano viario e che contribuisce al funzionamento del sistema strutturale arco-trave. A seconda dell’importanza del contributo della travata si passa dall’arco puro, nel quale l’elemento strutturale principale è l’arco e la trave ha solo il compito di trasferirgli i carichi su di essa agenti, all’arco a travata irrigidente, proposto ed adoperato da Roberto Maillart. In quest’ultimo schema avviene una ripartizione di compiti ben precisa tra trave ed arco: alla prima, dotata di una elevata rigidezza flessionale, vengono affidati i momenti flettenti; il secondo, invece, realizzato volutamente di spessore molto piccolo (una vera voltina), è sollecitato esclusivamente a semplice sforzo normale di compressione. Le stilate, che collegano la trave e la voltina, conferiscono a quest’ultima l’irrigidimento necessario per far fronte ai suddetti problemi di instabilità.
Si sono già ricordate le principali opere di Maillart. Tra le maggiori realizzazioni ad arco puro, invece, vanno ricordati il Ponte di Sando a Stoccolma (1943), 264 m di luce e 45 m di freccia, il Ponte di Sydney (1964) di 300 m di luce, e il Wanxian Yangtze Bridge in Cina (1997), con arco in cemento armato di 429 m di luce e 85 m di freccia.
Nel realizzare un ponte ad arco, inoltre, è necessario prevedere delle strutture di fondazione in grado di trasmettere al terreno azioni orizzontali di notevole entità, ossia la già citata spinta. Se il terreno di fondazione non è in grado di sopportare tali azioni, si può realizzare un arco a spinta eliminata, nel quale la spinta è assorbita da una catena, ossia un tirante che collega le imposte dell’arco. La catena funge anche da impalcato ed è sospesa all’arco: si parla, in questi casi, di arco a via inferiore. A seconda del tipo di sospensione, ossia con elementi verticali o inclinati, si hanno gli schemi Larsen o Nielsen, rispettivamente.
Di notevole interesse sono anche i ponti ad arco metallici, realizzati con una struttura reticolare. Oltre alle opere già citate, vanno ricordati:
Le recenti realizzazioni dimostrano una riscoperta dell’arco nel superare luci medio-grandi, dopo un periodo di scarso utilizzo, negli ultimi decenni dello scorso secolo. Nelle medie luci risultano oramai molto competitivi i ponti a travata in acciaio o in sistema misto e nelle grandi luci i ponti strallati e i ponti sospesi.
“Il problema delle grandi luci ha sempre affascinato sia gli specialisti che i profani. Per costruire un ponte di luce superiore a quelle precedentemente raggiunte occorrono non soltanto grandi conoscenze tecniche e capacità non comuni ma anche intuizione ed audacia creativa. Si tratta, infatti, di conseguire un trionfo sulle forze della natura ed un progresso nella lotta contro l’umana deficienza” (Stüssi, 1954).
La tipologia che consente di superare le luci maggiori è il ponte sospeso, che funziona come un arco capovolto. È costituito da una o più funi in acciaio (parallele, in genere almeno due), alle quali è sospeso l’impalcato (in acciaio o c.a.) che ospita il piano viario, mediante dei tiranti anche essi in acciaio. Le funi si sviluppano su tre luci, una principale e due laterali. Alle estremità delle luci laterali le funi possono essere ancorate agli estremi della travata, che risulterà fortemente compressa, e il ponte sospeso si presenta come un arco a spinta eliminata capovolto; in alternativa possono essere ancorate al suolo con la necessità di prevedere strutture di fondazione in grado di trasferire al terreno le azioni orizzontali, come per gli archi. In entrambi i casi, gli ancoraggi devono trasmettere al suolo le azioni verticali dirette verso l’alto (di sollevamento). Alla travata è affidato il compito di sopportare localmente i carichi, limitando le deformazioni. Al crescere della luce l’importanza della rigidezza flessionale della travata rispetto a quella estensionale delle funi, che può essere notevole per le piccole e medie luci, diventa sempre minore fino a diventare insignificante per le grandissime luci. Le notevoli dimensioni che si raggiungono rendono i ponti sospesi estremamente vulnerabili alle azioni dinamiche indotte dal vento. Anche la valutazione degli effetti di un terremoto è alquanto complessa, essendo i punti di appoggio molto distanti tra loro e quindi soggetti ad azioni sismiche diverse per intensità e fase, anche se le frequenze proprie di vibrazione sono molto basse e al di fuori dell’intervallo di interesse sismico.
Si è detto che i primi ponti sospesi avevano le funi in fibra naturale. La prima trasformazione di questi primitivi ponti sospesi costruiti con cavi di fibra naturale in cavi metallici avvenne in Cina, dove i cavi furono rimpiazzati da catene di ferro unite da barre del diametro di un pollice, e i piloni erano spesso in muratura. Un elegante esempio di questa tipologia è un ponte a catena di 60 m di lunghezza sul fiume Hwa Kiang, costruito nel 1632 e tuttora esistente. Molti ponti a catene più piccoli si trovano nel nord della Cina e per motivi di sicurezza i capi carovana sono ben attenti a limitare il numero degli animali che attraversano il ponte contemporaneamente.
I primi ponti sospesi dell’era moderna furono costruiti alla fine del XVIII secolo in Inghilterra e negli USA ed erano anch’essi a catene. A quei tempi erano già noti gli studi di Johann Bernoulli (1691) sulla catenaria e di Fuss (1794) sul cavo parabolico. La stabilità del ponte era affidata esclusivamente alle funi, mentre la trave aveva solo il compito di trasferire i carichi alle funi stesse.
Grande interesse per questo argomento c’era in quel tempo in Francia. Claude Navier visitò l’Inghilterra nel 1821 col proposito di studiare i ponti sospesi e nel 1823 pubblicò il suo libro Mémoires sur les ponts suspendus. Nel 1826 fu completato il Menai Straits Bridge di 175 m di luce, il quale creò uno standard di ingegneria per il futuro e stabilì un record mondiale per la sua lunghezza. Il ponte, che impressionò Navier e influenzò la maggior parte degli ingegneri di ponti, era sostenuto da catene con anelli piatti in ferro battuto. Le vibrazioni verticali e orizzontali dovute al vento lo danneggiarono: si comprese allora l’importanza della travata, la quale con la sua rigidezza flessionale poteva anche contribuire a ridurre la notevole deformabilità del ponte sospeso sotto i carichi verticali.
Ponti sospesi a catene furono costruiti anche in Italia: il Ponte sul Lima a Formali del 1840 è ancora esistente; parzialmente distrutto è il Ponte sul Garigliano, in prossimità della foce del fiume, mentre del Ponte sul Calore, presso Benevento, sono rimasti solo i piloni in muratura. Questi ultimi due ponti furono costruiti dai Borbone negli anni 1830-31, a testimonianza della loro sensibilità nei confronti del progresso tecnologico.
La tecnica migliorò rapidamente e nel 1883 fu completato il Brooklyn Bridge a New York, con piloni in muratura, che con i suoi 486 m raddoppiò la campata più lunga esistente. Lo sviluppo della teoria consentì di progettare ponti di luce sempre maggiore, mentre altri insuccessi, come quello del Tacoma Narrow Bridge nel 1940, di luce di 853 m con trave alta 2.44 m, che crollò sotto l’azione del vento dopo giorni di agonia, misero ancora in evidenza l’importanza della rigidezza della travata. Il nuovo ponte, costruito nel 1950, ha la stessa luce ma la trave è alta 10 m. Oggi si tende a realizzare travate di forma aerodinamica, trasparenti al vento, le quali recano il minimo disturbo possibile al naturale flusso dell’aria. Inoltre, il comportamento aerodinamico del ponte viene sempre studiato su modelli in galleria del vento, prima della costruzione.
Dopo il Brooklyn Bridge, l’utilizzo dei ponti sospesi ha consentito un graduale ma sensazionale incremento della luce:
Oltre a questi hanno fatto epoca, pur senza battere nuovi record mondiali: il Firth Road Bridge (1964, 1006 m) a Edimburgo, primo ponte europeo a superare il chilometro; il Bogazici Köprüsü (1973, 1074 m) e il Fatih Sultan Mehmet Köprüsü (1987, 1090 m), entrambi sul Bosforo a Istanbul; il South Bisan (1988, 1100 m) in Giappone, facente parte del Seto Ohashi Bridge, una prodezza ingegneristica costituita da tre ponti sospesi, due strallati, uno a travatura reticolare e cinque viadotti, tra le isole Honshu e Shikoku; il Xihoumen Bridge nell'arcipelago di Zhoushan in Cina, completato nel 2009, la cui campata centrale è lunga 1650 m e, pertanto, è il secondo ponte sospeso più lungo del mondo.
L’idea di creare appoggi intermedi per la trave, inserendo puntoni inferiori o tiranti superiori, era già nota da tempo ed era stata applicata da Palladio. Nel ponte strallato l’impalcato è sostenuto mediante cavi inclinati, gli stralli, ancorati all’altra estremità ad un pilone. Benché le prime strutture strallate risalgano al XVII secolo, solo negli ultimi decenni il ponte strallato ha avuto uno sviluppo fenomenale anche se le luci finora superate sono inferiori rispetto a quelle dei ponti sospesi. A favore del ponte strallato sono la maggiore economia di materiale, il minor costo di montaggio e soprattutto la minore deformabilità.
Analogamente a quanto detto per gli archi, anche per i ponti strallati possono individuarsi due schemi limite: quello di ponte a travata irrigidente, caratterizzato da un numero di stralli limitato e da una travata dotata di un’elevata rigidezza flessionale, e quello di schema a comportamento reticolare, nel quale alla trave è affidato solo il compito di trasferire ai due stralli adiacenti il carico agente su di essa. Una certa rigidezza della travata è comunque richiesta per contenere le deformazione locali dovute agli allungamenti degli stralli. Al primo schema si è ispirato Riccardo Morandi realizzando opere prestigiose:
Questi tre ponti strallati di Morandi sono caratterizzati da piloni a forma di A in direzione longitudinale; dalla sommità di ciascuno di questi partono 2 coppie di stralli, rispettivamente a monte e a valle del pilone, alle quali è sospeso (in sezioni prossime alle sue estremità) il tratto di impalcato disposto simmetricamente rispetto al pilone e costruito a sbalzo. L’impalcato poggia, nella sua parte centrale, anche sulle estremità superiori di un cavalletto a forma di V che parte dalla base del pilone, risultando così una trave continua su tre luci. Campate di accoppiamento o tampone, collegano le strutture descritte tra di loro e alle contigue parti del viadotto. Durante la costruzione gli stralli erano costituiti da soli trefoli in acciaio armonico inseriti in opportune guaine; a struttura completata e sovraccarichi permanenti applicati, i trefoli venivano rivestiti da un getto di calcestruzzo a sezione rettangolare, che veniva precompresso; infine, l’iniezione delle guaine rendeva solidali trefoli e calcestruzzo precompresso. Quindi, per i soli carichi mobili gli stralli si comportano come elementi in c.a.p..
L’adozione di un elevato numero di stralli semplifica notevolmente i particolari costruttivi relativi agli ancoraggi alla travata e riduce i problemi di montaggio, consentendo la realizzazione di ponti strallati di luci ben maggiori.
Sono stati costruiti negli anni ‘90: il Yang Pu Bridge in Shanghai (602 m), il Pont de Normandie in Francia (856 m), di cui si dirà in seguito, e il Tatara Bridge in Giappone (890 m). Successivamente, sono stati realizzati:
In relazione alla disposizione degli stralli ci sono due possibilità. Una è quella di schema a ventaglio, con gli stralli convergenti in sommità al pilone; l’ultimo strallo, detto di ormeggio, può essere ancorato alla travata o al suolo.
Nel primo caso gli sforzi orizzontali si chiudono nella struttura e il ponte si dice autoancorato: l’ultimo strallo non trasmette alcuna azione orizzontale in fondazione, ma comprime fortemente la travata; l’azione verticale, invece, va affidata comunque a un vincolo esterno.
Nel secondo caso si parla di ancoraggio esterno. L’altro tipo di disposizione degli stralli è ad arpa, con stralli paralleli, tutti con la stessa inclinazione.
Tra le realizzazioni notevoli, si ricordano:
Nel gennaio 1995 fu aperto al traffico il Pont de Normandie, che con i suoi 856 m stabilì un nuovo record nel campo delle grandi luci dei ponti strallati. Negli anni settanta si pensava che lo schema strallato non avrebbe consentito di superare luci superiori ai 500 m, anche se Fritz Leonhardt aveva proposto per lo Stretto di Messina un ponte strallato con luce centrale di 1300 m. La presentazione del progetto del Pont de Normandie alla conferenza sui ponti strallati a Bangkok nel 1987 aprì la strada all’utilizzo dei ponti strallati per il superamento delle grandi luci. Il successo fu tale da convincere le autorità giapponesi a modificare il progetto del Tatara Bridge da sospeso in strallato.
Pur avendo presto perso il primato di ponte strallato più lungo al mondo (lo è ancora in Europa), al Pont de Normandie resta il merito di aver per primo invaso il campo delle grandissime luci, riservato fino ad allora ai ponti sospesi. Anche per l’East Bridge del Great Belt Link in Danimarca fu progettato un ponte strallato con una luce della campata principale di 1200 m ma la necessità di raggiungere una luce di oltre 1600 m, superiore anche alla massima luce sospesa mai raggiunta a quel momento, fece optare per il ponte sospeso. Il Pont de Normandie ha richiesto uno studio statico e dinamico notevole, ma non è stato trascurato l’aspetto estetico, raggiungendo un raro equilibrio tra ingegneria e architettura. Le caratteristiche principali del ponte sono la forma aerodinamica dell’impalcato, che ha consentito di ridurre le azioni dovute al vento e di incrementare la stabilità aerodinamica, e l’elevata rigidità torsionale, conferita alla struttura dalla disposizione degli stralli, ancorati all’esterno della travata e convergenti al centro dei piloni. Questi hanno la forma di una Y rovesciata, particolarmente adatta a fronteggiare le azioni orizzontali del vento. La trave è in acciaio nella parte centrale, in cemento armato precompresso nelle zone in prossimità dei piloni e nelle campate laterali ed è vincolata rigidamente ai piloni e, nelle campate laterali, appoggiata su pile molto ravvicinate.
Nella parte meridionale del Giappone, tra gli anni ’80 e i primi anni 2000, un sistema di collegamenti tra le isole Honshu e Shikoku (tra cui il Seto Ohashi Bridge di cui già detto) che rappresenta una vera rassegna di ponti di grande luce, di notevole interesse ingegneristico.
Tra questi il ponte più lungo al mondo, l’Akashi Kaikyo Bridge, che scavalca lo stretto di Akashi senza creare ostacoli alla navigazione con una campata centrale di 1991 m. I due piloni poggiano su cassoni di acciaio larghi 80 m e alti 70 m, protetti dall’erosione dovute alle correnti tramite blocchi di roccia, e sono alti 283 m sul livello dell’acqua; sono stati costruiti con una gru elevabile e sono dotati di dissipatori a massa accordata, che smorzano le oscillazioni nella direzione longitudinale indotte dal vento. I due cavi sono stati posti in opera disponendo dapprima una fune pilota con un elicottero. L’analisi del comportamento dell’impalcato in presenza delle azioni del vento fu condotta con l’ausilio di prove in galleria. Si optò per una travata reticolare molto rigida, alta 14 m e dotata di stabilizzatori per ridurre le oscillazioni.
Molto accurata fu anche l’analisi sismica. Il ponte subì il terremoto di magnitudo 7.2, che il 17 gennaio 1995 distrusse Kobe e che aveva l’epicentro a soli 4 Km dal ponte. Fu verificata la formazione di una nuova faglia proprio sotto il ponte e fu misurato un allontanamento dei piloni di circa 80 cm. I piloni e i cavi, già esistenti al momento del sisma, non subirono danni, adattandosi alla nuova lunghezza. Il progetto della travata fu rivisto per adattarlo alla nuova lunghezza e la costruzione proseguì fino al completamento dell’opera nel 1998.
Il primato dell’Akashi Kaikyo Bridge durerà ancora a lungo ma è destinato ad essere superato: “Give us the plans, and we will build a bridge to heaven or to hell” recita un famoso motto.
Tra i progetti in cantiere spiccano quello per il collegamento fisso sullo stretto di Messina e quello dello stretto di Gibilterra, per il quale è stato proposto un sistema combinato sospeso-strallato con due campate centrali di 5000 m e due laterali di 2500 m.
Per quanto riguarda il Ponte sullo Stretto di Messina, oltre ai simpatici progetti di un tunnel sotterraneo, scartato per la notevole profondità dei fondali, e di Ponte di Archimede, ossia una galleria subacquea agganciata al fondo marino, sono state studiate le soluzioni di un ponte strallato, con piloni in acqua, e di un ponte sospeso.
Il progetto del ponte sospeso prevede la realizzazione dei piloni sulla terraferma, con una campata centrale di 3300 m. L’impalcato ospita 2 binari, 8 corsie autostradali e 4 per mezzi di soccorso stradale e ferroviario; l’altezza sul mare varia dai 64 m in corrispondenza dei piloni ai 70 m in mezzeria. Schermi frangivento con profili aerodinamici stabilizzatori assicurano la stabilità aeroelastica in presenza di vento fino a 270 km/h, mentre in presenza di vento a 100 km/h lo spostamento laterale in mezzeria è inferiore ai 2 m. L’impalcato è sospeso a due coppie di cavi di 1.24 m di diametro, con peso complessivo di acciaio pari a 1666 MN. Le torri, in acciaio, sono alte 370 m.
Particolari accorgimenti, quasi sempre innovativi, sono stati previsti in corrispondenza delle torri e delle strutture terminali per fronteggiare le azioni orizzontali e gli effetti termici. Colossali, infine, le opere di fondazione sia in corrispondenza dei piloni che degli ancoraggi delle funi al suolo. E’ previsto un sistema di monitoraggio per sorvegliare continuamente sia l’ambiente che il comportamento della struttura.
La corsa verso le grandi luci continua. L’incremento delle dimensioni dei mezzi natanti e del volume del traffico marino, e quindi dello spazio libero richiesto per la navigazione, determineranno la necessità di realizzare ponti di luce sempre maggiore. A favore di un incremento delle luci sono anche il minor costo di strutture a sviluppo orizzontale rispetto a quello di fondazioni profonde in acqua e i costi connessi al rischio di collisione di natanti contro i piloni dei ponti.
Al crescere della luce la struttura diviene sempre più pesante e un’alta percentuale della sua capacità portante è utilizzata per sostenere sé stessa. La luce limite, ossia quella per la quale il ponte è in grado di sopportare solo se stesso ma non carichi utili, dipende dallo schema strutturale ed è direttamente proporzionale alla resistenza del materiale utilizzato e inversamente proporzionale al suo peso specifico. Si comprende bene come il futuro dei ponti di grandissima luce sia affidato all’impiego di materiali più resistenti e più leggeri di quelli attuali, come materiali compositi, fibre di carbonio, leghe leggere, calcestruzzi ad alta resistenza, che sembrano promettere bene per il futuro ma al momento non sono ancora competitivi dal punto di vista economico.
“The war against the forces of nature” è, quindi, ancora aperta ma costruire un ponte rappresenta molto di più, come diceva ancora Strauss: “When you build a bridge, you build something for all time”.
È proprio vero: “Bridges are a monument to progress”.
Dedico questo articolo alla memoria di Aldo Raithel, indimenticabile e ineguagliabile Maestro di Costruzioni di Ponti.
Paolo Clemente
BIBLIOGRAFIA
Nota della Redazione: le figure non numerate sono state aggiunte dalla redazione
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